Pantani, scalatore asociale che incendiò le folle

Ciclismo

Paolo Pagani

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IL RICORDO. Era il 14 febbraio del 2004 quando il Pirata se ne andò. Fu l'ultimo dei campioni a sapere accendere di passione i tifosi più veri, quelli del ciclismo assiepati per strada. E allora bisogna riassumere i 10 anni di una lunga parabola triste partendo dal luglio del '94. Quando tutto iniziò

Il 24 luglio del ’94, a 24 anni, un Pirata magro e implume stendeva sulla sontuosa urbanistica degli Champs Elysées parigini il primo segnale della sua grandezza: terzo al Tour, vinto (per la quarta volta) da Miguel Indurain.  Il secondo fu Ugrumov.

Lì in Francia cominciò, e finirà dieci anni dopo nella solitudine d’una stanza d’albergo, la strepitosa parabola triste dell’ultimo atleta italiano che seppe infiammare le folle semplici. Perché nessuno come Marco Pantani, scomparso il 14 febbraio del 2004, ci ha raccontato che potere e rovina sono sempre divise da un crinale sottile. Come insegnava  un certo William Shakespeare, che di tragedie se ne intendeva. E  se il talento di un uomo lo si riconosce dalla fermezza d’animo con cui reagisce alle sconfitte, l’omino leggero in bandana fu senz’altro un talento chimicamente puro. Costruito con il fil di ferro su un esile telaio, concepito espressamente per scattare in salita. Unica ragione d’essere del ciclismo classico.

Nell’amarezza di una ricorrenza brutta, il tredicesimo anniversario della sua morte, è bello allora ricordare quel che è impossibile scordare. Non è più esistito nello sport chi accendesse passioni vere e profonde emozioni come il Panta. Scalatore asociale votato alla sofferenza. Interiore, per i fantasmi che agitarono sempre il suo animo di campione sensibile (celebre la frase ai limiti del trattato teologico:  “Vado forte in salita per abbreviare la mia agonia”). E naturalmente esteriore, perché osservarlo alzarsi di colpo sui pedali nell’unico momento adatto a farlo, ciondolare le spalle strette, gettare il foulard sudato che gli riparava la pelata dal sole giaguaro di Giro e Tour e volare davanti a tutti sui traguardi più verticali di Alpi e Pirenei  voleva dire rivedere, in lui, il più antico e faticoso dei gesti umani: vivere. Attività che, di per sé, costa sforzo.

Ogni anno, nel giorno di San Valentino, riandiamo tutti col pensiero alle ultime tragiche ore romagnole del Pirata. Quelle fissate in un mattinale dei carabinieri, in tanti processi e in altrettanti libri d’inchiesta.  La disperazione, la droga, la fine, il complotto. Ma, a parte il 1998 delle vittorie a Giro e Tour tra la stagione delle ciliegie e quella calda delle angurie, l’emozione più grande di chi l'ha conosciuto resta la scena primaria. Quando per l'appunto, luglio del ’94, il Pirata issò per la prima volta la sua bandiera. Quando l’Equipe sprecava i primi superlativi per Marco, sconosciutissimo camoscio dalle orecchie a sventola: Superbe!  Vinse la maglia bianca di miglior giovane, finì secondo dietro ai pois di Virenque nella classifica degli scalatori.  E niente fu più uguale. Almeno nella memoria degli aficionados.