MotoGP, Cadalora: "Con Valentino Rossi 3 anni intensi, era come essere in moto con lui"

a skysport.it

intervista di Paolo Beltramo

Luca Cadalora, tre volte campione del mondo tra classe 125 (1986) e 250 (1991 e 1992), ripercorre la sua carriera in un'intervista a Sky Sport: dalle schermaglie con Loris Reggiani ("Non ci potevamo vedere, oggi ci siamo accorti di essere simili in tante cose") ai tre anni come coach di Valentino Rossi ("Mi è sembrato di tornare a correre, poi ho smesso perché stava diventando una cosa troppo ripetitiva")

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Padre di due ragazze, modenese di quasi 60 anni (17 maggio 1963) membro di quella generazione di mezzo tra gli eredi di Agostini come Graziano Rossi, Lucchinelli, Uncini, Roberts, Sheene, Cecotto, Mamola e l'epoca a cavallo tra 2 e 4 tempi con piloti come Biaggi, Valentino Rossi, Stoner, Melandri, Simoncelli, Pedrosa, Gibernau. Come dire uno - e scusate se è poco - della generazione dei Lawson, Rainey, Doohan, Kocinsky, Gardner. E poi: tre volte Campione del Mondo (una in 125 nel 1986, Garelli e 2 in 250, Honda '91 e '92), grande talento, stile inimitabile, precisione, eleganza, competenza tecnica sopraffina, passione, simpatia, intelligenza, senso dell'umorismo. Anche stavolta avrete capito di chi stiamo parlando? Sì, proprio di lui, di Luca Cadalora, indimenticabile pilota e personaggio di un motociclismo diverso da quello di oggi, ma già moderno, colorato, mediatico (anche se non multi), globale, abbastanza sicuro. Insomma, un eroe insieme classico e attuale, antico e contemporaneo, sicuramente interessante e divertente nel suo racconto.

 

Allora Luca, come va?

"Sto bene, non c'è male, ma in queste cose è sempre meglio toccarsi perchè tutto può cambiare in un attimo".

 

Tu sia quando hai smesso, sia quando hai lasciato il ruolo di coach di Valentino Rossi, sei sparito. Non sei uno che resta quando non è impegnato, coinvolto.

"Il nostro è un ambiente fatto così: o sei dentro o sei fuori, difficile trovare una via di mezzo. Ora faccio lo spettatore, magari privilegiato perchè qualcosa in più della media vedo, capisco, ma comunque resto uno spettatore".

 

Ti piace ancora il mondiale con queste moto?

"È diventato così, molto diverso dal mio e bisogna che ci vada bene com'è perchè questo è e se siamo appassionati dobbiamo guardare questo, che è comunque un gran bello spettacolo. Mi piace, mi diverto, guardo le gare anche se mi pare che facciano un po' più fatica a superarsi e a battagliare con quelle appendici aerodinamiche sempre più importanti".

 

Tu hai vinto due mondiali delle 250 e quelle bicilindriche a 2 tempi: secondo me erano una moto straordinaria, con un equilibrio “cattivo” monto bello. Sei d'accordo?

"90 cavalli e 100 chili, era un mezzo dove tu riuscivi a sfruttare al cento per cento tutto quello che avevi, era davvero una bella categoria".

 

Diciamo che tu te la sei goduta abbastanza la 250...

"E' importante smettere di correre quando te la senti, io sono contento di quello che sono riuscito a fare, non ho l'amaro in bocca e questo mi ha fatto stare bene anche dopo. Sai, quando uno smette poi torna a essere quel cazzone che era prima di cominciare... Non ero male neanche quando non correvo".

 

Facevi il salto con l'asta.

"Giocavo a calcio, ma dipendevi troppo dagli altri, così ho iniziato a fare atletica con una società che si chiamava la 'Fratellanza', con persone molto in gamba, un ambiante molto bello. Ma io già allora, mentre facevo queste cose, aspettavo di capire come avrei potuto riuscire a correre in moto. Avevo già in testa questa cosa, non c'era un'altra idea. Volevo fare qualcosa di bello, di impegnativo, ma avevo già deciso di correre”.

 

In questo tuo desiderio così forte, Modena, la città dove sei nato, ha avuto un suo perchè?

