Omar Hassan, l'arte in pugno: nato per combattere

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Alfredo Corallo

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Abbiamo incontrato l'artista e performer italo-egiziano Omar Hassan, convinto sostenitore dello sport come metafora di vita, essenza della sua ricerca pittorica. Diabetico dall'età di 7 anni, inizia prestissimo a dipingere prima di appassionarsi anche alla boxe. Con un messaggio per Salah in vista della finale di Champions e dei Mondiali: "Forza Momo, tifo per te"

Omar Hassan sfugge alla filosofia del Tempo, come il biònico Salah. Ne studia le mosse, ambigue: ha imparato a combatterlo, assecondarlo, fino a ridisegnarne i connotati in una logica metafisica, intangibile, prima ancora che corporea. "Sono ossessionato dalla scansione del tempo, che passa, che non ci sentiamo ma ci vediamo addosso, che è una costante ma che non possiamo realmente né vedere né mettere per iscritto. Come Kandinsky, che a suo modo cercava di tracciare il suono, l'energia che arriva da una musica, che rimanda a un ricordo. La stessa energia che ha un profumo, che arriva e ti riporta a un mondo. Ecco, quel passaggio non trascrivibile, io cerco di interpretarlo con la mia pittura". Classe 1987, papà egiziano (musulmano) e mamma italiana (cristiana) Omar è anche un "figlio" del nostro tempo, in continua trasformazione. Schiva le etichette, come trappole nel suo viaggio; e ricrea i paradigmi temporali dell'esistenza sfidando i pregiudizi sulla sua arte, che nobilita lo sport, la boxe. "Siamo tutti pugili - spiega - che combattono la loro battaglia. Lottiamo, ci fermiamo a riprendere fiato, ma poi dobbiamo tornare a combattere e rialzarci, se andiamo al tappeto. È la vera metafora della vita. Nasce da qui il tentativo di portare un concetto molto profondo all'interno della mia ricerca pittorica". 

Il "pallino" per il colore

Fuori dal circuito artistico Omar viene identificato universalmente per le sue spettacolari performances - dalla serie "Breaking Through" - di fronte alla tela, che colpisce con i guantoni grondanti di colori al grido di "I'm not punching to destroy: I'm creating" (Non picchio per distruggere, ma creo). "Io dico sempre che non sono Tyson che si è messo a fare i quadri. Non ci sarebbe niente di male... ma va un po' a sminuire la mia formazione.  Il «pugile-pittore» è una denominazione che mi sono ritrovato dai giornali, dai media, ma io ho un percorso precedente. Il mio pallino, le mie sculture vengono prima del gesto dei pugni". Hassan è nato e cresciuto a Milano, scoprendo prestissimo (a 7 anni) di essere diabetico. Ma scopre anche di avere un'altra "malattia": quella per il colore. Il pallino della bomboletta spray gli si apre come un mondo, che oggi ruota intorno al suo studio, dove lo abbiamo incontrato. Reduce dalla mostra alla Villa Reale di Monza, con la Contini Art UK ("L'Essenziale è Invisibile agli Occhi", parafrasando Le Petit Prince di Antoine de Saint-Exupéry) che è stata un successo. "Sono contentissimo, lo spazio del Serrone è meraviglioso, ho avuto la possibilità di esporre nuovi lavori, più di 5mila visitatori in un mese. Un gran bel record".

Qual è il suo segreto?

"Cerco di utizzare molto colore per catturare sensibilità meno inclini, perché è un linguaggio più semplice, ma sono consapevole del rischio: può distogliere l'attenzione da quello che è il vero pensiero dell'opera. È un gioco a cui io ho deciso di giocare per avvicinare più persone possibili e se, in seguito, scatterà la voglia di approfondire, documentarsi, allora avrò raggiunto il mio scopo. Credo che l'arte debba essere fruibile a tutti".

Lei ha scoperto di essere diabetico a 7 anni e il suo rapporto con il Tempo, inevitabilmente, è cambiato. Da qui la serie Injection.

