Please select your default edition
Your default site has been set

Warriors e Cavs imbattibili: c’è un problema di competitività in NBA?

NBA

Dario Vismara

LeBron James e Steph Curry, leader di Cleveland e Golden State (Foto Getty)
golden_state_cleveland

Il dominio di Golden State e Cleveland nelle finali di conference apre diverse questioni: i playoff 2017 sono meno “combattuti” rispetto agli scorsi anni? E questo è un bene o un male per la NBA? Proviamo a rispondere analizzando i dati delle ultime 15 stagioni

Con due squadre ancora imbattute nei playoff – prima volta nella storia della lega – che appaiono destinate a incontrarsi per la terza finale consecutiva – anche questa sarebbe una prima assoluta –, è inevitabile farsi una domanda: la NBA ha un problema di competitività nei playoff? O peggio ancora: vista la superiorità di Golden State e Cleveland rispetto alla concorrenza, questi playoff rischiano di diventare noiosi? Una domanda che ieri sera è stata posta anche a Kevin Durant in conferenza stampa, a cui ha risposto così: “Bisogna dare credito a chi è riuscito a vincere di 40 o più punti per essere andati in campo e aver dominato. È quello che tutti cerchiamo di fare ogni singola sera che giochiamo. I tifosi vogliono sempre vedere delle serie tirate, vorrebbero un buzzer beater a ogni partita. Ma non funziona così: ci sono anni in cui ci sono grandi serie di playoff con quattro o cinque gare-7 tutte assieme e altre volte succede quello che stiamo vedendo in questa stagione. Ma come giocatori vogliamo vincere ogni volta col massimo scarto possibile, giocare al nostro meglio e poi quello che succede, succede. Perciò direi questo ai tifosi che si sentono delusi: se non vi piace, non guardate”. Un’ultima frase che non piacerà particolarmente alla NBA – la cui vendita dei diritti televisivi ha provocato l’aumento del salary cap che, paradossalmente, ha creato lo spazio salariale che ha permesso a uno come Durant di andare agli Warriors… – ma che rende possibile fare un discorso più ampio: questi playoff sono davvero meno “combattuti” rispetto a quelli disputati da quando si gioca sempre al meglio delle sette partite?

Il bilancio degli ultimi quindici anni

Per provare a dare una risposta, abbiamo scelto insieme all’aiuto di Giovanni Serio di porre lo scarto che rende una partita “tirata” oppure no a quota 10. Ovviamente c’è molto rumore nei dati (basti pensare che gara-2 tra Boston e Washington è finita con 10 punti di scarto nonostante sia andata al supplementare), ma ci permette di avere una cifra tonda e facilmente comprensibile che ci possa dire come sono andati i playoff negli ultimi quindici anni, e se questa stagione rappresenta un’anomalia rispetto al recente passato oppure no. Nelle 70 partite disputate finora, il bilancio parziale ci dice che ci sono state 28 partite con scarto finale inferiore ai 10 punti e 42 con 10 o più punti di differenza tra le squadre in campo. Il problema congiunturale –quello cioè che ci fa “storcere il naso” in questo preciso momento – è che delle 28 partite sotto i 10 punti solamente quattro sono state disputate dal secondo turno in poi (mentre il bilancio era di 24-20 nel primo turno), e solamente gara-1 tra Warriors e Spurs nelle cinque partite di finale di conference giocate finora è stata chiusa sotto quota 10. Un trend che effettivamente conferma un’inversione cominciata già lo scorso anno: nei playoff 2016 il 61.63% delle partite è finito con scarto superiore ai 10 punti, mentre nei precedenti anni solo una volta è stata superata quota 60% (nel 2009: 61.2%) e solo altre cinque il 50%. Prendendo in considerazione lo scarto medio tra le due squadre, si nota un incremento sensibile negli ultimi due anni (14.49 nel 2016, 13.37 finora) rispetto a quanto successo prima, quando non era mai stata sfondata quota 13.