"Qua c'erano Claudio Lusuardi, i Villa, che all'epoca erano ancora in attività e che erano un esempio. Poi c'era anche mio papà, che aveva corso in moto ai suoi tempi. Avevo ereditato da lui questa passione perchè mi portava in moto quando ero veramente piccolo, perchè ricordo che non arrivavo neanche ai pedalini... Appoggiavo i piedi sul motore, mi metteva davanti per non perdermi, altrimenti volavo via".

 

Invece le tue figlie niente moto?

"Ho insegnato loro a guidare perchè è giusto che sappiano cosa fare se dovessero salire su un motorino, però sono ragazze e ho piacere che sappiano andarci, ma basta così. Le competizioni anche no".

 

Sei parte di quella generazione di mezzo tra il dopo Agostini e quelli dei tempi di Rossi.

"Sì, io ho cominciato a correre negli Juniores nel 1981, cioè proprio quando Lucchinelli, Uncini, Ferrari vincevano, erano competitivi. Si giocavano il mondiale e io seguivo tutto su Motosprint come si faceva allora. Ero appassionatissimo, mi ricordo bene loro, Kenny Roberts, un po' prima Barry Sheene. Io allora avevo 16 anni e avevo gIà quella passione per le moto, seguivo anche per cercare di capire come si faceva. Mi ricordo che presi il treno per andare a vedere la '200 Miglia' di Imola, perchè c'era Roberts con quella Yamaha giallo-nera bellissima. Avevo i jeans con sopra scritto 'Kenny Roberts'. Scritto da me con la penna...".

 

Veniamo al tuo esordio nel mondiale: anno 1984, Mba 125.

"Col Team Elite. Non so come mai, ma nella mia carriera ho sempre trovato qualcuno che mi ha dato una mano, che ci credeva pure lui. Dovevo essere convincente. Allora ho trovato Ghisimberti, che aveva uno scatolificio a Rescaldina e aveva il Team Elite e mi ha dato una mano a debuttare nel mondiale. La federazione voleva farmi fare un altro anno nell'Europeo, dove ero arrivato terzo, ma lui dopo la prima gara a Vallelunga mi ha detto che sarebbe andato a parlare con chi si occupava del Team Italia dicendo che era inutile che io stessi nell'Europeo a perdere tempo, che dovevo fare il mondiale. Aveva ragione e mi ha aiutato a fare quella prima stagione. Ricordo che abbiamo corso per la prima volta al Nurburgring nuovo, non quello lungo storico. Arrivammo là su quella pista che non conosceva nessuno e feci un garone, sono arrivato secondo in volata con Nieto, davanti a Lazzarini e Gresini. Ricordo che dal podio ho visto Giacomo e Felice Agostini che guardavano con l'espressione di chi voleva vedere chi era quello là, che faccia aveva. Nessuno mi aveva mai visto, è stato il mio esordio nelle posizioni importanti, la gara dove riuscii a mettermi in luce nonostante un sacco di sventure perchè ero caduto in prova e avevo praticamente distrutto la moto. Siamo riusciti a ricostruirla e verniciata con una bomboletta che però non era sufficiente ed è venuta fuori una moto 'sfumata', diciamo rosa e non rossa... Fu incredibile, andare lassù con Nieto su quella macchina che faceva il giro d'onore in pista... Bellissimo".

 

Oggi una scena del genere sarebbe impossibile. Non esistono più, nelle categorie minori, piloti che vi dedicano tutta la carriera, Moto3 e Moto2 sono diventate categorie di passaggio.

"Allora a correre con quegli specialisti di ogni cilindrata si imparava un sacco perchè erano astuti, esperti e tu che eri un ragazzino ti rendevi conto che c'era qualcosa in più oltre all'andar forte. Dovevi usare la testa, essere scaltro... Io ho imparato tento da questi piloti 'specialisti' con i quali ho potuto correre. Ma è anche vero che io in cuor mio non ho mai pensato di fermarmi alla 125 o alla 250, avevo sempre desiderato, voluto arrivare alla 500. Però erano dei grandi maestri. Adesso le cose son cambiate, ma c'è anche qualcuno che magari è passato troppo velocemente alla MotoGP e dopo un anno o due non c'è già più. Comunque è cambiato, ma non tantissimo: le cose che erano importanti allora lo sono anche adesso. È una cosa che ho visto anche nei tre anni che ho fatto con Yamaha e Valentino (dal 2016 al 2018), che quello che conta è molto simile a quello che contava prima: come il team giusto, la squadra capace di farti dare il massimo".

Tu, ad esempio, non hai mai avuto un manager.

