
La copertina del libro scritto da Roberto Torti con Silvia Parisi sulla vita di Giovanni, oro Olimpico
Roberto Torti racconta la vita di Giovanni Parisi, indimenticato campione del pugilato azzurro oro alle Olimpiadi di Seul 1988, attraverso i suoi match ma non solo: amici, luoghi e oggetti compongono un racconto "sentimentale"
Domenica 2 ottobre 1988, giornata conclusiva delle Olimpiadi di Seul. Alle nove di mattina ora locale, quando in Italia è ancora l’una di notte, i pesi piuma aprono il programma delle finali di pugilato. Con la canottiera azzurra e il numero 0431 sulla schiena, un ricciolo sulla nuca che gli esce dal caschetto rosso e una selezione di cose ben fisse in testa, Giovanni Parisi sale i quattro gradini del ring per ritrovarsi nel posto esatto in cui aveva sempre dichiarato di poter arrivare, tracciando una linea retta fra Voghera e il più ardito dei sogni, sfidando gli sguardi increduli di chi non ci avrebbe scommesso mezza lira. E in 101 secondi — che cosa saranno mai 101 secondi, dopo 20 anni e 304 giorni di corsa e di dolore? — in effetti si sistema tutto, come se i pianeti di botto si fossero riallineati sulla testa di Giovanni e lungo la direttrice del suo braccio sinistro. Il mondo, seduto davanti alla Tv, assiste al miliardesimo ko della storia del pugilato senza vedere bene — proprio come il tizio con i baffi — il pugno che lo determina. Troppo diretto, troppo veloce. Non si vince un’Olimpiade facendo cose normali, certo. Ma quel pugno va oltre il concetto di eccellenza e nel suo disegno perfetto sfugge anche alla scomposizione del replay. È un istante dalla dinamica misteriosa perché si tramanda attraverso un filmato in apparenza fuori sincrono, che non dà riferimenti e tradisce lo spettatore.
A un certo punto — che assurdità — si vede un sinistro di Parisi andare a vuoto ed è quello, beffardamente, il segno che il match finisce. Cos’è, un trucco? Stai guardando una cosa e te ne fanno credere un’altra, come quando mettono la donna nel baule, la segano in due, poi la ricompongono? Sì, proprio così: tu fissi i gesti del prestigiatore e intanto la valletta chissà dov’è andata. Ma questo è circo. Il pugilato è altro. È verità. Guarda i nasi, guarda le sopracciglia, non c’è trucco. E allora — più che un effetto speciale — è un gesto vagamente soprannaturale: come spiegarlo altrimenti? Tu osservi questo Dumitrescu andare al tappeto, di spalle, e nel breve lasso di tempo il cui il suo sedere tocca terra ci pensi e — come lui, del resto — non capisci. Il pugno fatale non si vede: lo si intuisce, lo si suppone da certe movenze. Dev’essere potente, questo sì. E veloce, velocissimo, istantaneo. Parte e arriva. Il braccio torna in posizione con il carniere pieno. È già successo tutto — si potrebbe già intonare l’inno — quando Parisi ne carica un secondo che non determina nulla, è inutile, nemmeno tanto coreografico. Ed è questo gesto, nell’inganno del momento, che tutti guardano pensando di avere compreso la trama. Migliaia di persone in quel palazzetto, milioni davanti a un televisore. Unite da un’illusione. Tutto così veloce che nessuno si accorge di nulla. Tutti a seguire il secondo tragitto del guantone — il prestigiatore sta segando il baule, ma la donna è già al sicuro —, tutti avvinti da quella sequenza, mentre Parisi in realtà ha già vinto. L’Italia esulta, in sostanza, guardando altro. Che meravigliosa ingiustizia per quel sinistro — il primo, quello vero, un sinistro fantastico — che resta indefinito nonostante milioni di repliche rallentate.
Miliardi e miliardi di pugni, da cui distilli i più importanti che rintracci o ricordi o rievochi dando loro un contorno, colorando il bianco e nero. Monzon-Griffith, 25 settembre 1971, Buenos Aires, round 14, minuto 2’ 30”. Gancio destro, gancio sinistro, nessuna tregua, l’argentino suona Emile come una campana. Una enciclopedia a duecento volumi, un album con migliaia di immagini, un percorso sensoriale a quattro dimensioni tra suoni e umori. Ali-Foreman, 30 ottobre 1974, Kinshasa, round 8, minuto 2’ 47”. Un destro e un sinistro, nella stessa frazione di secondo, entrambi sulla faccia di George Foreman. L’incontro finisce dieci secondi più tardi, il tempo che l’arbitro conti fino a dieci, appunto. Una teoria infinita di colpi che fanno la storia dello sport, punteggiano l’epica del pugilato, chiamano l’applauso, spezzano il fiato, spaventano ed esaltano. Hearns-Duran, 15 giugno 1984, Las Vegas, round 2, minuto 0’ 58”. Gancio destro di Hearns, spaventoso, con Duran già alle corde. «Mano de Pedra» cade in avanti, di faccia, e crolla sul tappeto. Frammenti di grande boxe. Invenzioni dei migliori interpreti. A cui un giorno si aggiunge questo: Parisi-Dumitrescu, 2 ottobre 1988, round 1, minuto 1’ 41”. Un sinistro, uno in più, da non dimenticare.
Un sinistro. Non un pugno normale. Normalmente bello, o normalmente potente. Un pugno speciale. Vale una medaglia d’oro olimpica — e questo basterebbe a isolarne il valore — e sfugge a ogni spiegazione. Che non è solo tecnica, non sarebbe giusto. Deve essere anche intima, spirituale, assoluta. Ogni pugile tira milioni di pugni. Su avversari, sparring, sacchi, punching-ball. Come i calciatori tirano milioni di calci al pallone, eccetera. Ci sarà sempre qualcuno che ti chiederà a fine carriera di ricordarti di un pugno o di un calcio. Tu ci penserai, selezionerai, spremerai. Ti resterà poco in mano, il meglio. Ecco, in quel pugno c’è il meglio di Giovanni Parisi. Ne avrà anche tirati di più forti o di più redditizi. Ma Parisi è quel pugno. È il pugno — manifesto, eppure invisibile — che lo rivela al mondo. E per scoprire da dove è arrivato (da dove è arrivato davvero) è inutile guardare e riguardare quel filmato. Bisogna partire dall’inizio. Che non è a Vibo Valentia, il 2 dicembre 1967. Ma è a Voghera, una mattina dell’autunno 1978."
Roberto Torti