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NBA, la corsa al premio di MVP: Kawhi Leonard

NBA

Mauro Bevacqua

Il meno chiacchierato dei quattro principali pretendenti al titolo di MVP è anche quello che gioca nella squadra col miglior record. Mai così efficiente in attacco, sempre determinante in difesa, Kawhi Leonard ha tutto per essere considerato il miglior giocatore NBA 2016-17

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Per convincersi della legittima candidatura di Kawhi Leonard a MVP 2017 non serve altro che procurarsi il dvd della gara del 6 marzo scorso contro quegli Houston Rockets di (guarda un po’…) un altro candidato al premio come James Harden. Perché quella partita può davvero essere considerata il simbolo di tutto. Delle 6 stagioni trascorse nella lega (migliorando ogni anno la sua media punti, dai 7.9 fatti registrare da rookie agli attuali 26, quasi 5 in più rispetto allo scorso campionato), della sua leadership ormai indiscussa all’interno della squadra, dei suoi incredibili progressi offensivi (39 punti di cui 17 nel quarto quarto con la tripla decisiva in faccia a Nene) e ovviamente della sua ineguagliabile forza difensiva (la stoppata sul layup di Harden nel finale, come a giustificare gli ultimi due titoli di Difensore dell’Anno NBA). Una partita dominata dall’inizio alla fine, ma che fino a metà terzo quarto aveva visto anche un altro protagonista non certo inferiore, James Harden, titolare di 30 punti e 10 assist con ancora 17 minuti da giocare sul cronometro della partita. A quel punto, in marcatura sul n°13 dei Rockets, ha scelto di andarci proprio Leonard, sostituendo Danny Green. Risultato: primi tre possessi, tre palle perse di Harden, con il “Barba” poi continuamente annichilito anche per tutto l’ultimo quarto (solo 4 punti segnati, contro i 17 del suo nuovo avversario diretto). Fino a quelle giocate finali, talmente impressionanti da riportare alla memoria momenti di assoluta onnipotenza cestistica come i famosi 52 secondi di Michael Jordan in gara-6 delle finali NBA 1998 contro Utah (sottomano-recupero su Karl  Malone-tiro della vittoria su Bryon Russell) o la chase down di LeBron James su Andre Iguodala delle ultime finali tra Cavs e Warriors. 

Defense first — Al riguardo erano poi arrivate — puntuali e chirurgiche, nel dopo partita — le parole di coach Popovich: “Quella stoppata è ciò che lo rende speciale. Fondamentale anche la sua tripla, certo, ma quei canestri li fanno tutti, anche Harden e Steph Curry, mentre non conosco molti giocatori che poi corrono in difesa a fare la giocata che ha fatto lui. E non solo oggi, ma sempre, con costanza, per tutta la partita, gara dopo gara”. Un primo criterio quindi per sostenere che Leonard sia innanzitutto diverso ma soprattutto migliore degli altri pretendenti al titolo di MVP lo offre al dibattito il suo allenatore. Nessuno è così determinante nella metà campo difensiva come il n°2 degli Spurs, come riconosciuto dalla lega lo scorso anno (547 punti contro i 421 di Draymond Green, secondo — e il terzo lontano a 83) e ancora due stagioni fa (333 contro i 317 sempre di Green), rendendolo il primo giocatore dai tempi di Dennis Rodman nel 1990 e 1991 a ottenere tale riconoscimento in annate consecutive. Se alcune statistiche avanzate sembrano non rendere giustizia a quanto detto fin qui (il defensive rating degli Spurs con Leonard in campo è di 104.1 punti per 100 possessi, mentre scende a uno straordinario 96 quando lui si riposa) una spiegazione c’è, e porta al fatto che a lungo nel quintetto iniziale Leonard è stato in campo con difensori non certo eccellenti come Tony Parker e Pau Gasol (prima che il catalano venisse sostituito nei primi cinque da Dewayne Dedmond) e dalla scelta di diversi coaching staff avversari di “sacrificare” il proprio miglior attaccante (di solito preso in consegna da Leonard) per affrontare 4 vs. 4 gli Spurs nel tentativo di attenuare il suo impatto difensivo (secondo NBA.com l'ala degli Spurs è nella top 10 NBA nei tre indici di "difesa preventiva" che vengono misurati, quantificando l'impatto sul numero di tocchi, di punti realizzati e sulla percentuale al tiro dei suoi diretti avversari). Un impatto quindi che rimane fortissimo per mille motivi, risultato di doti naturali ma anche di una grande dedizione allo studio del gioco. Tra le prime rientrano due mani ormai leggendarie (“Tanti tifosi mi fermano e vogliono una foto con le loro mani vicine alle mie”, racconta lui, sconsolato…), che misurano 28.5 cm. dalla punta del pollice a quella del mignolo (risultando quindi del 52% più grandi di una normale mano “umana” e del 19% della media di quella di un giocatore NBA) e quasi 25 centimetri dalla base del suo palmo fino alla punta del suo dito medio (più grandi, per fare un esempio, di quelle di Anthony Davis). Importanti per toccare palloni, recuperare rimbalzi, intercettare passaggi e terrorizzare ogni attaccante, il cui palleggio non è mai sicuro se nelle vicinanze ci sono le “tenaglie” del n°2 nero-argento montate alle estremità di due braccia interminabili. A testimoniare invece la sua dedizione alla metà campo dietro, arrivano le sue (rare) parole, che aiutano a gettare una qualche luce sul suo approccio difensivo: “Quando studio i video degli avversari, più che concentrarmi sui singoli giocatori io studio gli schemi offensivi di ogni squadra, per capirne le tendenze. Voglio che contro di me siano costretti a cambiare il loro modo di giocare”. E tanto le immagini di una qualsiasi partita quanto le statistiche fatte registrare (0.824 i punti per possesso concessi ai suoi avversari diretti) sono lì a dimostrazione del suo successo. “Devi diventare il miglior difensore della NBA, 10 volte più forte di un Bruce Bowen”, gli aveva detto Gregg Popovich al suo ingresso nella lega. Missione compiuta. 

