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NBA, la mentalità di Miami: la "Heat Culture" è una cosa seria

NBA

David Breschi

Come ha fatto Miami a rimanere competitiva anche dopo gli addii di LeBron James, Chris Bosh e del figliol prodigo Dwyane Wade? La risposta sta nella "Heat Culture", il segreto degli uomini di coach Erik Spoelstra.

È opinione diffusa che per costruire una squadra da titolo sia necessario avere almeno una superstar a roster, e chi non ce l’ha non si fa scrupoli a smontare il roster fino al momento in cui non riesce a metterci le mani sopra. Via Draft, via trade, via free agency, fa poca differenza: se non hai uno o più picchi di talento attorno ai quali modellare la squadra, tanto vale ricominciare da capo e attendere il momento giusto. In una NBA che si è uniformata a questo assioma c’è una squadra che sta seguendo il percorso inverso: i Miami Heat negli ultimi due anni, per necessità più che per scelta, hanno assemblato una squadra senza stelle. Sono lontani i tempi in cui a Pat Riley bastava buttare gli anelli vinti sul tavolo per convincere i giocatori a scegliere gli Heat, quindi si reso necessario un approccio diverso e andare all-in sul marchio di fabbrica della franchigia, ciò che li rende diversi da tutte le altre 29 della NBA.

The hardest working, most professional, most unselfish, toughest, nastiest, most disliked, most prepared team in the NBA”. È questo manifesto della “Heat Culture”, non uno slogan buttato lì per vendere magliette, ma un fenomeno ben visibile nei fatti sul campo. Gli Heat vogliono essere la squadra che lavora più duramente, la più professionale e ligia al dovere, la più altruista, dura e intensa, sporca se c’è da sporcarsi le mani, la meno piacevole da affrontare e la più preparata della NBA. Che sia la squadra dei Big Three o di Goran Dragic e Hassan Whiteside ciò che realmente conta è competere, non lasciare nulla al caso, non accontentarsi mai del risultato ottenuto e puntare sempre al massimo obiettivo raggiungibile: vincere.

L’addio di Wade come momento di svolta

Per iniziare a comprendere la “Heat Culture” e la nascita di questa particolare squadra che si sta giocando un posto ai playoff è necessario andare indietro di un anno in una delle situazioni più disperate della storia della franchigia. La traumatica prima parte di regular season da 11 vittorie e 30 sconfitte - aggravata dal recente e traumatico divorzio con un “Heat Lifer” come Dwyane Wade - aveva portato la squadra sull’orlo del baratro a causa degli infortuni e del senso di impotenza per la piega che stava prendendo la stagione.

Come ha rivelato Zach Lowe recentemente, al culmine di un tour di partite in trasferte chiuso con una vittoria in sei partite preceduto da 6 sconfitte consecutive, Pat Riley e il suo braccio destro Andy Elisburg erano pronti a far saltare la stagione, tirare i remi in barca e iniziare a programmare per il Draft e il mercato estivo. La truppa di coach Erik Spoelstra invece nelle gare immediatamente successive si compattò attorno ai valori della “Heat Culture” e iniziò una delle corse più sorprendenti verso i playoff degli ultimi anni, perdendoli solo all’ultima gara di regular season per la classifica avulsa. Ciò nonostante, il record della seconda metà di stagione recitava un clamoroso 30-11 perfettamente speculare a quello della prima - una cosa mai successa prima nella storia della lega.

Gli Heat di oggi - che un mese fa avevano raggiunto il 4° posto nella Eastern Conference salvo imbeccare una striscia perdente che li ha fatto sprofondare all’attuale 8° -

sono nati delle ceneri di quegli Heat: mentre in estate gli Houston Rockets portavano a casa Chris Paul, gli Oklahoma City Thunder formavano i nuovi Big Three, Danny Ainge depreva i Cleveland Cavaliers di Kyrie Irving e chiunque cercava di aggiungere talento, gli Heat - una volta perso il grande obiettivo Gordon Hayward - hanno deciso di puntare sulla banda che aveva reso epico il finale di stagione per “combattere” un sistema, quello dei Super Team, che loro stessi avevano contribuito a creare con la formazione dei Big Three nel 2010.