"Ho cercato di fare per conto mio. Ho sempre pensato che, se le cose dovevano andare male, era meglio che l'errore lo avessi fatto io e non insieme a qualcuno. Adesso forse non è più così, ma ai miei tempi praticamente non ce n'erano".

 

Hai vinto in 125 con Garelli, una moto artigianale col telaio monoscocca.

"Sì, nel 1984 c'erano tante moto fatte a mano e praticamente tutte italiane, come Garelli e MBA, poi pure Ducados e altre artigianali. I giapponesi puntavano alle cilindrate superiori e Honda è tornata nel 1987, quando io ero già in 250. Volevano farmi correre con la Garelli anche in 250, pure lei con il telaio monoscocca, ma Yamaha con il team Agostini mi ha chiamato nell'inverno a provare la loro moto a Suzuka. Mi ricordo che faceva un freddo cane, pioveva, ma quasi nevicava. È stato lì che mi sono innamorato dei giapponesi, professionali, attenti, dedicati a trovare le migliori soluzioni per farti piacere la moto. Io sono rimasto completamente estasiato dalla maneggevolezza della Yamaha rispetto alla Garelli, tanto che mi sono steso subito in un cambio di direzione da tanto veloce mi è venuto...".

 

Un bel rapporto coi giapponesi che è continuato.

"Anche con Honda in 250, ma con Yamaha è stato più bello: il loro scopo era fare una moto che andasse bene proprio per te, mentre con Honda era un po' una filosofia diversa".

Luca Cadalora in sella alla Yamaha - ©Getty

In quegli anni eri vicino a correre coi tuoi idoli della 500.

"Correvo col team Agostini e con noi in 500 c'era Lawson. Io andavo sempre nei box per guardare, cercare di capire e ho avuto un rapporto bello con Eddie, un'amicizia che è durata e che stata importante per me, perchè lui ha sempre parlato bene di me. All'epoca noi piloti italiani non eravamo proprio ben visti dai team che facevano correre in 500. Anche perchè c'era il dominio americano e non è stato facile entrare nell'interesse di queste squadre per un italiano. Pensavano che non fossimo professionali".

 

Come mai?

"Quando feci i primi test con la Honda 250 in Australia George Wukmanovich, un meccanico conosciuto e importante dell'epoca che aveva lavorato anche da noi, mi disse che non sembravo italiano italiano, non del tutto perlomeno. Voleva essere un complimento...".

 

In effetti tu sei sempre stato molto tecnico, molto analitico e preciso. Talmente tanto che forse è diventato una sorta di limite per te.

"Sì, sì sicuramente. Perché sai, non è che tutte le volte hai ogni cosa al suo posto e io sapevo come si faceva a vincere perchè lo avevo fatto in 250 col team Kenemoto, e volevo ritrovare un po' quelle sensazioni. Se io sentivo che qualcuno non avesse dato il 100%, anche io non davo il massimo. E questo è stato un mio limite. Ero un perfezionista, ma anche un po' un rompicoglioni: avere sempre la pretesa che tutti dessero sempre tutto era un po' un'utopia. So che avevo il potenziale per vincere, però uno deve anche accettare le cose per quello che sono state, anche perchè io ho trovato un avversario come Doohan che era molto bravo, molto forte, tosto, con una gran squadra ai box. Gran parte di quella squadra ha lavorato poi con Vale e io ho capito di che qualità fosse. Ma anch'io ho lavorato con grandi team e se lui ha vinto vuol dire che è stato più bravo di me, va bene così, sono cose che vanno accettate".

 

Poi ti sei dovuto confrontare con Wayne Rainey, un pilota completamente diverso da te e allora hai detto che praticamente guidava con un punto di saldatura sulla forcella...

"Sì, ma sai Wayne veniva da una scuola che era quella del dirt-track e per loro era normale che la moto scivolasse dietro, cioè doveva scivolare per curvare. Io invece pensavo che dovesse curvare in un altro modo, con la dinamica del movimento della moto ed erano due cose molto diverse. Era incredibile quello che Wayne riusciva a fare in moto. Meglio non provarci...".

 

Gran pilota e anche brava persona, vero?

"Assolutamente, era fantastico. Abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto, non ci siamo mai nascosti nulla, è sempre stato tutto molto bello. La Bibi (la fidanzata) faceva la pasta per me e sapendo che a lui piaceva ne faceva anche un piatto a Wayne, era proprio bello".

