"Il pugno invisibile. Essere G. Parisi". Il primo capitolo
Altri SportRoberto Torti racconta la vita di Giovanni Parisi, indimenticato campione del pugilato azzurro oro alle Olimpiadi di Seul 1988, attraverso i suoi match ma non solo: amici, luoghi e oggetti compongono un racconto "sentimentale"
"Per chiudere i mille cerchi che deve chiudere, e prendersi le centomila rivincite che deve prendersi, Giovanni Parisi aspetta di essere in mondovisione, a otto ore di fuso orario e a diecimila chilometri da casa. In un tempo tutto sommato brevissimo — 20 anni e 304 giorni — completa la sua personale rimonta: partito dall’ultima fila, costretto al percorso più accidentato, tenuto lontano da ogni possibile scorciatoia, vive 20 anni e 304 giorni così, come una corsa a testa bassa, adattandosi da subito alla pura sofferenza, allungando il passo e sgomitando quand’è il caso, superando molti avversari e schivando altrettanti tranelli. Combattendo contro un destino già scritto e che non gli piace. Sì, esatto: combattendo. Fino a quando, appunto, un giorno alza lo sguardo e davanti non vede più nessuno, sta scollinando e quasi non se n’è accorto. Si gira e nota che sono tutti dietro. Tutti tranne uno: un tizio con i baffi, che arranca al suo fianco prima dell’ultima curva e vuole superarlo, non c’è dubbio, spinto anche lui da una certa rabbia e da una certa aspirazione, con la stessa voglia di alzare le braccia e urlare, la stessa dannata ossessione di cerchi e di rivincite che rimbalzano nel cuore e cervello perché manca poco, sei lì a un passo, ormai non si scappa, tra pochi minuti saprai, sapranno tutti. Ancora uno sforzo, l’ultimo. Uno sforzo di sintesi: ripensare ai tuoi 20 anni e 304 giorni a testa bassa, a tua madre che è morta da nemmeno cinque mesi, a tutto il sudore speso, alle lacrime versate, alla merda mangiata. Convogliare tutto questo in una sola direzione. Fissare un punto. Aprire un varco. Entrare.
Domenica 2 ottobre 1988, giornata conclusiva delle Olimpiadi di Seul. Alle nove di mattina ora locale, quando in Italia è ancora l’una di notte, i pesi piuma aprono il programma delle finali di pugilato. Con la canottiera azzurra e il numero 0431 sulla schiena, un ricciolo sulla nuca che gli esce dal caschetto rosso e una selezione di cose ben fisse in testa, Giovanni Parisi sale i quattro gradini del ring per ritrovarsi nel posto esatto in cui aveva sempre dichiarato di poter arrivare, tracciando una linea retta fra Voghera e il più ardito dei sogni, sfidando gli sguardi increduli di chi non ci avrebbe scommesso mezza lira. E in 101 secondi — che cosa saranno mai 101 secondi, dopo 20 anni e 304 giorni di corsa e di dolore? — in effetti si sistema tutto, come se i pianeti di botto si fossero riallineati sulla testa di Giovanni e lungo la direttrice del suo braccio sinistro. Il mondo, seduto davanti alla Tv, assiste al miliardesimo ko della storia del pugilato senza vedere bene — proprio come il tizio con i baffi — il pugno che lo determina. Troppo diretto, troppo veloce. Non si vince un’Olimpiade facendo cose normali, certo. Ma quel pugno va oltre il concetto di eccellenza e nel suo disegno perfetto sfugge anche alla scomposizione del replay. È un istante dalla dinamica misteriosa perché si tramanda attraverso un filmato in apparenza fuori sincrono, che non dà riferimenti e tradisce lo spettatore.
A un certo punto — che assurdità — si vede un sinistro di Parisi andare a vuoto ed è quello, beffardamente, il segno che il match finisce. Cos’è, un trucco? Stai guardando una cosa e te ne fanno credere un’altra, come quando mettono la donna nel baule, la segano in due, poi la ricompongono? Sì, proprio così: tu fissi i gesti del prestigiatore e intanto la valletta chissà dov’è andata. Ma questo è circo. Il pugilato è altro. È verità. Guarda i nasi, guarda le sopracciglia, non c’è trucco. E allora — più che un effetto speciale — è un gesto vagamente soprannaturale: come spiegarlo altrimenti? Tu osservi questo Dumitrescu andare al tappeto, di spalle, e nel breve lasso di tempo il cui il suo sedere tocca terra ci pensi e — come lui, del resto — non capisci. Il pugno fatale non si vede: lo si intuisce, lo si suppone da certe movenze. Dev’essere potente, questo sì. E veloce, velocissimo, istantaneo. Parte e arriva. Il braccio torna in posizione con il carniere pieno. È già successo tutto — si potrebbe già intonare l’inno — quando Parisi ne carica un secondo che non determina nulla, è inutile, nemmeno tanto coreografico. Ed è questo gesto, nell’inganno del momento, che tutti guardano pensando di avere compreso la trama. Migliaia di persone in quel palazzetto, milioni davanti a un televisore. Unite da un’illusione. Tutto così veloce che nessuno si accorge di nulla. Tutti a seguire il secondo tragitto del guantone — il prestigiatore sta segando il baule, ma la donna è già al sicuro —, tutti avvinti da quella sequenza, mentre Parisi in realtà ha già vinto. L’Italia esulta, in sostanza, guardando altro. Che meravigliosa ingiustizia per quel sinistro — il primo, quello vero, un sinistro fantastico — che resta indefinito nonostante milioni di repliche rallentate.