Il nucleo di questa squadra è formato da giocatori scartati altrove, molti dei quali avevano un piede fuori dalla NBA o non ce lo avevano mai messo fermamente dentro: solo tre elementi - Justise Winslow, Josh Richardson e Bam Adebayo - provengono dal Draft, mentre in sei hanno provato sulla propria pelle l’esperienza della D-League. Per ognuno di loro Miami ha significato cambiare la propria carriera cogliendo l’occasione che gli è stata concessa - per alcuni l’ultima, per altri semplicemente irripetibile.

Nessuna stella capricciosa da soddisfare con minuti garantiti e palloni giocabili. Tutti coinvolti, tutti utili, tutti importanti, nessuno indispensabile. Chi non si sbuccia i gomiti in difesa va a sedere. Chi non contribuisce con il proprio mattoncino alla causa va a sedere. Chi in campo gioca seguendo i propri obiettivo personali va a sedere. Gli Heat sono una delle pochissime realtà NBA a non farsi scrupoli nel lasciare in panchina il primo, il secondo e il terzo giocatore più pagato a roster, rispettivamente Whiteside, Dragic e James Johnson. Non conta il pedigree, conta il verdetto del campo.

Cosa vuol dire “Heat Culture”

Se chiedete a ogni coach avversario cosa vuol dire affrontare gli Heat vi risponderà come Doc Rivers dopo la sconfitta casalinga dei suoi Clippers poco prima di Natale: “Non sono ammesse pause quando giochi contro di loro. Devi pareggiare per tutti e 48 i minuti l’intensità che mettono in campo per vincere. Sono sempre estremamente preparati, giocano sempre nel modo più intenso possibile, sono disciplinati in difesa e remano tutti nella stessa direzione”.

Disciplina, energia, intensità, collaborazione: quando gli Heat difendono così è pressoché impossibile segnare.

Intensità che non è frutto del caso, ma di un attento e meticoloso lavoro di preparazione atletica che punta a mettere i giocatori nella migliore condizione fisica della propria carriera. Quella della perfetta forma fisica è da sempre uno dei pallini di Pat Riley, un valore che ha tramandato al suo discepolo Erik Spoelstra: ci sono aneddoti ammantati di leggenda sugli allenamenti condotti da Riley a Los Angeles e New York in cui venivano posizionati dei secchi vuoti a fondo campo, usati dai giocatori per vomitare a causa dello sforzo delle intense sessioni di allenamento. Magic Johnson, quando ricorda quei tempi, dice che c’erano giorni in cui correvano per 45 minuti prima di toccare i palloni.

I workout estivi a cui si sottopongono i giocatori degli Heat sono massacranti: ogni giocatore ha un programma personalizzato da portare avanti, anche i nuovi arrivati che 6 settimane prima dell’inizio del training camp iniziano ad allenarsi secondo gli standard determinati dallo staff tecnico e dai preparatori. Esiste anche una regola interna per cui i giocatori durante gli allenamenti vengono multati di 100 dollari se vengono sorpresi a prendere fiato appoggiati sulle ginocchia. Ci sono squadre che nei primi giorni dei training camp partono soft perchè i veterani devono gestirsi: a Miami si fa sul serio da subito. Chi non è disposto a lavorare duramente non sopravvive al training camp.

I livelli di attenzione all’alimentazione e le percentuali di grasso corporeo sono altissimi: ogni lunedì i giocatori sono misurati e pesati, ognuno di loro ha un obiettivo da raggiungere e se non rispetta la tabella di marcia fioccano multe, e i giocatori del quintetto perdono il loro posto da titolare se non addirittura il minutaggio. Durante l’anno ad ogni giocatore vengono fatte tre foto a torso nudo - una all’inizio del training camp, una a metà stagione e una a fine giugno - per mostrare la trasformazione del fisico durante l’arco della stagione. È una pratica a cui i giocatori NBA non sono abituati, ma quando scoprono sulla loro pelle i risultati dentro e fuori dal campo ne sono entusiasti.

Wayne Ellington, che sta vivendo la miglior stagione in carriera, dalla scorsa estate ha ridotto dal 12% al 6% il suo indice di massa grassa: “Mi sento come se potessi correre per giorni. Non sento la stanchezza quando sono in difesa, non sento la stanchezza quando devo correre sui blocchi. Il mio corpo reagisce agli stimoli in tempi dimezzati rispetto al passato”.

Trovate un momento in queste clip in cui Ellington è fermo a riprendere fiato.