Nuovo leader Spurs — L’ingresso nella NBA di Leonard avviene con l’ormai celebre trade al Draft 2011, con la quale gli Spurs decidono di rinunciare a George Hill per mettere le mani sul ragazzo di San Diego State University appena chiamato con la 15^ scelta assoluta dagli Indiana Pacers. Un salto indietro di neppure due mesi porta alla sfida di primo turno dei playoff che vedeva di fronte Spurs (testa di serie n°1) e Grizzlies (n°8) — e Memphis in grado di scioccare il mondo NBA eliminando una squadra da 61 vittorie e 21 sconfitte che improvvisamente (tanto all’esterno quanto, forse, all’interno) si scopriva forse troppo vecchia e destinata al declino. “L’arrivo di Kawhi ha cambiato il corso della nostra organizzazione — riconosce il general manager degli Spurs R.C. Buford — rimettendo vento nelle nostre vele e dandoci la spinta per poter continuare a eccellere”. Quella spinta ancora più necessaria dopo il ritiro del lìder màximo Tim Duncan, avvenuto la scorsa estate. La successione è ora ufficiale (“Oggi Kawhi sa di avere semaforo verde da parte nostra, e questo fa la differenza”, le parole di Popovich) ma il processo che ha portato gli Spurs a diventare sempre di più la squadra di Leonard è già in atto da diverse stagioni. Non va dimenticato che a sollevare il premio di MVP delle ultime finali vinte dai nero-argento contro LeBron James e gli Heat nel 2014 non c’era già più Duncan (MVP dei titoli del 1999, 2003 e 2005) né Tony Parker (2007), un riconoscimento poi fatto seguire dai due titoli consecutivi di miglior difensore NBA (2015 e 2016) e da altrettante convocazioni in quintetto (2016 e 2017) all’All-Star Game. Una tripletta di onori riuscita soltanto, nella storia della lega, a due altri giocatori, leggende del calibro di Michael Jordan e Hakeem Olajuwon. Illuminante la risposta spedita da Leonard all’sms di congratulazioni arrivatogli sul cellulare dal suo miglior amico dai tempi di SDSU Jeremy Castleberry (e oggi membro del dipartimento video degli Spurs): “Questo è solo l’inizio”. Siamo tutti avvisati. 

Onnipotenza — Per convincersi che non sia certo una risposta fuori luogo, da sbruffone (anzi, dei 4 candidati MVP Leonard è senza dubbio quello dal profilo più basso, caratteristica forse sconveniente in fase di votazioni), si deve necessariamente tornare alla famosa gara del 6 marzo contro gli Houston Rockets. Una partita che non può essere trattata come un’eccezione nella stagione del n°2 di San Antonio, bensì come la regola. Partita precedente, contro Minnesota: 34 punti, 10 rimbalzi, 6 recuperi, 5 assist, tutti i canestri decisivi per forzare i tempi supplementari e altri 6 punti nell’overtime, per la vittoria. Solo 24 ore prima, contro New Orleans (altra vittoria in OT): 31 con recupero decisivo nel finale; la gara ancora antecedente, contro Indiana: altri 31 punti, 10 rimbalzi, 3 recuperi e il canestro della vittoria contro Paul George. Insomma, l’eccellenza di Kawhi Leonard va ben oltre una stagione da massimi in carriera per punti (26.0 a sera, con 35 escursioni ad almeno 30 punti, dopo esserci riuscito solo 4 volte in tutta la sua carriera) ma anche per assist (3.5) e per percentuale (17.7%) di assist (a lungo considerata un’area del suo gioco poco sviluppata), oltre che per la precisione dimostrata in lunetta (88.4% su 7.6 liberi tentati a sera, tre in più del suo massimo stabilito lo scorso anno) e per uno usage rate che racconta come quasi un terzo (31.2%) dei possessi degli Spurs passino per le sue mani. Il tutto nella squadra che — Golden State probabilmente a parte, e non è ancora detto — chiuderà l’anno con il miglior record di lega, fattore da considerare dando una veloce occhiata agli ultimi dieci anni di NBA. Per ben 7 volte l’MVP ha fatto parte della squadra che ha chiuso in testa la regular season (Durant 2014, James 2012 e Bryant 2008 le uniche tre eccezioni), quasi a confermare una vecchia definizione che semplicemente vorrebbe qualificare l’MVP come il miglior giocatore della miglior squadra. Non lo saranno magari gli Spurs a metà aprile, così come magari non sarà Leonard l’MVP 2017. Ma questo non vuol necessariamente dire che non se lo meriti.