Milan, 10 anni fa l'esordio di Pato: un campione fragile

Serie A

Marco Salami

Dieci anni fa Alexandre Pato giocava e segnava il suo primo gol in una serata perfetta a San Siro contro il Napoli. Il brasiliano sembrava potesse esplodere e finire tra i più forti al mondo. Poi gli infortuni, il riscatto dello scudetto con quei due gol nel derby e l’addio. Il ritorno in Europa e l’esilio in Cina. Storia di un campione troppo fragile per sostenere il suo talento

PATO A CUORE APERTO: "TIFERO' SEMPRE MILAN"

BIONDO PAT...INO, NUOVO LOOK PER IL BRASILIANO EX MILAN

Poteva farsi davvero quel ragazzo, e diventare qualcuno capace di lasciare il segno, nonostante quelle spalle strette. E invece non ce l’ha fatta. Non a trasformarsi in quel campione assoluto che tutti speravano, specie nell’universo rossonero. Pato è come cantava Francesco De Gregori, o quasi. Perché la maglietta era davvero la numero 7, ma per il resto, quella strofa de La leva calcistica della classe ‘68, non funziona. Non con Alexandre Rodrigues da Silva, in arte Pato. Già, arte. Perché dell’arte c’era davvero nei suoi movimenti, nelle sue giocate. Vero, perché altrimenti due gol al Bernabeu contro il Real Madrid non li fai. E non segni nemmeno al Camp Nou dopo 24 secondi lasciando sul posto quattro giocatori del Barcellona con uno scatto da centometrista. La classe c’era, cristallina, ma sembrava segnata dal destino la storia del Papero in rossonero. Perché quando arrivi nella squadra che ha appena vinto la Champions League, e l’anno dopo per quella Coppa non riesci nemmeno a qualificarti, forse era già un presagio di come sarebbero andate le cose. Come? Con l’addio a gennaio del 2013, cinque anni dopo che, in punta di piedi e con l’apparecchio ai denti, si era presentato da minorenne alla Malpensa con il passaporto da futura stella del Milan, e chissà per quanti anni. Il ricordo in rossonero Pato lo ha lasciato, certo, ma molto più flebile di quello che sarebbe potuto essere. Il rimpianto invece c’è, ed è enorme. Quello di un campione fragile, nei muscoli e nel carattere, che dieci anni fa esordiva con una dichiarazione di intenti mica da ridere. Milan-Napoli, 13 gennaio del 2008. San Siro è pieno, lui si allaccia le Mercurial Vapor color arancione e scende in campo, al fianco di Kaka e Ronaldo - il Fenomeno. Con le spalle strette ma con la voglia di spaccare il mondo. Lo chiamavano KaPaRo, e di lì a qualche mese il “Ro” sarebbe passato da Ronaldo a Ronaldinho. C’era tanto margine per sognare, vero, ma l’esplosione definitiva non arriverà mai - se non quella muscolare - e Pato resterà un eterno rimpianto.