Chi accetta questo stile militaresco e lo fa proprio non solo viene trasformato nel fisico, ma nel portafogli: James Johnson e Dion Waiters sono reduci dalla miglior stagione delle rispettive carriere che gli sono valse il rinnovo a cifre quadruplicate rispetto al precedente ingaggio. Erano arrivati a Miami in condizioni fisiche dignitose, hanno perso rispettivamente 18 e 10 chilogrammi, il loro gioco ne ha risentito in meglio e oggi sono titolari di contratti plurimilionari.

È un tipo di approccio che non è per tutti: ci sono stati negli anni veterani che hanno giocato a Miami e si sono sottoposti al regime fisico imposto dalla franchigia, ma una volta diventati free agent hanno scelto di andarsene perchè gli standard erano troppo elevati. Ci sono stati free agent invece che non hanno preso in considerazione l’idea di firmare per gli Heat proprio perchè hanno sentito che da loro gli allenamenti sono duri e interminabili.

Il ritorno del figliol prodigo Dwyane Wade è stato acclamato da Pat Riley come una delle cose più belle che gli sono successe in carriera - oltre a un’operazione nostalgia in grado di far impennare il merchandising -  ma subito dopo, tra il serio e il faceto, ha fatto capire a Wade che per avere un ruolo di primo piano in questa squadra deve tornare in “forma Heat”, smettere di mangiare i pancake con lo sciroppo e ritrovare un’alimentazione più sana. Non si fanno sconti a nessuno, nemmeno al miglior giocatore della storia della franchigia.

Oltre all’enfasi sul condizionamento fisico, una specialità in casa Heat è lo sviluppo dei giocatori: il caso più eclatante di Player Development è l’altro Heat Lifer per eccellenza, Udonis Haslem. Uscito dal college era un centro di 200 centimetri per 130 kg che non poteva stare in campo a livello NBA; dopo aver ottenuto una chance a Miami è stato preso da un giovane Erik Spoelstra, al tempo assistente allenatore, e trasformato in una macchina da rimbalzi e tiro dai 5 metri, determinante in ognuno dei tre titoli vinti dagli Heat. Negli ultimi anni in campo c’è andato poco, ma la sua presenza in spogliatoio è tuttora determinante per istillare nei nuovi arrivati e nei giocatori più giovani le attitudini che hanno permesso a lui di diventare un giocatore NBA degno di enorme rispetto.

Ampliare il ventaglio di opzioni a disposizione

Josh Richardson, Tyler Johnson, Rodney McGruder, l’ultimo arrivato Bam Adebayo e ovviamente Hassan Whiteside sono il frutto del lavoro certosino di scouting e sviluppo della franchigia. Dove altri vedevano talento troppo grezzo, red flag o limiti, gli Heat hanno intravisto il potenziale e la possibilità di farli crescere secondo i propri criteri, in casa.

La “Cantera” in G-League dei Miami Heat, i Sioux Falls Skyforce, è piena zeppa di progetti intriganti e giocatori che in caso di necessità vengono gettati nella mischia con i “grandi”. Quando gli infortuni avevano decimato il settore esterni, Derrick Jones Jr. è partito in quintetto giocando sprazzi di ottima pallacanestro e Derrick Walton Jr. è entrato nelle rotazioni dando un contributo tangibile uscendo dalla panchina.

Gli Heat di Spoelstra raramente sono la squadra più talentuosa in campo, ma molto spesso sono la più versatile: il coach di origine filippina può mescolare i quintetti in base agli avversari, al periodo di forma dei giocatori, o semplicemente per fronteggiare l’emergenza infortuni. Se un giocatore deve fermarsi per un problema fisico, un altro è pronto a prendere il suo posto senza abbassare il livello - anzi, portando un nuovo ventaglio di opzioni a disposizione del coaching staff.

Nel corso della stagione gli Heat, per fronteggiare gli infortuni, hanno rimodellato un attacco incentrato sul penetra e scarica ricalibrandolo sul movimento vorticoso di uomini e palla. L’attacco non è propriamente tra i più efficienti della lega (anzi, è il sest’ultimo con 103.1 punti segnati su 100 possessi), ma la straordinaria abilità di coach Spoelstra nell’adattare il proprio sistema alle caratteristiche dei giocatori ha permesso agli Heat di installare un sistema di gioco molto fluido e dinamico in cui i giocatori sono sempre in movimento, tra tagli, blocchi e passaggi consegnati - il marchio di fabbrica del coach più vincente della storia della franchigia, che ne ha fatti giocare ben 660, secondi solamente ai Detroit Pistons.

