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NBA Finals, Durant: "Tanti superteam non ce l'hanno fatta, noi sì"

NBA

Mauro Bevacqua

Kevin Durant ripercorre le tappe del suo processo di integrazione nella squadra oggi campione NBA, dal primo giorno di training camp all'esordio in prestagione a Vancouver, passando per la brutta sconfitta di Memphis. Ma dice: "Amo e rispetto troppo il gioco: sapevo che prima o poi ce l'avrei fatta"

OAKLAND — “Mi ricordo il primo giorno di training camp — sono le prime parole di Kevin Durant da MVP NBA — mi ricordo che non sapevo cosa aspettarmi, non conoscevo quasi nulla di questa squadra, di questo gruppo di ragazzi. Volevo solo essere me stesso, ed è così che mi sono comportato per tutta la stagione”, racconta. “Mi ricordo la prima amichevole stagionale a Vancouver, quando ho capito subito di aver trovato il gruppo che volevo, il cameratismo che cercavo. Oggi il titolo è solo la ciliegina sulla torta”. Per arrivarci ha dovuto superare una stagione lunga, che ha visto momenti belli e momento meno belli: “Come dopo la sconfitta contro Memphis, sono sicuro che sapete di quale parlo [gli Warriors sprecarono un notevole vantaggio, ndr]. Mi ricordo che eravamo a Sacramento, sono andato a cena con Draymond [Green] e lui mi ha detto di essere semplicemente me stesso, di non preoccuparmi, che se fossi rimasto me stesso le cose sarebbero andate a posto”. Avere dei compagni che ti incoraggiano nei momenti in cui fai fatica — momenti che capitano a tutti — è fantastico, è qualcosa di cui tutti abbiamo bisogno nella nostra vita”. Un viaggio iniziato a novembre e terminato solo in gara-5 contro Cleveland, quando — “a 55 secondi dalla fine”, racconta Durant — finalmente si è reso conto di essere campione NBA: “Sono andato da Andre Iguodala e gli ho detto: ‘Sta succedendo veramente?’. Mi ha detto di continuare a giocare, ma come facevo? ‘Stiamo vincendo il titolo!’, gli ho detto!”. Un titolo che gli ha portato il primo anello della sua carriera ma anche il premio di MVP delle finali, che in linea col suo carattere Durant vuole condividere con tutti i suoi compagni: “Vogliamo parlare di Patrick McCaw stasera, un rookie capace di giocare minuti importanti in una gara di finale? Di Zaza capace di fare il suo in quintetto? Vogliamo parlare di Steph? Ha giocato come un cagnaccio [big dog, ndr], si è guadagnato 15 liberi, ha dato via 10 assist, ha segnato 34 punti”. Anche nei comprimari — da McCaw a Pachulia — Durant trova la vera forza di questa squadra, “perché ci avete chiamato un superteam fin dal primo giorno ma tanti superteam in passato non ce l’hanno fatta a vincere mentre noi sì. Siamo stati tutti capaci di sacrificarci per poter oggi essere campioni”. 

“Sapevo che prima o poi ce l’avrei fatta”

Il primo in un certo senso a sacrificarsi è stato lui, almeno a sentire le sue parole sull’atteggiamento con cui è voluto entrare in squadra: “La sfida per me era cercare di capire come poter aiutare questi giocatori a essere dei giocatori migliori. Essere il miglior compagno e il miglior giocatore possibile. Dimostrare ai critici che si sbagliavano è una soddisfazione che al massimo va bene per Twitter o Instagram ma quello che contava veramente per me era lavorare duro ogni giorno per cercare di essere il miglior compagno possibile per tutti questi incredibili ragazzi”. E qui Durant finalmente accetta di puntare i riflettori su se stesso, riconoscendosi i meriti che giustamente tutti gli tributano: “Io so che nessuno su un campo da basket lavora più duramente e più seriamente di me. Do tutto quello che ho dentro, provo sempre a fare le cose giuste, amo e rispetto il gioco, lavoro duro, credo in me stesso: sapevo che a un certo punto della mia vita ce l’avrei fatta”. Anche grazie a un gruppo di compagni straordinari, a partire da quello che fino a ieri era il padrone della squadra (due volte MVP NBA) e che oggi cede palcoscenico e onori al n°35: “Il mio rapporto con Steph [Curry] è cresciuto nel corso dell’anno e da lui ho imparato soprattutto a giocare con quella gioia che lo contraddistingue così tanto, perché Steph si diverte a giocare a pallacanestro, sprigiona un’energia incredibile da cui tutti noi ci siamo abbeverati”. Anche se poi, per chiudere, il nuovo MPV delle finali NBA confessa di essere abbeverato anche da altro: “Non bevevo una birra da febbraio e ne ho appena bevute due prima di venire qui in conferenza stampa: e ve lo devo dire, mi sento alla grande”.