Serie A, le migliori giocate della 23^ giornata

Serie A

Daniele Manusia e Emanuele Atturo

I due gol olimpici, il grande gol di Suso, l'agility dog di Rafinha e altre perle dall'ultima giornata di Serie A, in attesa di Lazio - Genoa

 

GUARDA GLI HIGHLIGHTS DELL'ULTIMA GIORNATA DI SERIE A

Questa giornata di campionato non aveva partite di cartello, ma come ogni settimana non è stato difficile trovare delle giocate significative da inserire in questa rubrica. Il senso della catalogazione delle giocate è da una parte celebrare grandi gesti tecnici - con un occhio di riguardo a quelli che, non concludendosi in gol, rischiano di finire fuori dalla nostra memoria - e dall'altra prenderli come pretesto per parlare di alcuni giocatori e del loro momento di forma. In questa giornata abbiamo voluto premiare anche un gesto tecnico "collettivo", e cioè l'uscita bassa dalla difesa del Benevento, che pur avendo perso ha offerto un'altra buona prestazione contro il Napoli. Poi ci sono due lanci con stop in corsa pregevoli e uno stranissimo gesto tecnico di Rafinha. Buona lettura!

La fase di possesso del Benevento che abbiamo scelto di inserire nella nostra settimanale classifica delle migliori giocate in Serie A, comincia quando Jorginho scivola su un passaggio di Koulibaly. Inizialmente il Benevento prova a risalire il campo con Cataldi, Guilherme e Duricic, va da D’Alessandro a sinistra ma manca di profondità, con il Napoli che scivola compatto all’indietro controllando bene lo spazio tra le linee e alle spalle della difesa. Allora comincia una fase di circolazione più conservativa, la palla passa dai piedi di Sandro (arrivato dal Tottenham nell’assurdo mercato di gennaio del Benevento e già capitano) e finisce dalla parte opposta tra i piedi di Letizia, che la scambia con Djimsiti e, quando vede che non ci sono linee di passaggio libere nella metà campo napoletana, torna indietro da Puggioni. Prima che la palla arrivi al portiere del Benevento 7 su 10 giocatori di campo giallorossi sono già stati coinvolti nella circolazione di palla. Ma va notato anche che quando Letizia si gira all’indietro sia Djimsiti che Sandro indicano verso Puggioni. il Benevento torna indietro perché non trova spazi in avanti: sia per evitare che il Napoli, ormai schierato in fase di difesa posizionale, faccia scattare la trappola del pressing e recuperi palla; sia per attirare il Napoli in avanti e creare lo spazio in cui attaccare sfruttando l’uomo in più: il portiere.

E funziona. Anche se con un po’ di difficoltà il Benevento non rinuncia a cercare l’uomo libero alle spalle della pressione del Napoli.  Quando Venuti, terzino sinistro, restituisce male all’indietro la palla a Coda, centrale sinistro, spingendolo vicino alla linea di fondo, questo torna da Puggioni, che anche se pressato da Mertens alza la testa e torna da Venuti, che a sua volta è entrato dentro al campo e gli è venuto incontro, pur con l’uomo addosso, per creare una linea di passaggio in più: quella semplice sponda fa alzare Callejon liberando Duricic (Jorginho è alto su Sandro e Allan altissimo su Coda), che Puggioni trova con un lancio di piatto abbastanza preciso. Una volta trovato l’uomo libero, l’uomo in più, perché il Napoli è scalato sul portiere, il Benevento gioca benissimo in verticale. Duricic di prima gira verso l’interno su D’Alessandro, che ha Albiol addosso in marcatura preventiva ma riesce ad offrire subito l’appoggio a Guilherme.

A quel punto c’è spazio in cui portare palla, perché Koulibaly era rimasto un pochino più indietro e adesso scivola saggiamente verso la propria area, assorbendo con Mario Rui e Hysaj la transizione (d’altra parte: per essere ancora più aggressivo il Napoli dovrebbe applicare delle marcature a tutto campo che non fanno parte della sua natura). Guilherme sceglie bene tra Duricic e Brignola, che rientra e calcia, sulla ribattuta arriva Duricic che calcia di poco fuori. Stava arrivando di corsa anche Letizia, in sovrapposizione su Brignola: il Benevento ha concluso con 4 giocatori in area un’azione cominciata coinvolgendo il proprio portiere.

