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NBA: Kobe&Harden, tutte le verità di Dwight Howard

NBA
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Si confessa il centro degli Atlanta Hawks: molta più ruggine verso gli Orlando Magic ("avevano promesso di cedermi a Brooklyn") che per Kobe Bryant o James Harden. E per il suo futuro ha una certezza: "Sono un giocatore da Hall of Fame". 

Dwight Howard è tornato a casa prima del via della stagione, la sua 13^ nella lega, di nuovo ad Atlanta, dove tutto è iniziato, come giocatore al liceo ma prima ancora come tifoso. Degli Hawks, ovviamente, ha raccontato a Marc Spears, giornalista di ESPN: “Non avevo scelta, a casa non avevamo la tv via cavo per cui si vedevano solo le partite di Atlanta. Ricordo le poche volte che riuscivo ad andare al palazzetto: sempre nei posti più alti, sognando come sarebbe stato vedere una partita da vicino”. Di quegli Hawks ricorda Stacey Augmon, uno dei suoi giocatori preferiti, ma anche Mookie Blalylock e Jason Terry, “che era venuto a fare un’apparizione al nostro liceo, lo ricordo ancora benissimo”. Poi, però, una dozzina d’anni lontano da casa, a Orlando per otto stagioni – dopo la prima scelta assoluta al Draft 2004 – poi a Los Angeles per un solo anno, prima di trascorrere gli ultimi tre a Houston. Una carriera che lo ha visto 8 volte all’All-Star Game e per 3 volte votato miglior difensore NBA ma dove non sono mancati momenti difficili, tanto dal punto di vista personale che relativamente al suo rendimento in campo. Nella sua Atlanta sembra rinato: destinato ai playoff (anche se difficilmente con una delle prime 4 teste di serie a Est, quindi senza fattore campo già dal primo turno), lui viaggia al 4° posto nella lega per rimbalzi (12.9 a sera, la sua miglior prestazione dai tempi di Orlando) per percentuale al tiro (vicino al 64%, suo miglior dato di sempre), anche se segna meno che in passato (solo 13 punti a partita, peggio aveva fatto soltanto da rookie) e il suo net rating è leggermente negativo, sollevando qualche dubbio sul reale impatto del n°8 su questi Hawks. Sarà proprio l'andamento ai playoff a stabilire se l'annata di Howard e di Atlanta sarà da considerare positiva o invece l’ennesima stagione interlocutoria, dopo 9 partecipazioni consecutive ai playoff ma con solo una finale di conference, quella del 2015, peraltro brutalmente persa contro i Cavs, 4-0. In attesa dei risultati del campo, però, Howard non si risparmia qualche digressione sul suo passato, buona anche per togliersi qualche sassolino dalle sue Peak, il brand cinese di cui è testimonial. 

Odio/amore con Orlando – A partire dalla sua prima (e più lunga esperienza) in Florida, a Orlando, dove ha raggiunto la sua unica finale NBA nel 2009, perdendola contro i Lakers. Due anni e mezzo più tardi, con la lega bloccata dal lockout e la stagione 2011-12 a rischio, le cose erano già cambiate completamente: “Volevo un cambiamento nella mia vita. E per averlo sentivo di dover lasciare Orlando. Niente contro la città, i tifosi, la squadra, l’allenatore [Stan Van Gundy, ndr] o i miei compagni. Era solo un’esigenza personale”, racconta lui. “Avevo chiesto di essere ceduto a Brooklyn, e mi era stato dato l’ok. Avevo già detto addio ad alcuni compagni, congedandomi dopo anni e anni in maglia Magic. E invece nulla: il giorno dopo avevano cambiato idea, niente più cessione”. Howard è costretto a far buon viso a cattivo gioco: scende in campo come niente fosse, c’è una stagione – accorciata dalla serrata – da disputare, ma qualcosa si è rotto. “Mi ha dato fastidio il fatto che abbiano cercato di mettermi contro la città, mettendo in giro voci assurde su di me. Dopo che proprio io avevo aiutato a mettere Orlando sulla mappa, mentre prima qui gli avversari venivano in città solo per andare a Disney World senza neanche preoccuparsi di dover disputare una partita”. 

 

L.A. & Houston – L’addio a Orlando, però, non gli porta quella tranquillità sperata. In una piazza come Los Angeles, anzi, le attenzioni dei media sono ancora più morbose, e del suo rapporto – si dice complicato – con Kobe Bryant si riempiono pagine su pagine. “Mai avuto un problema con lui, così come non ne ho avuti con Steve Nash”, assicura Howard. I guai erano altri, e riguardavano il suo corpo: “Mi son dovuto operare alla schiena, e son tornato in campo nonostante mi avessero consigliato di fermarmi. Ho sfiorato i 20 punti e 14 rimbalzi a sera [in realtà più vicino ai 17 e 13, ndr], in quelle condizioni, ma l’impressione è che nel mio anno ai Lakers io abbia fatto schifo”. Indossa il gialloviola solo una stagione, poi dice addio a Bryant e sceglie James Harden come suo partner-in-crime per puntare al titolo. A Houston. “E abbiamo raggiunto la prima finale di conference in 20 anni di storia dei Rockets, quando non se l’aspettava nessuno”. Pure con Harden, però, si parla di gelosia e incomprensioni. Che Howard nega, definendoli “piccoli malintesi di comunicazione”. “Mai niente di personale – giura – e anzi sono felicissimo della stagione che sta avendo quest’anno: ho sempre pensato, fin dai suoi anni a OKC, che fosse un grande giocatore”.  

Maturità ad Atlanta – Dopo tre anni in Texas, in estate la chance di tornare a casa, colta al volo. “Mi piacerebbe giocare 20 anni nella lega, questa è la mia 13^ stagione e se fosse possibile vorrei terminare la mia carriera qui, in maglia Hawks”. Per puntare in alto “dobbiamo migliorare nella costanza, giocare forte ogni quarto, per 48 minuti – dice – ma se muoviamo bene la palla e tutti sono coinvolti possiamo battere chiunque”. È ottimista “Superman”, come da personaggio, anche se non sembra facile immaginarsi Atlanta già pronta per giocarsi l’anello. “Ci penso ogni giorno. E non smetterò di farlo fino al termine della mia carriera”. Perché spessso sono le vittorie a definire l’impatto di un giocatore sulla storia del gioco. Del suo però Howard è già sicuro: “Guardate quello che son riuscito a fare: per sei anni consecutivi sono stato il miglior rimbalzista NBA, per tre volte il miglior difensore, non c’è mai riuscito nessuno [inesatto: Dikembe Mutombo ci è riuscito 4 volte, ndr]: sono un giocatore da Hall of Fame, non ho nessun dubbio”. Convinto lui…