"Cinque pallini al giorno, che rappresentano appunto la scansione del mio diabete, che mi costringe a 4/5 insuline quotidiane. Scherzando dico che spruzzo, spruzzo dappertutto e spruzzo con i miei 5 pallini per ogni tela, così che questo gesto pittorico possa incarnare un valore vitale". 

Come nasce la sua passione per l'arte?

"Dalla folgorazione per il colore, una malattia devastante che mi ha contagiato un amico e per cui non c'è rimedio... Io disegnavo su carta e lui, più volte: «Perché non provi con lo spray?». Così ho cominciato a imbrattare la mia cameretta... Prendevo un sacco di "mazzate" perché avevo sempre le scarpe macchiate, fin da bambino. Quando mia madre mi comprava le scarpe nere usavo i pennarelli bianchi... La facevo impazzire. Alla fine, disperata, si è arresa: «Questa è la tua parete, facci quello che vuoi». E l'ho letteralmente distrutta".   

A pugni?  

(ride) "No, no... di spray e colori. La boxe è arrivata dopo, sono entrato in palestra a 14 anni, ma la mia carriera pugilistica non è praticamente mai cominciata. Si è interrotta quasi subito, perché a differenza di quanto hanno già scritto i giornali, sbagliando, non sono diventato diabetico a 19 anni ma a 7. Ero sotto l'ala del Maestro dei maestri Ottavio Tazzi che mi ha permesso di avere delle esperienze. Insomma, non ho smesso che ero triste, incazzato, e ho ripiegato sui quadri. L'arte è sempre stata la mia vita". 

Poi il "grande salto": dalla street-art, dalle strade del quartiere Lambrate all'Accademia di Brera. 

"L'adrenalina del writer non mi apparteneva. Volevo studiare la storia dell'Arte, ero interessato a sviluppare le mie attitudini figurative e scultoree. A 19 anni mi sono iscritto all'Accademia delle Belle Arti, con Alberto Garutti, l'altro mio maestro. Ho conosciuto l'action painting di Pollock. Per me è stato come scoprire una cosa che avevo già dentro".  

Nel 2009 - prima del diploma - il suo debutto con una personale, in Giappone. Più avanti - tra le altre - la partecipazione alla 54a Biennale di Venezia, per arrivare al 2015, a Londra, dove ha presentato la serie intitolata Breaking Through.

"Saranno 121 come i round che ho disputato, dei quadri numerati, sono arrivato a una settantina, a un po' di più della metà della produzione prevista. Una serie che si è introdotta prepotentemente nella mia ricerca pittorica".

E che ha anche un intento benefico. 

"Sì, per quasi tutte le performances che ho realizzato le opere sono state battute all'asta per la ricerca sul diabete, quando posso mi impegno volentieri per una causa che mi coinvolge direttamente". 

Come è riuscito a "travasare" le emozioni del ring nella sua arte?

"Il trasporto è semplicemente nel gesto sintetico e potente che è il pugno. Poi il modo in cui esplode è differente dal ring alla tela. Ma quello che conta è il gesto pittorico, che può raccontare un'intera filosofia, una cultura, tutto un mondo. Non picchio per distruggere, ma per creare". 

C'è il rischio di sentirsi una semplice "attrazione"?

"Le ho sempre vissute in contesti di mostre, gallerie. Non l'ho mai fatto allo Stadio San Siro (risata, ndr), ma in un tipo di ambiente in cui era sempre valorizzato il gesto pittorico. Poi, ahimè, mediaticamente sono diventato il pugile-pittore...".  

Come reagisce ai giudizi "social"? 

"Mi accorgo che gli insulti, le cattiverie, arrivano da gente che non ha realmente cercato di capire il mio lavoro, ma si è limitato alla figura di una persona che colpisce una tela. I commenti nell'arte si sprecano... ma io vado avanti per la mia strada e continuo a diffondere la mia idea". 

Durante un breaking througt è come stare sul ring?

"No, sono emozioni differenti. Sul ring c'è un'altra persona che risponde, invece nella performance io sono concentrato a ricreare colore attraverso il movimento del mio corpo e la tela. Io colpisco il colore, non colpisco la tela".