Per l’idea complessa di calcio che abbiamo oggi sarebbe semplicemente ingenuo, o forzatamente romantico, considerare come giocata solo lo sforzo creativo individuale, l’artificio da illusionista di un giocatore particolarmente in vena. Dobbiamo invece sforzarci di apprezzare l’ispirazione collettiva, l’armonia di una squadra che si muove con la libertà e l’unione di una scultura appesa al soffitto di Alexander Calder. Ovviamente il vento che muove le singole parti sono le idee e il lavoro di Roberto De Zerbi, un allenatore giustamente lodato come parte dell’avanguardia tattica italiana, che offre l’esempio di come si possano perseguire idee nobili anche in contesti poco aristocratici.

Una prima, comune, definizione di playmaker coincide con il ruolo di centrocampista centrale davanti alla difesa: quel giocatore che viene a prendersi palla dalla difesa e decide se portare il gioco su un lato invece che su un altro o se la squadra può avanzare di qualche metro. C’è poi una definizione più estesa che comprende quei giocatori che fanno il gioco di una squadra anche da posizioni diverse. Un terzino può essere il playmaker decentrato di una squadra (a tratti lo è Kolarov nella Roma), lo può essere una mezzala al posto del centrale di centrocampo (lo è De Bruyne nel Manchester City, al posto di Fernandinho) e molti trequartisti, non tutti, possono fare da playmaker offensivi senza occuparsi dell’uscita del pallone dalla difesa (forse il miglior esempio resta Lionel Messi). Ma già con questa distinzione il termine non può essere interpretato solo in senso letterale: un playmaker deve avere un’influenza diffusa sul gioco della squadra, deve decidere la direzione e i tempi delle giocate, il ritmo a cui il resto dei compagni devono giocare. In questo senso è frequente vedere squadre con più playmaker, più giocatori in grado di prendere i fili dall’alto e muovere i due schieramenti. Il Milan di Gattuso poggia la propria fase offensiva su più giocatori con qualità tecniche sufficienti a costruire l’azione (a cominciare dal triangolo difensivo Bonucci-Biglia-Romagnoli, per arrivare al polo creativo di sinistra Calhanoglu-Bonaventura) ma quando si arriva sulla trequarti il giocatore più utilizzato è Suso.

Contro l’Udinese ha effettuato 24 passaggi nella trequarti d’attacco (21 dei quali andati a buon fine) più di qualsiasi compagno o avversario. Sono più della metà dei suoi passaggi in totale (40) e se si guardassero solo i passaggi ricevuti dallo spagnolo si faticherebbe a indovinarne la posizione nello schieramento di partenza. Suso si muove lungo tutta la fascia destra, entrando anche dentro al centro campo, in un movimento bilanciato continuamente dalle incursioni senza palla della mezzala sul suo lato, Frank Kessié. In questo modo, l’influenza di Suso sulla fase offensiva del Milan è grandissima, anche al di là di giocate pazzesca come quella che ha portato momentaneamente in vantaggio il Milan contro l’Udinese.

L’immagine è generata dall’applicazione StatsZone.

Suso è anche il giocatore del Milan che tira di più e anche se spesso forza la conclusione (3.2 tiri a partita, di cui 1.2 non prende lo specchio) a febbraio 2018 è il capocannoniere con 6 gol di una squadra che fatica a trovare una finalizzatore efficace: dopo lo spagnolo ci sono Kessié e Bonaventura con gli stessi gol, 4, di Kalinic; Cutrone ne ha segnati 3 e André Silva deve ancora festeggiare il primo gol in Serie A. Il tiro contro l’Udinese è semplicemente senza senso, per la distanza ma anche per il contesto dei giocatori che lo circondano: Suso è marcato da De Paul, che ha stretto intelligentemente dentro al campo proprio per evitargli una ricezione troppo libera, ed è raddoppiato da Barak. Calcia in una finestra temporale molto stretta, come un gatto che si infila in una stanza mentre il vetro del terrazzo si sta chiudendo. E poi è senza senso la precisione con cui Suso trova l’incrocio dei pali, considerando che riesce a dare solo un’occhiata velocissima alla porta prima di calciare. Anche la sua coordinazione è particolare, perché Suso tiene il busto all’indietro per alzare la traiettoria, ma allora ci vuole davvero grande sensibilità per colpire la palla nel punto giusto per darle quella traiettoria fluttuante, con la palla che raggiunta l’altezza desiderata non si alza né si abbassa, se non di pochissimo.