Miliardi e miliardi di pugni, da cui distilli i più importanti che rintracci o ricordi o rievochi dando loro un contorno, colorando il bianco e nero. Monzon-Griffith, 25 settembre 1971, Buenos Aires, round 14, minuto 2’ 30”. Gancio destro, gancio sinistro, nessuna tregua, l’argentino suona Emile come una campana. Una enciclopedia a duecento volumi, un album con migliaia di immagini, un percorso sensoriale a quattro dimensioni tra suoni e umori. Ali-Foreman, 30 ottobre 1974, Kinshasa, round 8, minuto 2’ 47”. Un destro e un sinistro, nella stessa frazione di secondo, entrambi sulla faccia di George Foreman. L’incontro finisce dieci secondi più tardi, il tempo che l’arbitro conti fino a dieci, appunto. Una teoria infinita di colpi che fanno la storia dello sport, punteggiano l’epica del pugilato, chiamano l’applauso, spezzano il fiato, spaventano ed esaltano. Hearns-Duran, 15 giugno 1984, Las Vegas, round 2, minuto 0’ 58”. Gancio destro di Hearns, spaventoso, con Duran già alle corde. «Mano de Pedra» cade in avanti, di faccia, e crolla sul tappeto. Frammenti di grande boxe. Invenzioni dei migliori interpreti. A cui un giorno si aggiunge questo: Parisi-Dumitrescu, 2 ottobre 1988, round 1, minuto 1’ 41”. Un sinistro, uno in più, da non dimenticare.
Un sinistro. Non un pugno normale. Normalmente bello, o normalmente potente. Un pugno speciale. Vale una medaglia d’oro olimpica — e questo basterebbe a isolarne il valore — e sfugge a ogni spiegazione. Che non è solo tecnica, non sarebbe giusto. Deve essere anche intima, spirituale, assoluta. Ogni pugile tira milioni di pugni. Su avversari, sparring, sacchi, punching-ball. Come i calciatori tirano milioni di calci al pallone, eccetera. Ci sarà sempre qualcuno che ti chiederà a fine carriera di ricordarti di un pugno o di un calcio. Tu ci penserai, selezionerai, spremerai. Ti resterà poco in mano, il meglio. Ecco, in quel pugno c’è il meglio di Giovanni Parisi. Ne avrà anche tirati di più forti o di più redditizi. Ma Parisi è quel pugno. È il pugno — manifesto, eppure invisibile — che lo rivela al mondo. E per scoprire da dove è arrivato (da dove è arrivato davvero) è inutile guardare e riguardare quel filmato. Bisogna partire dall’inizio. Che non è a Vibo Valentia, il 2 dicembre 1967. Ma è a Voghera, una mattina dell’autunno 1978."
Roberto Torti
Domenica 2 ottobre 1988, giornata conclusiva delle Olimpiadi di Seul. Alle nove di mattina ora locale, quando in Italia è ancora l’una di notte, i pesi piuma aprono il programma delle finali di pugilato. Con la canottiera azzurra e il numero 0431 sulla schiena, un ricciolo sulla nuca che gli esce dal caschetto rosso e una selezione di cose ben fisse in testa, Giovanni Parisi sale i quattro gradini del ring per ritrovarsi nel posto esatto in cui aveva sempre dichiarato di poter arrivare, tracciando una linea retta fra Voghera e il più ardito dei sogni, sfidando gli sguardi increduli di chi non ci avrebbe scommesso mezza lira. E in 101 secondi — che cosa saranno mai 101 secondi, dopo 20 anni e 304 giorni di corsa e di dolore? — in effetti si sistema tutto, come se i pianeti di botto si fossero riallineati sulla testa di Giovanni e lungo la direttrice del suo braccio sinistro. Il mondo, seduto davanti alla Tv, assiste al miliardesimo ko della storia del pugilato senza vedere bene — proprio come il tizio con i baffi — il pugno che lo determina. Troppo diretto, troppo veloce. Non si vince un’Olimpiade facendo cose normali, certo. Ma quel pugno va oltre il concetto di eccellenza e nel suo disegno perfetto sfugge anche alla scomposizione del replay. È un istante dalla dinamica misteriosa perché si tramanda attraverso un filmato in apparenza fuori sincrono, che non dà riferimenti e tradisce lo spettatore.
