Juventus, Piqué intervista Buffon: “Ritiro? Un po' di paura c'è, ma studierò"

Serie A

Il difensore del Barcellona ha intervistato Gigi Buffon per The Players' Tribune. Il portiere bianconero non si sbilancia sul suo futuro, toccando comunque tanti punti di una carriera da leggenda assoluta del calcio italiano e mondiale

JUVENTUS, QUI LA FESTA SCUDETTO

LA CONFERENZA DI BUFFON IN LIVE STREAMING 

Piqué: “Gigi, grazie per l’incontro al Centro Sportivo a Torino. Ho letto molto su di te, per esempio che anche i tuoi genitori e le tue sorelle sono atleti”.

Buffon: “Sì, vengo da una famiglia di atleti. Ho sempre saputo che lo sport sarebbe stato il mio futuro, fin da quando ero piccolo. Mamma e papà erano entrambi atleti a livello nazionale, le mie sorelle giocavano a pallavolo in Serie A. Una ha anche vinto la Champions League di volley, non come me. Ero l’unico che mancava, come più piccolo in una famiglia di atleti professionisti, volevo dar prova delle mie abilità e mostrare a loro che potevo farcela anche io. Sono stato fortunato a lanciarmi nel calcio e a diventare un portiere”.

Qual è il tuo primo ricordo del calcio da bambino?

Il mio primo ricordo? Penso che avessi 4 anni, era la Coppa del Mondo del 1982, vinta dall’Italia.

Non ero ancora nato!

Ero troppo piccolo per capire il Mondiale, ma mi ricordo i grandi che guardavano la televisione tutti in cerchio, mentre eccitati guardavano l’Italia. Giocavo a calcio fuori e realizzavo che mi piaceva giocare con il pallone. Ho passato pomeriggi a giocare a calcio e a sentire loro urlare di gioia o dolore per la Nazionale.

Hai iniziato a Parma, giocando la prima partita a 17 anni contro il Milan, senza prendere gol

Sì.

Il sogno di ogni portiere.

Sì.

Cosa si provava a essere così giovane e iniziare da una squadra così importante come il Parma, una delle migliori squadre in Italia a quei tempi?

A metà degli anni 90, per circa 10 anni, il Parma era una delle migliori in Europa. In 10 anni hanno vinto la Coppa Uefa per due volte, la Coppa Italia e la Supercoppa Europea. Era una squadra al top in quel tempo, era una partita importante quella dell’esordio. Eravamo primi in campionato, a pari punti con il Milan, che aveva grandi campioni: Baggio, Weah, Savicevic, Maldini. Avevo appena 17 anni e dovevo giocare. La mattina mi fu detto che avrei giocato e sono orgoglioso nel dire che non avevo paura. Ricordo che in quel momento ero molto felice perché era la mia prima chance di mostrare al mondo chi fosse Buffon e che fosse un buon portiere. Ricordo che la gioia vinse la paura prima di una partita cruciale.

Poi a 19 anni hai esordito in Nazionale. Andasti in Russia

Era la quinta o sesta volta che l’allora Ct Maldini mi chiamava, ma non avevo ancora giocato, perché portieri come Peruzzi e Pagliuca meritavano la titolarità più di me. Erano le qualificazioni per il Mondiale in Francia, giocavamo a Mosca, in Russia. Al 25’ Pagliuca prese una botta al ginocchio e chiese il cambio. Ero entusiasta di giocare, non avevo paura di nulla, ma quando è toccato a me non ero così felice perché nevicava. Era una partita molto importante per l’Italia, per decidere o meno la qualificazione. Ho iniziato a scaldarmi e dopo due minuti c’ero. Una volta sul campo, mi sono concentrato duramente, la paura mi ha lasciato e sono rimasto concentrato per un’ora. Dopo 5’, la Russia ha avuto una grande opportunità e ho fatto una grande parata alla mia sinistra, che mi ha aiutato a entrare bene in partita.

Sei nella storia per aver giocato cinque Mondiali, solo tre persone ci sono riuscite: tu, Matthäus e… sì, un messicano

Un portiere messicano.

Come ti senti

Bene, orgoglioso. È un lungo bottino, restare in alto richiede parecchie cose.

C’è dietro tanto lavoro?

Ti serve talento, ma anche sforzo, saper soffrire. È gratificante sapere che pochi di noi hanno giocato 5 Coppe del Mondo. È stato bello giocarne due in Europa, una in Asia, Africa e in America.

Non ci avevo pensato!

Ho giocato in ogni continente, sarebbe stato speciale giocare il sesto Mondiale, ma a volte bisogna accontentarsi. Non avevo il valore per giocare la sesta Coppa del Mondo.

Nel tuo tempo, giocare per l’Italia e vincere il Mondiale in Germania nel 2006 deve essere stato il massimo. Cosa ti ricordi? Come ti sei sentito?