Questo tiro serve anzitutto a premiare il lavoro di Suso e la sua importanza in questo Milan finalmente equilibrato. Ma riscatta anche tutti quei tiri forzati di Suso dopo essere rientrato dall’esterno destro, finiti sulla schiena o lo stinco di un avversario o a un paio di metri dalla porta. Questo tiro ci dovrebbe ricordare che a volte anche un tiro finito in tribuna è solo l’esercizio necessario per poi arrivare, un altro giorno magari, a un tiro stupendo di questo tipo, semplicemente impensabile se i calciatori dovessero prendere sempre e solo le decisioni più razionali.

Nel primo tempo di Benevento-Napoli abbiamo visto due pallonetti sul portiere ambiziosissimi e di grande fattura. Uno è entrato, ed è il lob di Mertens per il gol dell'uno a zero, l'altro ha preso la traversa, ed è il tiro di Insigne dal limite dell'area al 13', ancora sullo zero a zero.

Questa rubrica esiste proprio per celebrare i gesti incompiuti e per questo abbiamo scelto di inserire il pallonetto di Insigne invece di quello di Mertens, che troverete senz'altro in tutte le compilation di highlights della giornata. Se il pallonetto del belga è migliore per come è stato pensato - con un angolo più stretto, in una situazione in cui serve il cosiddetto genio per immaginare una soluzione del genere - quello di Mertens ha un'esecuzione tecnica più speciale.

Il pallonetto di Mertens è tutto nell'idea: una volta avuta quella Mertens esegue il gesto scavando la palla sotto. Quello di Insigne era davvero difficile da realizzare, e il fatto che non sia entrato ne evidenzia ulteriormente la complessità. Insigne riceve al limite, ha un ottimo primo controllo orientato con l'esterno; è circondato da giocatori del Benevento e non ha soluzioni di gioco pratiche vicine. Per non scoprire la palla verso i difensori la tiene molto attaccata al piede, ma questo non gli permette di avere lo slancio per tirare in porta. Allora scava la palla con l'interno-collo, una parte di piede che se portate più di 41 scordatevi di avere. La palla scavalca il portiere attraverso quel piccolo unico filo di spazio in cui poteva passare, e prende la traversa interna.

In questo articolo Cosimo Bizzarri spiegava che il gol olimpico, cioè il gol da calcio d’angolo, è tutt’altro che contrario alle leggi della fisica, così come si dice seguendo un luogo comune. Incollo la spiegazione fisica di un gol olimpico:

«Una forza rettilinea è impressa a destra rispetto al centro di un oggetto sferico. Come risultato, l’oggetto sferico assume un moto avente traiettoria curvilinea. Nel corso del suo volo, l’oggetto sferico è attratto verso il basso dalla forza di gravità, rallentato dall’attrito dell’aria e spinto lateralmente dalla rotazione di spin dovuta all’applicazione della forza in posizione non centrale. Dopo due secondi l’oggetto sferico atterra nel lato destro più lontano di un parallelepipedo cavo».

Messa in questi termini potrebbe sembrare una ricetta semplice e sicura per ottenere un risultato paradossale, come mettere una mentos dentro una bottiglia di Coca Cola. La realtà è che per manipolare un oggetto sferico nella maniera descritta le variabili da tenere in considerazioni sono davvero troppe: vento, quantità di spin, forza di calcio, angolo. Insomma, se è vero che non c’è niente di anti-fisico, la fisica che permetterebbe un gol del genere è una finestra strettissima dentro cui pochissimi giocatori possono entrare. Per questo la giornata di ieri, con due gol olimpici nella stessa partita, è stata particolarmente assurda.