Giocare molti passaggi consegnati permette agli Heat di muovere le difese e trovare quei vantaggi che altrimenti farebbero fatica a produrre.

I protagonisti del sistema

Questo nuovo stile di gioco ha permesso a Tyler Johnson di prendere confidenza e a Josh Richardson di consacrarsi come uno dei migliori 3&D della lega, salendo entrambi di livello e diventando giocatori di grande impatto a 360°. Anche Wayne Ellington e Kelly Olynyk in questo sistema più democratico sono diventati il terrore delle difese avversarie: il primo con la sua corsa incessante sui blocchi e la “gravità” che esercita nelle geometrie offensive che ricordano l’impatto di Kyle Korver e Klay Thompson; il secondo con l’intelligenza cestistica in fase di costruzione e il suo gioco fronte a canestro. Sono gli unici due giocatori del roster che hanno un Net Rating positivo e molto spesso sono stati loro a sbrogliare la matassa nelle vittorie più importanti della stagione.

Gli Heat sono diventati una squadra che massimizza il potenziale di tutti, tranne forse di un giocatore, Justise Winslow. Tre anni fa era l’oggetto dei desideri di una dozzina di team al Draft, ma l’infortunio alla spalla gli ha fatto perdere 64 partite nella scorsa stagione e rallentato il processo di crescita dopo un anno da rookie positivo, che aveva lasciato intravedere lampi di talento. Si parlava di lui come il nuovo Kawhi Leonard o Jimmy Butler, al momento è “solo” un giocatore solido in difesa che non ha un ruolo definito in attacco: il suo più grande difetto, il tiro, è migliorato ed è onesto, ma non è ancora affidabile. Ciò che sconcerta è la sua incapacità di finire al ferro: lo staff tecnico non ha ancora rinunciato a capire cosa può diventare, ma il tempo sta scadendo.

Hassan Whiteside rimane il perno attorno cui ruota la difesa degli Heat e gran parte degli equilibri offensivi. Vive di alti e bassi: quando è in serata è un problema per qualsiasi avversario per come riesce a dare profondità al gioco e costringere le difese a collassare in area, aprendo spazi per tiri smarcati o per uno-contro-uno a difesa mossa, oltre ad essere una calamita di rimbalzi sotto entrambi i tabelloni e un ostacolo difficile da superare quando chiude il ferro.

Con il roll a canestro di Whiteside la difesa collassa in area e apre la strada al tiro da tre piedi per terra di Tyler Johnson.

Nelle giornate in cui fa scendere in campo il fratello svogliato, Spoelstra non si fa problemi a panchinarlo e preferirgli l’energia illimitata di Bem Adebayo o la sostanza di Kelly Olynyk.

Dragic sta vivendo il suo miglior momento in maglia Heat: la convocazione all’All-Star Game è stato il coronamento di una stagione iniziata bene con l’oro europeo della sua Slovenia e il titolo di MVP di Eurobasket che lo ha riportato tra i migliori playmaker della NBA. La sua capacità di spezzare ogni difesa in penetrazione è rinomata, ed è uno dei motivi per cui Riley lo volle portare a Miami 4 anni fa cedendo ben due prime scelte al Draft (tra cui quella di quest’anno). In una squadra che fatica a fare grossi bottini, un giocatore in grado di battere l’uomo e produrre gioco per i compagni è una manna dal cielo e la chiave attraverso cui gli Heat possono innescare il movimento di palla che li rende pericolosi nonostante non ci sia uno scorer affidabile.

Le difese avversarie non possono concentrarsi su un solo giocatore perchè chiunque può emergere in singola serata a livello realizzativo. Nel corso delle prime prime 58 partite stagionali ci sono stati otto top scorer diversi e sono sempre otto i giocatori ad andare in doppia cifra di media, con il top dei 17.4 punti di Dragic fino ad arrivare ai 10.5 che segna James Johnson.

In questa azione tutti gli Heat ad eccezione di Ellington toccano il pallone, tutti sono pericolosi per la difesa che, mossa continuamente, dopo 7 passaggi si perde il roll a canestro di Johnson.