A parte la vittoria, il modo in cui abbiamo vissuto la finale in Germania è stato speciale per gli italiani. C’erano un sacco di italiani che vivevano in Germania e ci hanno fatto sentire a casa. Ricordo molta felicità, festa, supporto. Non ci siamo mai sentiti soli, ho due splendidi ricordi, la semifinale di Dortmund contro la Germania.

2-0.

Due a zero, ma uno dei momenti più a nervi tesi della mia vita. Quando ci penso, mi sento male. Come può una persona gestire tutta quella tensione ed emozione? Contro la Germania fu terribile, poi la vittoria per 2-0 ai supplementari. Quando siamo andati in hotel alle 5 di mattina, c’erano dieci mila persone ad aspettarci.

Incredibile.

La cosa speciale fu che dopo aver battuto la Germania eravamo calmi, come se avessimo già vinto la Coppa del Mondo. Cose da pazzi.

Non è facile arrivare alla finale e celebrare come se si avesse già vinto. È il peggio!

Era veramente una pazzia. Dodici anni dopo guardo la Francia e vedo quanto erano forti. Pensavamo che avremmo vinto, ma avremmo dovuto giocare contro una squadra molto forte. Una squadra che ti fa pensare di poterli battere ti dà entusiasmo, la forza di sconfiggere ogni avversario. Eravamo su una linea sottile. Non temevamo nessuno e pensavamo di poter battere chiunque. Sorprendentemente fu meno stressante giocare la finale contro la Francia. Ho dormito sei o sette ore prima della partita contro la Germania, solo due prima di giocare contro la Francia. Ricordo la scomodità dovuta alle emozioni forti cui andavamo incontro, per cui era difficile riposarsi. Non è facile. Ricordo chiaramente che dopo la nostra vittoria non riuscivamo a essere felici, perché avevamo speso tutto prima. La gioia per la vittoria arrivò ben dopo la vittoria stessa.

Poi ci sono stati il Sud Africa e il Brasile, quando l’Italia non ha fatto bene, infine non vi siete qualificati nel 2018. Pensi che il calcio italiano debba riassestarsi e cercare differenti soluzioni per tornare al top?

Penso che ci sia qualcosa che non va. Non riesco a credere che l’Italia non riesca a produrre talenti come prima. Quando ho esordito in Nazionale, c’erano Baggio, Del Piero, Totti, Inzaghi, Montella, Vieri, tutti grandi giocatori di talento. Negli ultimi dieci anni l’Italia ha avuto una buona squadra. Non siamo scarsi, assolutamente, ma senza i talenti che prima avevamo, senza una certa classe di giocatori, è difficile ottenere risultati, vittorie. L’orgoglio e il senso di appartenenza sono aumentati in questi dieci anni, abbiamo poche vittorie, ma siamo arrivati in finale all’Europeo del 2012 e abbiamo fatto bene nel 2016. Il nostro orgoglio ci aiuta, facendoci fare cose superiori alle aspettative.

Pensi che la Serie A, intesa come campionato, sia un attimo sotto rispetto a Premier e Liga e che la Juventus sia l’unica squadra che possa vincere la Champions League?

Forse. Può essere vero, ma penso anche che ci siano squadre e Nazionali, come la Francia, che sempre hanno giocatori all’estero. Anche la Spagna, ci sono sempre giocatori spagnoli all’estero. Il nostro problema non è il campionato, ma le individualità, specialmente per i giocatori.

Mancanza di talento?

Sì. La Serie A può essere di livello basso, ma se continui a produrre buoni talenti, loro andranno a giocare al Psg o al Real Madrid. La Nazionale resta ad alti livelli. Ma escludendo Verratti, al Psg, non abbiamo giocatori nelle big europee se non nella Juventus. Questo è il problema.

Parlando di Juventus, un punto di svolta nella tua carriera è stato quando siete andati in Serie B ma sei rimasto. Fu una dimostrazione di amore, ma anche un grosso rischio. Potevi scegliere altre squadre e competere per la Champions League, invece hai deciso di rimanere e giocare in Serie B. Come è stato giocare in B? Fu la decisione giusta?

Quando ho deciso di rimanere in Serie B ero felice di farlo, perché credo che ci siano alcuni uomini, giocatori, che hanno l’opportunità di dare un po’ di speranza con lo sport, attraverso le loro decisioni, per il pubblico e i fan. Era il tempo che qualcuno come me mandasse un messaggio: anche i calciatori hanno sentimenti e c’è di più in vita oltre a popolarità e soldi. Lo rifarei. Poi abbiamo vinto la B, fu un anno divertente. Poi dopo due buone stagioni con un secondo e un terzo posto, abbiamo avuto due o tre anni molto brutti, dove la Juventus era irriconoscibile. Avevamo perso il nostro spirito, la nostra identità, la nostra etica di lavoro. Per qualche anno siamo finiti sesti o settimi e mi sono chiesto: “Perché ho preso quella decisione?”. Ma mi sono detto queste cose con calma, sono solitamente positivo e ottimista. Sono sicuro che il lavoro duro e un buon comportamento portano sempre cose buone. Ho sempre detto così, e sei anni dopo, quando alzavo di nuovo la coppa per la Serie A, ero così felice. Fu una decisione difficile, sei anni molto bui. Quando sei abituato a vincere… sei anni a giocare poco in Champions. Non sono riuscito a giocare molto in Europa. Con uno sforzo, siamo tornati.