Non solo sono stati segnati due gol da calcio d’angolo nella stessa partita, ma anche nel giro di tre minuti. Per farci un’idea, l’ultimo gol da calcio d’angolo in Serie A era stato segnato dal “Papu” Gomez il 18 ottobre del 2015 in un Carpi - Atalanta. Da quel momento sono passati 81mila minuti di gioco circa, quante probabilità c’erano, quindi, che dopo il gol di Jordan Verout al 41’ Erick Pulgar segnasse al 44’ della stessa partita?

Innanzitutto bisogna precisare, per i più pignoli, che in nessuno dei due casi la palla è entrata in porta spontaneamente. Nel primo caso, addirittura, il gol non è stato assegnato a Veretout ma è stato contato come autorete di Mirante: la palla rimbalza sul palo lontano e poi sarebbe uscita, e non avesse sbattuto su Mirante. Mentre nel tiro di Pulgar è Sportiello a mettere la palla in porta con le mani, ma è conteggiata come una deviazione ininfluente e quindi il gol è stato assegnato al centrocampista cileno. Questo però ci interessa relativamente: i due tiri sono andati così vicini a mettere la palla in porta direttamente da calcio d’angolo che hanno costretto i portieri ad andare fuori tempo o a sbagliare l’intervento. Quindi, per noi, sono due gol olimpici.

Pur facendo parte della stessa categoria, stiamo parlando di due gol diversi. Veretout e Pulgar hanno scelto due strade differenti per aggirare la complessità di un gol da calcio d’angolo. Veretout ha scelto la strategia più raffinata, quella sul palo lontano. Per fare un Olimpico di questo tipo bisogna imprimere al pallone una parabola che scavalca il portiere in altezza per poi ricadere, sfruttando la forza di gravità e la rotazione a rientrare, all’incrocio dei pali lontano. La traiettoria di Veretout è così perfetta che batte sul palo interno e fa un rumore sordo e bellissimo.

Pulgar invece percorre la strada più corta, e sorprende Sportiello calciando stretto sul primo palo. In questo tipo di gol non si cerca di scavalcare il portiere ma di metterlo in una condizione difficile. Con l’impedimento del palo davanti, un portiere non può tuffarsi sul pallone e ha poco spazio per l’intervento. Quello di Pulgar è un Olimpico d’astuzia, mentre quello di Veretout un grande esercizio balistico. Il calcio è uno sport così vario e ricco di sfumature che anche all’interno di un gesto tecnico così peculiare è possibile trovare delle differenze.

In ogni caso, possiamo dichiarare ufficialmente il 4 febbraio “La giornata nazionale del gol Olimpico”.

Nell’autunno del 2014 Leandro Castan deve operarsi al cervello a causa di un cavernoma. È l’esito di mesi di incertezze, in cui il giocatore non era più a disposizione e si diceva soffrisse di otite acuta accompagnata da attacchi di labirintite. Dopo l’operazione pensa di dover morire, o comunque di dover abbandonare il calcio.

Castan non recupererà mai del tutto dall’operazione: da quel giorno fino ad oggi ha giocato appena 20 partite, quasi tutte lo scorso anno con la maglia del Torino, con cui è sembrato la copia sbiadita del difensore solido e intelligente arrivato in Italia nel 2012. Campione di Libertadores con la maglia del Corinthians, centrale della Nazionale brasiliana.

Tornato alla Roma quest’anno Castan ha rinnovato il contratto fino al 2020 spalmandosi l’ingaggio e ora, a gennaio, si è trasferito in prestito al Cagliari per provare ancora a giocare ad alti livelli. «Io ho bisogno del Cagliari e il Cagliari ha bisogno di me» ha detto appena arrivato.

Castan è stato schierato subito titolare da Lopez, un po’ a sorpresa per un giocatore teoricamente senza ritmo partita. Ieri, alla sua seconda partita da titolare, contro la SPAL, ha fatto quest’assist di tacco che va premiato in questa classifica non solo come momento di rinascita ma anche come un gesto tecnico effettivamente notevole.