Im-pato violento

Il Papero arriva dal Brasile nell’estate del 2007. Il Milan ha appena incorniciato un altro trionfo, contro il Liverpool ad Atene, e il vero colpo dal mercato è lui: 22 milioni all’Internacional di Porto Alegre. Pato arriva come campioncino in proiezione futura, ma anche per il presente. In bacheca ha già un Mondiale per Club, vinto nel 2006 in finale contro il Barcellona di Ronaldinho. In quella partita non segna, vero, ma va in gol nella semifinale, e batte anche Pelé come marcatore più giovane nella storia di una competizione Fifa: mica male. L’età però è ancora acerba, e il Milan per tesserarlo deve aspettare gennaio. Ma nel frattempo gioca in un’amichevole. L’essenza di Pato sta anche lì: è uno che sbaglia le cose semplici e poi stupisce su quelle difficili. A settembre la società rossonera organizza una partita contro la Dinamo Kiev praticamente solo per lui. Prima si mangia un gol con mezza porta vuota che ha del clamoroso, dunque segna, con un colpo di testa da bomber vero. Contro il Napoli, in quel suo esordio da brivido, trova il gol. Di fatto un marchio di fabbrica tutto suo, quello della partenza col botto. Gol alla prima con l’Internacional, gol alla prima col Milan, con la nazionale giovanile brasiliana e anche con la Seleção: e che gol, quel gol. Nel marzo del 2008 entra in campo al posto di Luis Fabiano a metà secondo tempo in un’amichevole contro la Svezia e segna scavalcando il portiere con mezzo piede sulla linea laterale del campo, golasso. Uno alla Pato, tanto per intenderci. Già, perché anche quello contro il Napoli con la magliette rossonera, quella col numero sette sulle spalle, è da paura: controllo col destro a tagliar fuori il difensore e piatto sotto le gambe del portiere in uscita. E poi l’esultanza, quella che diventerà la sua. Col cuore disegnato con le mani verso la tribuna dove c’era Sthefany, la fidanzata che diventerà moglie, anche se il matrimonio durerà poco più di sette mesi. Ma intanto il gol arriva, è soltanto il gol del 5-2, vero, ma San Siro esplode: finalmente, e dopo due gol clamorosi che Pato si era divorato nel primo tempo. Lo hanno disegnato così quel brasiliano, un po’ croce e un po’ delizia, costantemente.

Come un fulmine

C’era veramente da fregarsi le mani a guardare in campo quel giocatore. È vero, Pato sembrava destinato ai grandi palcoscenici europei, quelli che i rossoneri erano abituati a calpestare ogni anno, ma le cose non andranno esattamente così. Ci sono infatti gli infortuni a segnare la carriera del Papero, ci sono soprattutto gli infortuni a segnare la carriera del Papero. Talmente tanti da trasformarlo nel tempo in una sorta di barzelletta dal retrogusto amaro. Sono veramente uno sproposito in tutta la sua carriera. In cinque anni di Milan salta più di ottanta partite, e i giorni sono anche difficili da calcolare. Il primo accade il 4 febbraio del 2008, neanche un mese dopo quel suo esordio scoppiettante griffato col gol. Contro la Fiorentina entra in campo a metà secondo tempo sul punteggio bloccato di 0-0, segna in appena dieci minuti il gol partita e poi si fa male: distorsione alla caviglia. Non sembra nulla di grave però, e i 3 punti contro la diretta rivale per il posto Champions sono oro (anche se a fine anno nell’Europa dei big ci andranno i viola, a discapito proprio del Milan). La sosta per Pato è solo di 14 giorni, e salterà appena tre partite. D’altronde il brasiliano è giovane, e può recuperare in fretta da un infortunio, vero. Così sarà e anche l’anno successivo fila tutto liscio. Quello sarà l’ultimo anno di Ancelotti sulla panchina del Milan, e quel talento ancora un po’ acerbo di Pato vuole farlo crescere piano piano. In Serie A nella stagione 2008-09 il brasiliano gioca 36 partite, di cui 27 da titolare, e segna 15 gol: tra quelli ce n’è uno impressionante contro la Roma. Pato riceve palla appena oltre al centrocampo e punta Mexes, lo scatto è clamoroso, e dopotutto la velocità è sicuramente la sua arma segreta. Arrivato davanti al portiere il cucchiaio col sinistro è morbidissimo e si infila in gol: pazzesco, e il futuro è tutto nelle sua mani, vero, visto che gli anni segnati sulla carta d’identità sono appena 19. Ma il dramma muscolare è dietro l’angolo.

