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NBA, la corsa a giocatore più migliorato

NBA

Stefano Salerno

In una stagione con tanti potenziali MVP, si rischia di perdere di vista chi in questa regular season ha compiuto enormi passi in avanti nel proprio sviluppo. Ce ne sarebbero decine da citare, ma nessuno sembra di meritarlo più di Antetokounmpo, Beal, Jokic e Booker

Di tutti i premi assegnati a fine stagione, quello di giocatore più migliorato mette più degli altri in difficoltà rispetto alla definizione oggettiva di un limite entro il quale ragionare. Mi spiego: che Russell Westbrook sia un candidato MVP è fuor di dubbio, ma potrebbe essere anche un potenziale MIP? Beh, perché no: rispetto alla scorsa regular season, a parità di minuti giocati e di assist messi a referto (nonostante senza Kevin Durant sia molto più difficile veder finire la palla sul fondo della retina), ha aumentato del 35% la sua produzione di punti (da 23.5 a 31.7) e del 37% la quantità di rimbalzi nel suo box score (da 7.8 a 10.7). Il tutto senza pronunciare le parole “tripla doppia”, le quali aprirebbero un capitolo talmente vasto che ci porterebbero a scrivere il sequel di quanto già in parte raccontato sul numero 0 dei Thunder. No, quindi, il fatto che non sia possibile considerare Westbrook come giocatore più migliorato, porta in dote con sé una determinante da porre a monte di tutto il ragionamento: sei hai la sfortuna di essere così forte da poter pensare di concorrere per il premio di MVP, non sei dei nostri. Ed è per questo che parte dei nomi snocciolati da Zach Lowe non verranno presi in considerazione: Gordon Hayward e soprattutto Isaiah Thomas sono esplosi, diventando giocatori decisivi in due delle otto migliori squadre NBA (come minimo), Top-10 dell’intera lega. Questa invece è una classifica fatta dagli Zach Randolph di questo mondo e nonostante il favorito nella corsa al premio sia un potenziale MVP per il prossimo decennio, non averlo ancora completamente dimostrato fa sì che in lizza possa starci eccome.

Giannis Antetokounmpo, Milwaukee Bucks

The Greak Freak ha compiuto in meno di un anno il passo più lungo nella catena evolutiva del basket fatto negli ultimi lustri (e non perché riesca a fare un terzo tempo partendo dall’arco): il centro che diventa playmaker, a guardarla con gli occhi di chi oggi ha più di 40 anni. Un prodigio della natura in quanto a proporzioni e aderenza al Gioco che dopo tre anni di apprendistato è sbocciato, diventato in un solo colpo il migliore dei suoi Milwaukee Bucks alla voce punti (23.1), rimbalzi (8.7), assist (5.4), recuperi (1.7) e stoppate (1.9). In un ipotetico parallelo con i vincitori del passato, il suo eventuale successo ricorderebbe molto quello di Tracy McGrady, al quale però servì cambiare aria, lasciare i Raptors e affermarsi definitivamente ai Magic. In una classifica stilata dopo poco più di un mese di regular season, tra i cinque nomi indicati nel concorrere al premio c’era anche quello di Jabari Parker, suo compagno ai Bucks, costretto ancora una volta a fermarsi per strada e senza una vera e propria stagione completa alle sue spalle per “misurare” il progresso. Nella scheda dedicata ad Antetokounmpo si dice: “Il suo non è soltanto un miglioramento rispetto alla passata stagione, ma un passo avanti rispetto a tutto quello che ha fatto fino a oggi in NBA”. Se il concetto di “migliorato” avesse un range entro il quale compiere le sue valutazioni, andrebbe resettata la scala “da 0 ad Antetokounmpo”.