Castan riceve una sponda di Ceppitelli, la stoppa col sinistro, è spalle alla porta e circondato da giocatori della SPAL. A quel punto decide di passarla di tacco a Sau. È un gesto tecnicamente non così raffinato ma di sicuro contro-intuitivo, che pochi giocatori in generale hanno la freddezza per eseguire in area di rigore, figuriamoci un difensore. Ad accrescere la sorpresa c’è anche la preparazione di Castan, che arriva sul pallone in modo abbastanza goffo, arrancando un po’, dando la forte impressione di non sapere cosa fare.

Chissà che Castan non torni ad essere un giocatore importante proprio nel momento in cui tutti sembrano aver perso le speranze.

Nei discorsi sul grande impatto che Massimo Oddo ha avuto sulla stagione dell’Udinese, si dice forse troppo poco delle qualità individuali dei giocatori a disposizione. Anche se naturalmente il suo merito è stato proprio quello di portare alla luce dei talenti che si erano impolverati nel 4-4-2 di Delneri. Rodrigo De Paul e Kevin Lasagna, ad esempio, sembravano giocatori molto più normali di quanto non stiano dimostrando in queste settimane, mentre stanno confezionando giocate come quelle che vediamo in quest’azione.

L’Udinese qui arriva alla conclusione in porta con un unico passaggio e tre tocchi palla complessivi, tutti di qualità eccezionale. De Paul raccoglie il passaggio sbagliato da Suso e parte sulla sinistra, ha due giocatori del Milan davanti e Suso dietro, tiene la testa alta e controlla i movimenti dei compagni. Prende tempo con una piccola stasi sul posto, poi all’improvviso sterza sul destro e, quasi con un unico movimento, lancia Lasagna al momento giusto nell’unico buco di spazio fra i due difensori del Milan che circondano l’attaccante. Lasagna supera a pieni voti un esame di stop in corsa da 12 CFU: affiancato da Romagnoli, mette giù il pallone con l’esterno sinistro, che gli permette di tenere la palla coperta e al contempo allineare il passo per il successivo controllo di interno. Poi, in trance agonistica, prova una conclusione complicatissima sul primo palo che Donnarumma respinge in calcio d’angolo.

Quando De Paul e Lasagna si lanciano nello spazio la compattezza della loro corsa - la capacità di non perdere contatto col pallone a grandi velocità - li rendono giocatori difficili da gestire per qualsiasi difesa.

Abbiamo messo anche quest’azione della Juventus, quella che porta al 6 a 0, perché somiglia per certi versi all’azione di De Paul e Lasagna, e per altri versi ne è l’antitesi. Anche qui c’è il lancio diretto verso un attaccante che arriva alla conclusione.

Se però l’azione dell’Udinese è giocata a duecento all’ora, questa della Juventus è stata realizzata quasi da fermo, in un calcio dai contorni anni ‘70. Ciò non significa che sia meno apprezzabile. La tranquillità con cui Marchisio ha potuto ricevere, alzare la testa e disegnare questo arcobaleno etereo per Higuain ne ha esaltato l’eleganza senza sforzo. La linea del Sassuolo in questo caso (ma non solo in questo caso) è stata imbarazzante, ma questo non toglie niente allo stop, al dribbling e alla conclusione di Higuain, che ne conferma lo stato di forma sovrannaturale di queste settimane.

Le cose fatte lentamente magari sono più facili di quelle fatte velocemente, ma non per questo meno belle.

Rafinha è entrato a partita in corso contro il Crotone, al posto di Candreva ma prendendo la trequarti centrale dell’Inter (con Brozovic dirottato sull’esterno sinistro e Perisic finito ad agire da seconda punta). Si è mosso molto giocando a pochi tocchi, Rafinha ha le qualità esattamente contrarie a quelle del resto degli attaccanti interisti: non è un portatore di palla, è un calciatore prima di tutto associativo. Così associativo che riesce a passare la palla a un compagno anche mentre sta cadendo, rotolando a terra, come un ninja che tira le sue stelline facendo le capriole. Ovviamente stiamo scherzando, perché non è possibile sapere se Rafinha avesse visto qualcuno nella direzione in cui ha colpito il pallone (coordinandosi per colpirlo, questo sì necessita di volontarietà). Ci andava però di premiare un giocatore che potenzialmente può arricchire non solo l’Inter ma la Serie A in generale, un calciatore sfortunato che, si spera, in Italia tornerà in contatto con il meglio del proprio talento.