Infermeria

La stagione 2009-10 cambia la carriera di Pato, è l’anno dell’addio di Ancelotti, Kaka e Maldini e quello del Triplete di un’Inter che a fine stagione vincerà tutto. Eppure il primo match dell’anno è l’introduzione di una storia diversa: Pato nella prima giornata di Serie A segna una doppietta al Siena che suona tanto da leader, come a dire che questo sarà l’anno buono per la sua consacrazione. Ma i capitoli successivi del campionato sono messi lì apposta a smentirlo. I quattro schiaffi presi nel derby firmati da Sneijder e Milito ridimensionano tutto il Milan, che finisce per vincere una sola volta nelle seguenti cinque partite. È lì che Leonardo in panchina ha un’intuizione: lasciare che il talento dei suoi brasiliani scorra libero. È lì che nasce il 4-2-fantasia che sembra esaltare più di tutti il Papero. Contro la Roma un suo magnifico gol segna la svolta: Ronaldinho sventaglia da 50 metri e Pato mette a sedere il portiere per il gol che vale la partita. Da lì il Milan mette in fila solo risultati positivi, e Pato 5 gol. Poi il primo vero stop muscolare: ne salta sei, rientra e sembra aver voglia di spaccare il mondo: gol contro l’Udinese, poi al Bari, dunque alla Fiorentina e doppietta all’Atalanta, e i punti di ritardo dall’Inter di Mou sono solo 4. Ma è proprio contro i bergamaschi che i guai fisici si materializzano un’altra volta: Pato corre in contropiede per inseguire la tripletta e si ferma, si accascia e si tiene il muscolo della coscia. Sostituzione e addio stagione. Già, Pato in quella restante parte di campionato giocherà meno di 180 minuti, saltando nove delle ultime dodici partite. E i fantasmi iniziano ad essere tanti.

Lady B e lo scudetto

La rinascita è però firmata 2011, l’anno del primo (di due) trofei con la maglia rossonera. Chiariamoci, gli infortuni ci sono, e ci saranno sempre, ma quell’anno Pato salta “solo” undici partite in Serie A, quantomeno la maggior parte limitate al girone d’andata. Nel frattempo in quella prima fetta di campionato ci sta pensando Ibra a fare gran parte del lavoro. Segna e trascina. Sblocca le partite chiuse e porta a casa i tre punti. L’estate intanto ha regalato anche Robinho, e a gennaio arriva Cassano: la concorrenza è ampia, e spietata. Il Milan quell’anno è guidato da Allegri, e il primo posto se lo è preso già alla decima giornata, con la netta intenzione di arrivare fino in fondo, davanti a tutti. Lo spartiacque capita però a marzo. Contro il Bari il Milan frena, 1-1 e Ibrahimovic viene espulso per una manata a Marco Rossi: due turni di squalifica, salterà il derby. In mezzo arriva però anche il ko contro il Palermo, e l’Inter di Leonardo a quel punto è distante solo due lunghezze, in piena corsa per il sorpasso. Quel 2 aprile la stracittadina di Milano vale più di qualsiasi altra cosa. In campo ci si gioca il tricolore: il Milan per strapparlo ai cugini, l’Inter per confermarlo sul proprio petto come da cinque anni a quella parte. La partita la decide Pato. Il campionato lo decide Pato, e lo scudetto - va da sé - anche. Il derby finisce 3-0, e il brasiliano si traveste da superstar: doppietta, il primo gol dopo 47 secondi a indirizzare la partita fin da subito. Nel mezzo delle due reti provoca anche l’espulsione per ultimo uomo di Chivu. Praticamente perfetto. Nel finale Cassano completa la festa su rigore, i punti di vantaggio tornano 5, e a maggio, dopo un pareggio contro la Roma, sarà grande festa… tutta tricolore. Pato festeggia, indica lo scudetto sulla maglia celebrativa e bacia Barbara Berlusconi, con la quale rimarrà legato sentimentalmente per due anni e mezzo, fino al 2013. Certo, quel campionato è anche suo, perché nella partita più decisiva di tutte c’è la sua firma, doppia. Il ricordo che lascia nel Milan è soprattutto quello, vero, ma contemporaneamente è anche il principio della fine.