Proprio Johnson è un’altra delle chiavi degli Heat, nonostante non sia riuscito a replicare le cifre della scorsa stagione. Spoelstra non gli chiede di riempire il foglio delle statistiche ma di mettere in campo tutta la sua versatilità al servizio dei compagni, in attacco e in difesa: “La gente controlla quanti punti mette a referto” dice di lui Spoelstra “ma per noi non è importante. Ciò lo rende insostituibile è la sua leadership, la sua abnegazione e l’ispirazione che infonde nei compagni. Quando è in campo la cose per noi sono più semplici: può difendere sui lunghi e sugli esterni, creare gioco palla in mano, può segnare o mettere i compagni nelle condizioni di segnare. Ci dà quel tocco di imprevedibilità che rende difficile scoutizzarci”.

Un sistema egualitario che ha bisogno di un realizzatore

Scoutizzare gli Heat è impresa ardua visto che la rotazione è ampia - nessuno gioca più dei 34 minuti di Josh Richardson e in dieci hanno un minutaggio medio di almeno 20 minuti - e possono essere schierati in campo sempre cinque giocatori pericolosi in attacco e resilienti in difesa. Prima della pausa dell’All-Star Game il secondo quintetto più utilizzato da Spoelstra era il 71° complessivo della lega ed era la second unit ribattezzata “Platinum Group” composta da Richardson, Ellington, Winslow, Olynyk e Adebayo. Se consideriamo i quintetti in tutta la NBA con almeno 100 minuti giocati, quello degli Heat è il undicesimo per Net Rating con +16.4, peraltro viaggiando a ritmi bassissimi (meno di 92 possessi di media). Con questi giocatori in campo gli Heat hanno segnato 39 punti più degli avversari, il miglior differenziale di tutto il roster.

Tutta questa imprevedibilità ha i suoi pro e i suoi contro: se da una parte, senza un terminale di riferimento, gli Heat sono diventati una delle migliori squadre nei finali di partita grazie a una panchina in grado di produrre grandi parziali e un team in cui tutti possono mettere a segno la giocata decisiva, il rovescio della medaglia è dato dal fatto che spesso sono giunti nei finali in volata dilapidando grossi margini nel corso della partita perchè mancava il giocatore a cui affidare la palla nei momenti in cui la squadra non girava.

Spoelstra vorrebbe risolvere questo problema proprio con il ritorno di Dwyane Wade. Il fu “Flash” è l’ombra del giocatore che lasciò South Beach due stagioni fa (che già era in fase calante), ma in certi frangenti di partita, come facilitatore o grazie alle due doti realizzative ancora di alto livello, può portare a Miami quella stabilità che manca. Il più contento del suo ritorno è stato Hassan Whiteside che con Wade aveva sviluppato un’intesa ribadita dai continui lob che terminavano in tonanti schiacciate, e nelle prime uscite anche Adebayo è stato ricompensato a dovere dal numero 3. Integrarlo velocemente nel sistema di gioco - e rimetterlo in condizioni fisiche “da Heat” - è fondamentale per affrontare la seconda parte di stagione con il piglio giusto.

Il rush finale della stagione

Dopo un mese di gennaio travolgente, da 10 vittorie in 15 partite gli Heat sono incappati in un vortice di sconfitte, 7 nelle ultime 8, compresa una striscia di 5 risultati negativi che hanno ridimensionato le ambizioni. In questo lasso di tempo Miami - che è una squadra dalla forte impronta difensiva, l’ottava migliore della lega - ha iniziato a scricchiolare nella propria metà campo difensiva ed è sprofondata in attacco, confezionando il terz’ultimo Offensive Rating della lega nonché il peggiore tra le squadre che lottano per i playoff.

La pausa per l’All-Star Game è dunque capitata a fagiolo: gli Heat si sono chiusi in palestra per ritrovare con il duro lavoro la serenità necessaria per farsi trovare pronti al rush finale, in cui al contrario della scorsa stagione vogliono essere padroni del proprio destino. Il finale prevede una serie di scontri diretti che saranno decisivi per determinare raggiungimento della postseason: gli Heat dovranno giocare due match delicati contro i Philadelphia 76ers che li precedono in classifica, una gara interna contro i Detroit Pistons che li incalzano a mezza partita di distanza per l’ultimo posto disponibile ai playoff e altri spareggi importanti contro gli Washington Wizards (due volte) e Indiana Pacers.

I Miami Heat sono pronti a tornare la mina vagante della prima partite di stagione, quella sporca dozzina di giocatori che nessuno sano di mente vuole ritrovarsi davanti quando la posta in palio si alza. Con la “Heat Culture”, la loro versatilità e uno staff tecnico di livello assoluto, hanno le carte in regola per dare fastidio a tutti.