Bradley Beal, Washington Wizards

Ecco, Bradley Beal è un altro che il gusto di una stagione senza infortuni non l’aveva mai realmente assaporato. Un piacere nuovo, che i limiti imposti dal rodaggio obbligato dopo le diverse operazioni subite nel corso degli anni sembravano non concedergli mai più. E invece questa regular season ha avuto finalmente un sapore diverso (tocca pure ferro, Bradley): i 2651 minuti giocati sono già di gran lunga il bottino più cospicuo mai racimolato dal numero 3 degli Wizard, che non aveva mai avuto difficoltà a trovare il fondo della retina, ma che quest’anno ha fissato il suo massimo alla voce percentuale effettiva dal campo (60.2% di True Shooting). Inevitabile quindi che con l’aumento di utilizzo le sue cifre siano schizzate verso l’alto, così come il suo impatto sui capitolini: con lui in campo, Washington batte gli avversari di 5.4 punti su 100 possessi (la media di squadra è +1.7). Senza la terza scelta al draft del 2012 infatti il Net Rating degli Wizards precipita a -6.6. Si passa in sostanza dall’essere gli Houston Rockets (terzi in NBA) al diventare gli Orlando Magic (penultimi). A livello di vittorie poi, rispetto agli altri giocatori in lizza, non c’è paragone, visto il ruolo da coprotagonista assieme a John Wall della cavalcata che a riportato gli Wizards dopo 38 anni nuovamente in vetta alla Southeast Division, con il terzo posto a Est ancora ampiamente alla portata. Risultati inimmaginabili, se coach Scott Brooks non avesse potuto disporre del miglior Beal mai visto in NBA.

Nikola Jokic, Denver Nuggets

Per i giocatori al secondo anno nella lega, è sempre labile il confine tra sviluppo e maturazione. Compiere dei passi avanti è fisiologico per tutti, anche per chi difficilmente lascerà un’impronta duratura. Quelli compiuti da Nikola Jokic però, sembrano dei segni molto più consistenti, lampi diventati via via più frequenti nell’illuminare una stagione che i Nuggets avrebbero archiviato ben prima senza le sue prodezze. Quello che più meraviglia del centro serbo infatti è la naturale inclinazione al gioco, evidente nell’approccio spesso grezzo con cui realizza giocate che le anticamere dei cervelli dei nove atleti che dividono con lui il parquet neanche contemplano. Jokic genera pallacanestro anche non volendo, diventato in poche settimane perno del secondo miglior attacco NBA del 2017 (113.4 di rating offensivo), ossia da quando il suo posto da titolare non è più stato in discussione. Con lui in campo in realtà i Nuggets viaggiano a 115.5 punti realizzati su 100 possessi, che crollano a 104.6 quando va a sedersi in panchina. A questo si aggiungono poi le sei triple doppie che in una stagione normale gli avrebbero garantito per settimane titoli e prime pagine, visto che mai nessun non-statunitense ne aveva messe a referto così tante in una singola stagione, oltre che un giocatore delle sue dimensioni. Quest’anno però, va così. Anche se per la corsa al premio di MIP non sembra poi così indietro rispetto agli altri.

Devin Booker, Phoenix Suns 

L’outsider in una lista che nei primi tre posti vede giocatori che sembrano già avviati a definire un podio abbastanza scritto, è Devin Booker che di controindicazioni all'interno del suo foglietto illustrativo ne ha molte, ma già oggi è garanzia di spettacolo e talento. Per lui vale lo stesso discorso fatto per Jokic sotto l'aspetto della poca esperienza nella lega, ma le loro candidature diventano più che giusficabili guardando indietro al riconoscimento dato a Gilbert Arenas nel 2003, anche lui al secondo anno nella lega e non con molta esperienza alle spalle. Il numero 0 infatti giocò soltanto 47 partite nella sua prima stagione NBA e quando durante il secondo anno i suoi minuti (e di conseguenza le cifre) lievitarono, non ci furono molti dubbi nel dargli il premio di giocatore più migliorato, visti soprattutto gli enormi margini lasciati intravedere. Quegli Warriors vinsero 38 partite (ben più di quelle dei Suns di quest'anno, certo), non qualificandosi però per i playoff. Phoenix alla post-season non ha neanche mai pensato, così come fino a due settimane fa non aveva un motivo per ricordare questa regular season. Poi sono arrivati i 70 punti di Booker contro Boston, in una partita strapersa di cui nessuno però ricorda già il punteggio. Con Devin, che di anni ne ha solo 20, sembra esserci davvero tutto il tempo per poter sognare.