 

Insomma sei andato d'accordo con molti piloti, soprattutto in 500.

"Anche in 250. Ma sai, quando vinci tanto gli altri non è che ti amano... Qualche lotta accanita c'è stata nell'87: all'inizio della due e mezzo una bella schermaglia con Loris Reggiani, forse più da parte sua nei miei confronti, allora non ci potevamo vedere, adesso però abbiamo capito che siamo molto simili in tante cose, anche nella nostra storia. C'era una competizione che ti portava ad avere delle emozioni importanti, accese. Se poi, come me, correvi soltanto per vincere. Pensa che io non ero contento neanche se vincevo, figurati quando arrivavo secondo, terzo o peggio".

 

Neanche se vincevi eri contento?

"Non mi piaceva sentirmi appagato, vincevo, ma pensavo già a vincere quella dopo...".

 

Questa cosa l'ha detta più o meno identica anche Biaggi.

"Vedi? Era un po' una cosa naturale. Ogni pilota si rende conto di cosa gli serve per dare il meglio e io probabilmente credevo fosse giusto essere così".

 

Data la tua quasi controproducente capacità tecnica...

"Al limite del maniacale...".

 

Eri davvero un po' maniaco...

"Avevo tutte le mie manie, mi dava fastidio la ditata sul serbatoio...  Lavorare, provare, cercare sempre di migliorare la moto era qualcosa che faceva parte del mio piacere di guidare. Per me non era un problema, anzi: se trovavo qualcuno che voleva farmi provare delle cose, io andavo a nozze e quindi con Erv Kanemoto e con Warren Willing del team Roberts mi sono trovato benissimo. In 250 ho avuto Rossano Brazzi con me, che poi è diventato anche capotecnico di Valentino quando è passato in Aprilia. E queste persone, tra le quali metto pure Eugenio Lazzarini agli inizi della mia avventura Mondiale, sono parte dei ricordi più belli, i rapporti umani sono la cosa che ti resta di più, tanti episodi, tante sfaccettature, cose che ti fanno sorridere".

 

Un po' come coi giornalisti: ricordo che ci siamo mandati a quel paese, ma la gara dopo ci siamo abbracciati...

"Anche coi giornalisti succedeva, io coi miei migliori amici ho anche litigato: una persona la conosci meglio quando litighi, quindi non è una cosa importante, non sono un rancoroso. Adesso un po' sono sorpreso quando sento un pilota che dice qualcosa di diverso dal solito, ora sono davvero molto inquadrati, molto bravi a dire sempre la cosa giusta che non dà fastidio a nessuno. Sai, per noi ogni tanto è anche un po' noioso".

 

Vediamo allora: secondo te quegli abbracci a fine gara sono sinceri?

"Beh, direi di sì. Io se davo la mano a uno dopo il traguardo ero sincero, mi congratulavo... Poi naturalmente era molto più bello se lui era arrivato secondo e io primo, comunque il saluto è sempre stato sincero e credo lo sia anche adesso. Sono ragazzi anche ora, sono umani, bravi ragazzi. Forse noi eravamo un po' meno bravi ragazzi... come anche la generazione prima della mia".

 

Voi fumavate, vi allenavate di meno, vi piacevano un sacco le ragazze...

"Eh eh... beh, quelle piacciono anche adesso, direi che non sono mai andate giù di moda...".

 

Hai anche corso con moto come la Muz, Modenas...

"Devo dire che guarda, smettere di correre è veramente una cosa difficile, tosta: per vent'anni la mia vita sono state le corse e basta. Quando non correvi aspettavi di correre di nuovo, quindi non è che ti godevi tantissimo il resto. Così, pur di non smettere, a volte fai anche qualche cagata... Come magari esagerare a pensare di poter andare con la Muz a fare qualcosa di buono (che tra l'altro un podio lo hai fatto...) però è così, chiudere in bellezza è molto difficile e riuscire a dire basta con la cosa più importante che hai avuto nella tua vita non è così semplice. Lì magari ero andato un po' oltre, come mi ha detto una volta Valentino: 'Però quella volta là con la Muz hai un po' esagerato eh... Vabbè che eri un buon collaudatore, ma insomma...".

Hai provato anche la Ducati Superbike nel 2000.