Aveva paura sul ring?

"Beh, se non si ha paura si è fritti in partenza. La paura ti serve a mantenere la testa sulle spalle". 

Paura di cosa?

"La paura verso te stesso, non tanto dell'altro. Non vado sul ring pensando di odiare il mio avversario, che voglio ammazzarlo, anzi: tra pugili poi finisce spesso con una bevuta. La preoccupazione è riuscire a finire bene la ripresa, portare a termine dei bei movimenti, i colpi giusti. Il pugilato è bello perché tu non sei in guerra con l'avversario, ma con te. Sei lì a dimostrare a te stesso che da solo puoi combattere, è la bellezza di questo sport. Questa è la potenza e l'aspetto concettuale che ho voluto esaltare. Secondo me il pugilato, che è la Nobile Arte, aveva bisogno di una valorizzazione ulteriore".  

Continua ad allenarsi?

"Ultimamente molto poco. Ogni tanto, quando sono a Miami, vado a trovare il mio amico Daniele Scardina, pugile professionista, che si allena alla 5th Street Gym, la palestra storica di Muhammad Ali. Ma lui si allena seriamente, io dipingo, o vado al mare...".

Con Gué Pequeno e tutta la banda... 

"Sì, a volte. Siamo un gruppetto di amici milanesi che principalmente si ritrova a Miami, dove andiamo a prendere un po' di ispirazione. Credo che anche senza volerlo stiamo facendo una cosa importante: c'è uno scambio reciproco, si parla di musica, arte, teatro, cinema e naturalmente cazzeggiamo anche, siamo o no artisti...".

Tra loro c'è anche la sua fidanzata Chiara, in arte Nina Zilli, ex giocatrice di basket. La baskettara e il boxeur

(sorride) "In realtà più che l'incontro tra una giocatrice di basket e un pugile è stato l'incontro tra una grande cantante e un artista. Ci comportiamo più da artisti che da sportivi, frequentiamo più le feste che le palestre...". 

Tra le meraviglie che notiamo nel suo studio ci sono i mosaici di tappini di bombolette della serie "Caps" e la sua collezione di scarpe colorate (issime).  

"Sono le scarpe che ho utilizzato nel corso del tempo e che un giorno spero di potere esporre come oggetti d'arte".

Magari al British Museum, come gli scarpini del nuovo Faraone d'Egitto: le dice niente il nome Salah?

"Certo! Non lo conosco personalmente, ma so che oltre ad essere un super giocatore è anche un bravissimo ragazzo, che ha aiutato tante persone in Egitto. Si merita il successo che sta avendo, spero che riuscirà anche a vincere il Pallone d'Oro, per gli egiziani sarebbe qualcosa di pazzesco". 

"Amo la potenza di questo sport, capace di unire migliaia di persone e colori in 90 minuti di passione, dove tutto si dimentica e si ferma": sa chi l'ha scritta?

"Io? Sì... Qualche settimana fa sono stato invitato al Meazza per vedere Inter-Juventus, tra l'altro ero seduto dietro a Steven Zhang... Non sono tifoso, o meglio: simpatizzo per le due squadre di Milano, entrambe! Quello che mi affascina di questo sport è la capacità che ha di riunire così tante persone e sospendere, addirittura, una guerra: i soldati si fermano per vedere una partita di calcio. Questo è l'aspetto concettuale del calcio che amo. E poi non nascondo che una performance a San Siro, con 88mila persone che urlano e godono della stessa cosa, l'idea di avvicinare così tante sensibilità tutte insieme... mi mette i brividi solo a pensarci". 

Ai Mondiali non ci sarà l'Italia... ma ci sarà l'Egitto.

"Non seguo particolarmente il calcio, ma i Mondiali mi piacciono, è sempre bello ritrovarsi con gli amici e la famiglia. Quest'anno sarò felice di vedere l'Egitto con mio padre, per fortuna avrò qualcuno per cui tifare e mi eviterò anche un derby in casa...".