Incep-pato

È sempre stato un classico stereotipo del calcio italiano: quello del giocatore troppo gracile che non è adatto al nostro campionato. Questione di fisico e di capacità di saper resistere contro i difensori. Pato gracilino lo era, vero, magro e senza troppa forza, ma l’esplosività e soprattutto la velocità erano da mozzare il fiato. Erano tra i suoi punti di forza. Eppure un cambiamento c’è stato, innegabile, lo avrebbe potuto notare anche un bambino che di medicina non ne capisce nulla. Pato negli anni è cambiato fisicamente, tantissimo, e tutti quei muscoli messi su per farlo diventare un giocatore più forte fisicamente probabilmente ne hanno condizionato la tenuta atletica. Più forte sì, ma sempre fuori dalla lista dei convocati. La stagione 2011-12, quella con lo scudetto cucito sul petto e che porterà all’addio dei senatori di sempre, segna il suo ko tecnico. Il bollettino medico è lunghissimo, pagine e pagine di referti. Sui 38 turni di Serie A Pato è disponibile per appena 12 partite, ne gioca 11 e segna solo un gol. Cinque sono gli infortuni in totale, 166 giorni out e 36 i match saltati in stagione: un apoteosi dell’infortunio, che lo trasformano in un campione ormai fragile nel fisico ma anche e soprattutto mentalmente. Ovvio, perché dopo tutti quegli stop diventa quasi normale non rischiare mai la giocata. Limitare gli scatti, che ne hanno segnato l’identikit, e togliere la gamba quando un attaccante, invece, dovrebbe sempre mettercela. Tutto questo sembra portare verso una cessione. A fine anno? No, già a gennaio del 2012, e il Milan ha anche il nome del sostituto, uno di tutto rispetto: Carlos Tevez. Galliani viene intercettato a cena insieme all’argentino, che porterebbe gol e punti a un Milan in piena lotta scudetto contro una Juve, quella di Antonio Conte, che in campionato non ha ancora perso una partita (e che mai la perderà). A metà calciomercato però tutto viene bloccato: Pato resta, così ha deciso Berlusconi. “Qui sono a casa” - dice il Papero. Tevez sfuma, e Galliani rientra da Londra dove ormai aveva chiuso per l’Apache. Risultato finale? Pato in tutto il girone di ritorno gioca soltanto 45’, la Juventus vince il campionato e due anni dopo Tevez finirà proprio in bianconero, a continuare quella striscia di scudetti consecutivi iniziata proprio in quella stagione.

Oriente

L’anno seguente per Alexandre Pato non inizia nemmeno. Per un problema agli adduttori salta le prime sette giornate, torna disponibile per sei partite e finisce ancora ko, fino alla fine. Nel frattempo ha camminato anche il numero di maglia, passano a un 9 che non gli porterà certo fortuna. A gennaio cambia squadra, praticamente un altro suo marchio di fabbrica. Prima il Corinthians e poi il San Paolo in Brasile, ma ormai sembra un giocatore totalmente diverso, tant’è che non segna nemmeno all’esordio. Ma una seconda possibilità arriva sempre, e per Pato si chiama Chelsea. Il brasiliano ritorna nel calcio europeo - e quando se non a gennaio? - in Premier League. Come va a finire? Nello stesso modo. Debutto da sogno e poi di nuovo dentro all’incubo. In Norwich-Chelsea segna su rigore, esulta, si batte il pungo sul petto e giura di essere tornato, ma poi tutto svanisce un’altra volta nel nulla. Pato gioca solo un’altra partita in Inghilterra, senza più andare in rete, e l’anno dopo c’è il Villarreal… chiamiamola la terza occasione. L’esperienza in Spagna dura sei mesi, il Papero gioca dieci volte, segna quattro gol ed è già tempo per una nuova svolta, l’ultima. Superfluo dirlo, siamo a gennaio, quello del 2017, e il cambiamento questa volta è radicale. La località sulla carta d’imbarco dice Tianjin, in Cina. Quasi una sorta di esilio, impensabile dopo quella sua prima incredibile partita all'esordio.