A un certo punto — che assurdità — si vede un sinistro di Parisi andare a vuoto ed è quello, beffardamente, il segno che il match finisce. Cos’è, un trucco? Stai guardando una cosa e te ne fanno credere un’altra, come quando mettono la donna nel baule, la segano in due, poi la ricompongono? Sì, proprio così: tu fissi i gesti del prestigiatore e intanto la valletta chissà dov’è andata. Ma questo è circo. Il pugilato è altro. È verità. Guarda i nasi, guarda le sopracciglia, non c’è trucco. E allora — più che un effetto speciale — è un gesto vagamente soprannaturale: come spiegarlo altrimenti? Tu osservi questo Dumitrescu andare al tappeto, di spalle, e nel breve lasso di tempo il cui il suo sedere tocca terra ci pensi e — come lui, del resto — non capisci. Il pugno fatale non si vede: lo si intuisce, lo si suppone da certe movenze. Dev’essere potente, questo sì. E veloce, velocissimo, istantaneo. Parte e arriva. Il braccio torna in posizione con il carniere pieno. È già successo tutto — si potrebbe già intonare l’inno — quando Parisi ne carica un secondo che non determina nulla, è inutile, nemmeno tanto coreografico. Ed è questo gesto, nell’inganno del momento, che tutti guardano pensando di avere compreso la trama. Migliaia di persone in quel palazzetto, milioni davanti a un televisore. Unite da un’illusione. Tutto così veloce che nessuno si accorge di nulla. Tutti a seguire il secondo tragitto del guantone — il prestigiatore sta segando il baule, ma la donna è già al sicuro —, tutti avvinti da quella sequenza, mentre Parisi in realtà ha già vinto. L’Italia esulta, in sostanza, guardando altro. Che meravigliosa ingiustizia per quel sinistro — il primo, quello vero, un sinistro fantastico — che resta indefinito nonostante milioni di repliche rallentate.
Miliardi e miliardi di pugni, da cui distilli i più importanti che rintracci o ricordi o rievochi dando loro un contorno, colorando il bianco e nero. Monzon-Griffith, 25 settembre 1971, Buenos Aires, round 14, minuto 2’ 30”. Gancio destro, gancio sinistro, nessuna tregua, l’argentino suona Emile come una campana. Una enciclopedia a duecento volumi, un album con migliaia di immagini, un percorso sensoriale a quattro dimensioni tra suoni e umori. Ali-Foreman, 30 ottobre 1974, Kinshasa, round 8, minuto 2’ 47”. Un destro e un sinistro, nella stessa frazione di secondo, entrambi sulla faccia di George Foreman. L’incontro finisce dieci secondi più tardi, il tempo che l’arbitro conti fino a dieci, appunto. Una teoria infinita di colpi che fanno la storia dello sport, punteggiano l’epica del pugilato, chiamano l’applauso, spezzano il fiato, spaventano ed esaltano. Hearns-Duran, 15 giugno 1984, Las Vegas, round 2, minuto 0’ 58”. Gancio destro di Hearns, spaventoso, con Duran già alle corde. «Mano de Pedra» cade in avanti, di faccia, e crolla sul tappeto. Frammenti di grande boxe. Invenzioni dei migliori interpreti. A cui un giorno si aggiunge questo: Parisi-Dumitrescu, 2 ottobre 1988, round 1, minuto 1’ 41”. Un sinistro, uno in più, da non dimenticare.
Un sinistro. Non un pugno normale. Normalmente bello, o normalmente potente. Un pugno speciale. Vale una medaglia d’oro olimpica — e questo basterebbe a isolarne il valore — e sfugge a ogni spiegazione. Che non è solo tecnica, non sarebbe giusto. Deve essere anche intima, spirituale, assoluta. Ogni pugile tira milioni di pugni. Su avversari, sparring, sacchi, punching-ball. Come i calciatori tirano milioni di calci al pallone, eccetera. Ci sarà sempre qualcuno che ti chiederà a fine carriera di ricordarti di un pugno o di un calcio. Tu ci penserai, selezionerai, spremerai. Ti resterà poco in mano, il meglio. Ecco, in quel pugno c’è il meglio di Giovanni Parisi. Ne avrà anche tirati di più forti o di più redditizi. Ma Parisi è quel pugno. È il pugno — manifesto, eppure invisibile — che lo rivela al mondo. E per scoprire da dove è arrivato (da dove è arrivato davvero) è inutile guardare e riguardare quel filmato. Bisogna partire dall’inizio. Che non è a Vibo Valentia, il 2 dicembre 1967. Ma è a Voghera, una mattina dell’autunno 1978."
Roberto Torti