Il dominio delle stelle

Sui dati delle ultime stagioni pesano ovviamente i percorsi di Golden State e Cleveland, le ultime due squadre a vincere il titolo che solamente una volta sono state portate alla settima partita (OKC contro Golden State lo scorso anno) nelle proprie conference, con sole tre serie finite in sei partite. Un dominio che ha trovato ulteriore conferma quest’anno, perché a parte una manciata di partite le due squadre hanno continuamente inflitto agli avversari scarti in doppia cifra, ampliando il vantaggio di turno in turno invece che vederlo diminuire (anche perché gli altri hanno faticato molto di più per superare il turno). Ci sono vari motivi per questa particolare congiuntura: innanzitutto la forza delle due squadre, perché ci troviamo di fronte a due “All-Time Great Teams”, ma anche il fatto che i rispettivi roster sono ormai insieme da diverso tempo sviluppando una chimica fondamentale per avere successo (cosa che invece manca alla maggior parte delle avversarie in un’epoca in cui i contratti sono sempre più corti). Soprattutto, Warriors e Cavs possono contare sugli ultimi cinque MVP della lega in James, Durant e Curry. “It’s a star-driven league”, sono le stelle a decretare chi può competere per il titolo e chi no: avere a disposizione giocatori destinati alla Hall of Fame come quei tre (e un supporting cast di primissimo livello, ovviamente)  è un vantaggio competitivo enorme rispetto alla concorrenza, e per questo le loro squadre finiscono per dominare. Ma non è una situazione del tutto inedita: basti pensare che nell’era post-Michael Jordan uno tra Tim Duncan, Kobe Bryant, Shaquille O’Neal e LeBron James è sempre stato in campo nelle Finals.

Il problema degli infortuni e l’ultima pagina del libro

Allo stesso modo, gli infortuni sono una parte fondamentale di qualsiasi stagione. I Golden State Warriors dello scorso anno andarono a una sconfitta dall’eliminazione in finale di conference anche per le condizioni non perfette del ginocchio di Steph Curry, così come i Cavs si ritrovarono con la pagliuzza corta nel 2015 dopo aver perso Love e Irving nel corso dei playoff. Incidenti che non hanno impedito loro di arrivare comunque in finale (e qui entrano in gioco i supporting cast), ma bisogna anche notare che quest’anno hanno potuto affrontare squadre prive dei vari Kawhi Leonard e Isaiah Thomas (o, nei turni precedenti, Jusuf Nurkic, George Hill e Kyle Lowry) che ha reso il loro percorso un po’ più agevole. Ma quindi, tornando alle domande iniziali, la NBA ha un problema oppure no? La risposta ricade nella vecchia regola del “bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto”: nella prima visione, per la lega è un’ottima cosa avere due super-squadre in grado di segnare un’epoca (quanti ricordano con nostalgia gli anni ’80 delle sfide tra Lakers e Celtics?) e generare interesse attorno al basket, creando nuovi appassionati; dall’altra il fatto che si stacchino così tanto dal resto della concorrenza rende più difficile per le altre colmare il gap, anche perché Warriors e Cavs hanno potuto sfruttare congiunzioni molto particolari (e semi-irripetibili come Curry pagato solo 12 milioni a stagione o la già citata esplosione del cap) per poter creare i due roster attuali. Ma prima di giungere a conclusioni affrettate sulla qualità di questi playoff, però, conviene ricordare che anche nelle prime sei partite delle scorse Finali le due squadre si sono scambiate blowout a vicenda, e solamente in gara-7 hanno giocato una partita tirata fino alla fine. Questo però non ha impedito loro di regalarci un finale memorabile: a torto o a ragione, è sempre l’ultima pagina del libro a determinare il successo delle precedenti, cancellando anche i passaggi a vuoto che possono esserci stati precedentemente. E una finale che vede in campo da una parte Curry, Durant, Thompson e Green e dall’altra James, Irving e Love inevitabilmente riporterà gli spettatori a non cambiare canale, indipendentemente da quello che suggerisce “KD”.