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NBA, LeBron supera Jordan: come è diventato il numero 1 ai playoff

NBA

Dario Vismara

Toccando quota 29 punti, LeBron James ha superato il suo idolo Michael Jordan al primo posto nella classifica marcatori della storia dei playoff NBA. Nel dopo partita la stella dei Cleveland Cavaliers ha parlato a lungo del suo risultato e del suo rapporto con il “fantasma” di MJ

Nella scorsa estate, durante un incontro con i ragazzi del suo tradizionale camp di Las Vegas, rispondendo a una domanda LeBron James ha confessato cosa lo continua a motivare: “Sto inseguendo un fantasma. Un fantasma che giocava a Chicago”. Una confessione ovviamente colta a favore di reporter, visto che James era perfettamente consapevole che Lee Jenkins di Sports Illustrated (il giornalista con cui ha scritto a quattro mani la famosa lettera del suo ritorno a Cleveland) era presente con il registratore acceso, in attesa di un titolo per la sua feature dopo la vittoria del terzo titolo, il primo con i suoi Cavs. L’inseguimento al fantasma è ancora in corso e durerà fino alla fine della carriera del Re, ma stanotte James ha fatto un piccolo passo per colmare la distanza: con una serie di tre triple consecutive, la stella dei Cleveland Cavaliers ha superato Michael Jordan a quota 5.987 punti segnati, diventando il miglior realizzatore nella storia dei playoff NBA. James si è poi fermato a 5.995 chiudendo con 35 punti l’ultimo episodio della serie contro i Boston Celtics, avanzando alle settime finali consecutive, le ottave della sua incredibile carriera. Solo i membri dei grandi Celtics degli anni ’60 sono riusciti a disputare più finali consecutive di James, ma in un’epoca in cui c’erano meno di 10 squadre in tutta la lega e bastava una sola serie vinta per andare a giocarsi il titolo. Non esattamente lo stesso scenario che hanno dovuto affrontare Jordan e James nelle loro carriere.

Sulle spalle dei giganti

In questi playoff, iniziati a quota 5.572 punti, James ha superato in rapida successione Kobe Bryant (5.640), Kareem Abdul-Jabbar (5.762) e ora Jordan, sul quale ha speso ovviamente molte parole nel post-partita. “Vedere il mio nome nelle discussioni con il miglior giocatore di tutti i tempi è, tipo… Wow” ha commentato LeBron. “Vesto il numero 23 perché lo aveva Mike. Mi sono innamorato del gioco perché c’era Mike, solo per quello che è riuscito a raggiungere. Quando vedevi giocare Michael Jordan era come un dio. E per questo non pensavo mai di poter diventare Mike”. Una cosa che però non gli ha impedito di imitarlo: “Facevo tutto quello che faceva lui: tiravo in allontanamento prima di quando avrei dovuto; avevo un lungo scaldamuscolo sul polpaccio che tenevo girato per far vedere la parte rossa; indossavo scarpe nere e rosse con calzini bianchi; tenevo i calzoncini corti per poter far vedere gli scaldamuscoli sotto. Non sono diventato calvo come Mie, ma mi ci sto avvicinando – anche se la mia calvizie arriverà dopo che la mia carriera sarà finita” ha scherzato LBJ. “Ma a parte quello, ho fatto tutto quello che ha fatto Mike. Volevo essere come Mike, perciò vedere il mio nome in qualsiasi discussione con Jordan o Kareem o tutti quei giocatori che hanno spianato la strada per gente come Tristan [Thompson], Kevin [Love] e Swish [JR Smith, tutti vicini a lui in conferenza stampa mentre si scattavano selfie, ndr] è una cosa wow. Non ho davvero nient’altro da dire”.

Il percorso fino alla cima

Che James volesse togliersi il “peso” di superare Jordan è leggibile nel fatto che ha portato a Boston un paio di Air Jordan I bianche e rosse, le scarpe più iconiche della carriera di MJ indossate durante la conferenza stampa, mentre J.R. Smith portava le scarpe rese famose da Scottie Pippen, la “spalla” più famosa della storia del gioco. Un ruolo che in realtà sarebbe più da affidare a Kyrie Irving – che utilizzando un’ampia dose di parolacce lo ha invitato a festeggiare di più il risultato, celebrato inizialmente da James con un solo indice verso l’alto prima di tornare in panchina. Una posa meno iconica rispetto a quanto fatto dalla celebre posa statuaria tenuta da MJ dopo aver segnato il canestro decisivo di gara-6 contro gli Utah Jazz nel 1998, i punti numero 5.986 e 5.987 della sua indimenticabile carriera. Jordan ha raggiunto quella quota in 179 partite contro le 212 di James, tenendo una media di 33.4 punti a partita con il 50.3 di percentuale effettiva contro i 28.3 con il 52% di eFG di LeBron, che a suo favore ha un numero minore di tiri tentati (4.379) rispetto a quelli utilizzati da Jordan (4.497) per sfiorare quota 6.000.

“Io sono un playmaker”

Nonostante i paragoni siano inevitabili, James ha tenuto a sottolineare quanto lui e Jordan siano giocatori fondamentalmente diversi: “Io non sono un realizzatore e non voglio essere etichettato come tale. Sono in grado di mettere il pallone nel canestro, ma sono un playmaker. Sono un giocatore di basket. Mettimi in campo e riesco a trovare modi di avere successo” ha detto James, che è nella top-10 della storia dei playoff per rimbalzi (settimo), assist (terzo) e recuperi (secondo) oltre ad aver raggiunto il terzo posto per triple giusto stanotte. “Abbiamo avuto tanti grandi realizzatori nella storia, giocatori che han fatto la storia tirando tante volte e segnando ad alte percentuali. Io non sono uno di quelli. Sono sempre stato felice nel vedere la mia squadra e i miei compagni avere successo, come è accaduto in gara-4 con Kyrie”. Se Jordan ha ridefinito il ruolo del “Go-To Guy”, James vuole essere ricordato in un altro modo: “La cosa più importante dell’aver battuto il record oggi è che ci sono riuscito rimanendo me stesso. Non devo segnare per avere un impatto su una partita. È sempre stata la mia mentalità sin da quando ho iniziato: se non riesco a segnare, come posso comunque avere un impatto sulla gara? Mi ha portato fino a questo punto e lo farà per il resto della mia carriera”.

Be Like LeBron

Quello che a James interessa, più che “superare gli anelli, i punti o gli MVP”, è avere un impatto sulle generazioni future come quello avuto da MJ con lo slogan “Be Like Mike”, da far diventare “Be Like LeBron”. “Quello è stato il piano fin da quando ho iniziato a prendere sul serio questo gioco: riuscire a far passare l’idea che passare la palla è OK, che fare l’extra pass è OK, che attirare due difensori e fare la giocata giusta indipendentemente che si vinca o che si perda è OK. Perché segnare tanti punti è tenuto in grande considerazione nel nostro sport, ma io voglio che i fondamentali del gioco siano al massimo livello possibile. Quindi se un ragazzino dalla costa Ovest alla Est, dal Midwest al Sud può guardare come gioco e dire: ‘Ok, ho fatto l’extra pass perché lo ha fatto LeBron’ o ‘Sono andato a fare una ‘chasedown block’ e non mi sono dato per vinto perché lo ha fatto LeBron’, questo per me vorrebbe dire più di qualsiasi altra cosa”. Forse il fantasma può essere superato anche in modi diversi rispetto al semplice vincere titoli o segnare punti, ed è sempre bene ricordarlo quando ci si lancia in discussioni su chi sia il più grande giocatore di sempre.