Miti Mondiali: Al-Owairan, l'eroe rovinato da un gol "alla Maradona"

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Vanni Spinella

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Quasi 70 metri palla al piede seminando avversari: sembrava Diego, era il saudita Al-Owairan. Dopo Usa '94 divenne una celebrità nel suo Paese, ricoperto d'oro e di sponsor. Una vita nel lusso che gli aprì le porte del carcere, finché il figlio del re...

Vogliamo dirlo? Diciamolo: il gol di Al-Owairan fu più bello di quello di Maradona. Non gli fu di aiuto il cognome, il fatto di essere sconosciuto ai più e di giocare per l’Arabia Saudita. Perché altrimenti, oggi, lo ricorderemmo in modo diverso, quel gol, inserendolo senza pensarci troppo nelle classifiche in cui periodicamente si ordinano le reti più belle della storia. Lì, il gol di Maradona – inutile specificare quale – figura sempre; quello di Al-Owairan no. Eppure parliamo di prodotti simili, la dinamica è la stessa, quella della fuga lasciandosi alle spalle avversari, chilometri di campo, il mondo intero. Perché una simile ingiustizia nei confronti di Saeed Al-Owairan, altrimenti detto “il Maradona del deserto”? Forse perché, dopo quella prodezza estemporanea, il geniale 10 saudita sparì. Per “colpa”, anche, di quel gol.

Corri Saeed, corri!

Il Mondiale è quello del 1994, l’Arabia Saudita per la prima volta nella sua storia si è qualificata alla fase finale ed è finita nel girone con Olanda, Marocco e Belgio. Onorevole sconfitta (2-1) all’esordio contro gli oranje, poi vittoria (2-1) sul Marocco proprio mentre il Belgio batte l’Olanda. Risultato: contro ogni pronostico, le porte degli ottavi si spalancano per i sauditi, ai quali potrebbe bastare anche un pareggio nella terza gara del girone, contro il Belgio già qualificato, per fare la storia. E a scriverla, dopo appena 5’, è proprio Al-Owairan, con quello che risulterà il gol-partita.

È il 29 giugno 1994, si gioca a Washington, al Robert F. Kennedy Memorial Stadium, alle 12.30. Tradotto in temperatura, fanno 43 gradi che picchiano sulle teste dei giocatori di Arabia Saudita e Belgio. Se non fosse per il verde del prato, sembrerebbe di essere in mezzo al deserto. In condizioni del genere risulta anche comprensibile il mancato aggancio con cui Scifo perde banalmente un pallone sulla trequarti. La difesa araba lo raccoglie e lo affida al suo 10. Siamo a quasi 70 metri dalla porta di Preud’homme, Al-Owairan riceve e si gira: nel farlo dà un’occhiata intorno e vede solo un paio di compagni. Gli altri 8 sono tutti alle sue spalle, rintanati in area. Decide così, per mancanza di alternative più che per desiderio di protagonismo, di avventurarsi da solo nel territorio nemico. Inizia a galoppare affettando il campo nella sua corsia centrale, corre corre e pensa solo a correre. Il piano è semplice: improvvisare in corsa, perché ancora non c’è un piano.

Anatomia di una corsa

Siamo sulla linea di metacampo quando Dirk Medved, forse l’unico a fiutare il pericolo nonostante la distanza dalla porta, tenta una forbice da terra, di quelle da rosso diretto se prendi bene l’avversario. Al-Owairan salta la tagliola con eleganza e prosegue oltre, con l’unico inconveniente di essere costretto a ridurre la velocità di crociera, dai 30km/h del suo picco massimo ai 23 con cui si trova a dover fronteggiare il secondo ostacolo che gli si para contro, Michel de Wolf e il suo timido abbozzo di scivolata. Saltato anche lui, siamo ormai alle soglie dell’area di rigore belga e adesso Al-Owairan punta con decisione Rudi Smidts, che parte malissimo perché lo affronta girato dalla parte sbagliata. Mentre cerca di ritrovare la postura ideale, il furbo Saeed gli fa pensare di volersi allargare verso l’esterno: il belga gira la testa da quella parte e Al-Owairan già non c’è più, si è infilato comodamente prendendosi l’interno.