Hai mai pensato di andartene in quei sei anni? È sorprendente vedere che in 23 anni di carriera hai giocato solo per due squadre, tutte due in Italia. Mai pensato di giocare all’estero?

Mi sarebbe piaciuto perché mi piace essere circondato da persone diverse, con diversi modi di vivere o pensare. È attraente. Ma nel profondo io mi sento molto italiano. So che l’Italia ha I suoi limiti, ma il mondo che conosco mi fa ridere e mi piace. Come figura sportiva, non ho voluto e non voglio tutt’ora lasciare l’Italia, finché non dovrò.

Sei professionista da 23 anni, il calcio è cambiato tanto e in quanto portiere hai visto tuoi pari ruolo giocare molto di più con i piedi. Hai visto questa transizione, con i portieri usare i piedi sempre di più, ma tu non ne hai bisogno.

È stato un buon cambiamento per me, solo un cambiamento, perché il calcio è migliorato. È più eccitante e si perde meno tempo. Penso anche che, personalmente, mi abbia fatto migliorare, perché tutti i portieri devono giocare di più con i piedi e giocare diversamente. Devi essere capace di calciare e muovere la palla sul campo. C’è un lavoro più complicato di prima, è meglio per me perché ora ho 40 anni e sto ancora giocando, perché mi piace competere e migliorare.

Alcuni mesi fa hai detto che sarebbe potuto essere il tuo ultimo anno. Ma ho parlato con Chiellini e mi ha detto che Buffon non è ancora finito. Novità? Mi sono perso qualcosa? Vedremo ancora Buffon per altri due anni?

Nessuna sorpresa. Penso che alla mia età devi valutare la situazione mese per mese, settimana per settimana. Perché per atleti come te e me, che hanno sempre giocato al top, fare il meglio, allenarsi al meglio, rimanere al top. Devi star bene fisicamente, perché non vuoi scarsi risultati per l’interesse del tuo orgoglio. Sono Buffon e voglio rimanerlo fino all’ultimo minuto. E quando non sarò più me stesso me ne andrò. In un paio di mesi incontrerò il presidente e valuteremo con calma la situazione. Sono molto felice al momento, sono felice di giocare, perché amo l’atmosfera, sono coi miei amici e so che posso aiutarli sul campo. Il giorno in cui non potrò più, nessun problema. Ho comunque avuto una grande carriera.

Hai paura del ritiro? Sei stato un professionista più a lungo di quanto non avessi pensato. Hai paura del ritiro, di lasciare il calcio e iniziando una nuova vita sconosciuta a te?

Sarei disonesto se ti dicessi che non ho paura. Ma nel profondo mi sento calmo e in pace perché so di essere curioso di natura. Il giorno in cui smetterò di giocare troverò la via per non annoiarmi e rimanere occupato. Dopotutto, giocatori come noi, che hanno vissuto intensamente, devono tenere le loro menti occupate e avere un motivo per alzarsi, qualcosa per cui combattere. Non mi annoierò o non mi mancherà la mondanità. Ogni mattina hai degli obiettivi, ma se hai 24 ore senza fare nulla può essere un problema.

Resterai in questo mondo? C’è un ruolo che ti piacerebbe ricoprire post-ritiro?

Mi piacerebbe fare corsi per diventare direttore, manager o allenatore e poi scegliere la strada senza fretta.

Per finire, hai detto che il calcio ti ha reso una persona migliore. Cosa avresti fatto se non fossi stato un calciatore?

Sarei stato sicuramente una persona peggiore. Probabilmente sarei stato un insegnante di Educazione Fisica, come i miei genitori. Stavo andando in questa direzione. Ho sempre amato gli sport ed essere circondato da bambini, ma il calcio mi ha reso migliore perché ho sempre pensato che il gruppo fosse più importante. È bello essere parte di un gruppo e condividere vittorie e sconfitte. Ti rende meno egoista. Lo trovo veramente splendido. Essere più altruista e condividere con gli altri è la cosa più bella della vita. Essere popolare ha parti positive e negative. Negative come quando sbagli e viene strumentalizzato da tv e giornali. Quelle conseguenze da esagerazione ti fanno pensare e dire a te stesso che non meriti di soffrire in quel modo. “Devo provare a non provocarli, comportandomi meglio e provando a essere una persona migliore”. Questi anni di confusione con tanti problemi mi hanno aiutato a migliorare.

Come giocatore, so che il calcio è migliore con te dentro. È stato un piacere essere con te e parlare con te. Sai che quando avevo 21 anni ho dovuto scegliere tra Barcellona e Juventus? Avremmo potuto condividere lo spogliatoio.

Davvero?

Sì, grazie. Davvero.

Grazie a te.