"Sì, mi chiesero di provare la moto non so bene perchè... Ho fatto una gara a Donington, ma la moto era troppo diversa da quelle alle quali ero abituato: un gran bel motore, me lo ricordo, però non mi piaceva da guidare, era una guida un po' più 'casual' diciamo. Poi ci hanno messo Bayliss, che era bravissimo e ci è andato molto forte. Era perfetto perchè serviva uno che non avesse mai guidato una moto che andava bene per fare dei risultati con quella. Hanno vinto un sacco di mondiali, ma a me quelle derivate di serie non andavano benissimo, serviva essere un tipo di pilota che non ero io: fletteva di qua, fletteva di là, facevi una curva due metri più in qua, poi due metri più in là, non era un tipo di moto che mi piacesse. Adesso, però, le hanno fatte proprio bene le MotoGP...".

 

Dopo le gare hai avuto una passione per i computer e le macchine.

"Mi sono detto: adesso devi conoscere delle altre cose, non ci sono soltanto le moto al mondo e allora ho cercato un po' di istruirmi, mi sono costruito sette od otto computer. Poi ho comprato una casa in campagna e ho cominciato a imparare qualcosa sulla terra, sul giardinaggio. Un po' così, sai devi passare quei tre/quattro anni che sono difficili e quindi mi sono impegnato con tutte le mie forze per non fare delle cavolate prima di tutto. Avevo visto altri piloti prima di me, appena smesso di correre avevano fatto delle cavolate e così mi sono detto di stare attento, cercando di svagarmi nel miglior modo possibile senza sprecare troppo”.

 

E le macchine?

"La passione per le auto l'ho sempre avuta anche quando correvo, nel 91/92 Ho fatto qualche gara con l'Alfa. Poi mi sono appassionato a macchine giapponesi come le Mitsubishi e le Subaru e mi sono divertito. Erano fatte per i rally, ma io ne facevo un uso improprio e cercavo di farle andare bene in pista".

 

Un po' come Reggiani insomma...

"Sai, l'altro giorno ci siamo sentiti e gli ho detto: 'Reggio, sto mettendo a posto le mie cose che le avevo buttate in giro di qua e di là. Però è una bega, non sai mai come fare, dove mettere le cose...'. Mi ha chiesto da quanto tempo fossi impegnato con queste cose: gli ho detto da un paio di settimane e lui mi ha risposto: 'Ah, io saranno sei anni...'. Pure io ho un capannone. Ho visto che alla fine facciamo un po' tutti le stesse cose, sembriamo fatti con lo stampino. Siamo morti dal ridere con questo: le tute vecchie, borse piene di ginocchiere che non puoi mica buttarle via, allora le seppellisco là in campagna ho detto... Abbiamo un po' le stesse manie".

Luca Cadalora con Valentino Rosso in Yamaha - ©Motorsport.com

Parliamo del periodo in cui hai fatto il coach di Valentino Rossi...

"Bellissimo. Sai, è un po' come quando vai in soffitta e trovi un cappotto dimenticato e quel cappotto ero io. Una bella avventura, nella quale ho cercato di dare il massimo, ma che mi ha anche dato moltissimo, sono stati tre anni intensi. Adesso lo fanno in tanti, ma noi l'abbiamo fatto a modo nostro ed è stata una cosa un po' inattesa. Ma c'è stata della sintonia, anche se prima non eravamo amici. Non era sicuro che funzionasse, invece mi è sembrato di tornare a correre, mi sentivo come se fossi in moto con lui. È stato intenso. Dopo tre anni ho smesso perchè era un impegno gravoso e stava diventando una cosa un po' ripetitiva e io sono così: quando una cosa diventa come un lavoro normale, non mi emoziona più e quindi ho smesso prima che diventasse un obbligo. E poi avevo le mie figlie che diventavano grandi e volevo essere a casa a fare il papà, accompagnandole nella loro crescita, che era importante".

 

Sei felice insomma

"Sì dai, felice... normale direi".

 

E ora cosa fai? Anche se per i prossimi sei anni sarai impegnato col tuo museo...

"No, il museo no. Ho messo a posto perchè c'era un caos infernale che sembrava fosse scoppiata una bomba. Avevo delle borse che erano ancora intatte da quando tornavo a casa dalle gare. Ho provato a mettere un po' in ordine, ma di musei io non ne faccio: ho il mio posticino dove mi occupo delle mie cose, ho ancora una macchina o due e ci lavoro un po', poi faccio il papà, ho la casa in campagna che mi tiene impegnato, il cane, il gatto...".