Ormai vede la porta, a chiudergliela ci sono il centrale Philippe Albert, quello del gol decisivo all’Olanda, e Michel Preud’homme, che mai, quando l’aveva visto partire 70 metri prima, avrebbe immaginato di ritrovarselo di fronte ancora sulle sue gambe e col pallone tra i piedi. Poco importa, adesso: quell’uomo va fermato e l’idea che i due hanno è la stessa: sbarrargli la strada gettandosi a terra, Albert con un disperato tentativo di scivolata e Preud’homme con un’uscita bassa. Al-Owairan li imita e, da terra, calcia anticipandoli, dal basso verso l’alto. Quando si rialza, dà inizio alla sua genuina esultanza, con i palmi aperti e poi le dita a fare la V di vittoria, il sorriso smagliante dipinto sulla faccia. Il ritratto di un uomo semplice, persino umile nelle dichiarazioni a fine partita, quando rifiuta il paragone con Diego («Troppo onore») e divide i meriti con i compagni (ma quali? Chi li ha visti?) «bravi ad aprirmi il corridoio giusto».

Concentratevi sull’espressione di Michel de Wolf...

"Sequestrato" dal re

Gli effetti di quel gol sono molteplici e per certi versi anche negativi. L’Arabia Saudita vola sì agli ottavi, ma con il Ct dei sauditi, l’argentino Jorge Solari, che adesso se la sente di dire che «è stata una vittoria del calcio latino, poiché ci ispiriamo alla tradizione del grande Brasile. Negli ottavi contro la Svezia non avremo problemi: ci prepariamo solo per vincere». Vincerà 3-1 la Svezia, anche senza ispirarsi al grande Brasile.

L’effetto boomerang fu simile sullo stesso Al-Owairan. Rientrato in patria da eroe, fu ricoperto di oro, denaro, sponsor e premi, arrivando a guadagnare più di Baggio o Romario, per citare due eroi di quel Mondiale. Anche re Fahd in persona volle fargli un regalino e, accanto alle inevitabili mega-villa e super-auto, ne impose “l’embargo” per poterselo godere da vicino ogni settimana, raffreddando l’interesse dei club europei già sulle sue tracce.

Papà, puoi scarcerare il mio eroe?

Considerato un patrimonio del calcio del suo Paese, Saeed finì per spendere tutta la carriera in un campionato di basso livello come quello saudita, con 13 stagioni nell’Al-Shabab, costretto ad ammettere che quel gol «si era rivelato un’arma a doppio taglio: se da un lato fu meraviglioso, dall’altro fu tremendo perché finii costantemente sotto la luce dei riflettori». Se ne accorgerà quando, nel marzo 1995, durante il Ramadan, violerà la legge islamica facendosi pizzicare in un locale a luci rosse al Cairo, non del tutto sobrio e in dolce compagnia. Gli si spalancarono così le porte di una nuova prigione, stavolta nemmeno dorata.

Tre anni di carcere, scontati solo in parte grazie – così narra la leggenda – al figlio del re, il principe Faisal, che ottenne per lui l’indulto pregando papà di fargli rivedere il suo eroe personale al Mondiale del 1998, per il quale nel frattempo l’Arabia si era qualificata. Re Fahd, che sotto sotto ha un cuore tenero, scarcerò così un uomo grasso, lento, totalmente fuori forma, che si riprese la maglia numero 10 e volò in Francia convocato dal Ct Parreira. Ko contro Danimarca (1-0) e Francia (4-0, ma lui gioca solo mezz’ora), l’unico punto nel girone raccolto contro il Sudafrica, e senza di lui in campo. La parabola è giunta nel punto più basso, di quella mitica corsa verso la gloria resta solo il ricordo sbiadito. Viene quasi da chiedersi se non sia stata solo un’allucinazione nel deserto.