Nella giornata di mercoledì la polizia è intervenuta nella casa losangelina di LeBron James per rimuovere un insulto razzista lasciato con lo spray sul cancello di ingresso dell'abitazione. E la superstar dei Cavs dichiara duro: "Essere neri in America vuol dire questo, ancora oggi"
OAKLAND — Iniziano con una distrazione sicuramente non richiesta le ottavi finali NBA di LeBron James. Nella giornata di mercoledì, infatti, la polizia di Los Angeles è intervenuta nella casa di proprietà della superstar di Cleveland — nel lussuoso quartiere di Brentwood — a seguito di una segnalazione di un insulto razzista scritto con lo spray da una mano ignota sul cancello di ingresso dell’abitazione. Al momento dell’arrivo dei poliziotti, attorno alle 6.45 del mattino, qualcuno aveva però già ricoperto di vernice la parola incriminata (quella che negli Stati Uniti viene definita the n-word). Il fatto ha ovviamente attirato l’attenzione dei media già tutti riuniti a Oakland alla vigilia della prima gara di finale della serie tra Golden State e Cleveland, e le prime domande sono quindi arrivate immediatamente sulla questione: “Se può servir a mantenere il tema del razzismo vivo nel dibattito di ogni giorno accetto anche questo”, le prime parole di James al riguardo, pronunciate soltanto dopo un lungo momento di silenzio e di riflessione a seguito della domanda. “La question razziale è sempre di attualità in tutto il mondo e anche in America; il problema dell’odio razziale verso gli afro-americani è una cosa di ogni giorno, anche se a volte è nascosto — c’è chi lo professa nascondendosi, c’è chi ti sorride in faccia e poi ti dice cose sgradevoli alle spalle — ma succede ogni giorno. Per questo mi è venuta subito in mente la decisione simbolica della madre di Emmett Till [brutalmente assassinato a soli 14 anni nel 1955, un’uccisione che contribuì a scatenare il movimento per i diritti civili degli afroamericani, ndr] di tenere aperta la bara del figlio durante la cerimonia funebre, in modo da far vedere al mondo intero cosa vuol dire essere neri in America, ieri come oggi. Non importa quanto sei famoso, non importa quanto la gente ti possa ammirare: essere neri negli Stati Uniti rimane una condizione difficile — abbiamo tanta strada ancora da percorrere prima di raggiungere una vera eguaglianza, dobbiamo continuare a progredire, non regredire. Fortunatamente la mia famiglia è al sicuro, questo per me è la cosa più importante”.
“Il basket non è la cosa più importante della mia vita”
E sul tema della famiglia LeBron James è tornato ancora nel corso della sua prima conferenza stampa di queste finali NBA: “Quello che è successo a casa mia a Los Angeles mi ha tolto un po’ di energia, potete vedere che non sono il solito LeBron James. Per fortuna mia moglie la vera dinamo di casa, e grazie alla sua carica e alla sua energia anche in un momento come questo la mia famiglia e i miei bambini hanno potuto superare questo brutto episodio. La cosa che mi pesa di più — che davvero mi uccide — è il fatto di non poter essere a casa con loro e spiegare in prima persona ai miei bimbi cosa è successo. Lo ha fatto per me mia moglie, lo hanno fatto mia madre, anch’io ho potuto parlare con loro tramite FaceTime ma mi sarebbe piaciuto farlo faccia a faccia, di persona. Fa parte del mio compito, quello di dare ai miei figli una sorta di manuale di sopravvivenza, le istruzioni per potersela cavare nella vita: poi però spetta a loro riuscirci, dovranno fare da soli, e da soli saranno prima o poi in grado di spiccare il loro volo”. E partendo da un tema sociale, passando per l’importanza della famiglia, la superstar dei Cavs è arrivato a parlare di pallacanestro, con parole che hanno suscitato parecchia attenzione: “Oggi il basket non è la cosa più importante della mia vita. Sono a un punto della mia vita in cui le mie priorità sono nel giusto ordine e la pallacanestro per me viene dopo la mia famiglia e anche dopo la mia responsabilità nell’essere un role model per tanti bambini in questa società”.