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NBA Finals, la parata degli Warriors davanti a 1.5 milioni di tifosi

NBA

Mauro Bevaqua

Warriors_Parata

Un'intera città si tringe attorno ai propri campioni: sfilano tutti sotto il sole di Oakland con un messaggio ben chiaro in testa: "L'anno prossimo vogliamo essere ancora qui"

OAKLAND — L’inizio era fissato per le 10 del mattino, ma si poteva prendere posto già dalle 4 e all’alba sicuramente qualche tifoso l’ha fatto, per essere a ridosso dei propri campioni, il più vicino possibile — un’ultima volta — alla squadra che lunedì ha conquistato il titolo NBA, battendo in finale 4-1 i Cleveland Cavaliers. Oakland sa di perdere i propri Warriors — che si trasferiranno a San Francisco a partire dalla stagione 2019-20 — e forse anche per questo motivo si gode ancora di più i trionfi e le emozioni di questi ultimi anni "nella buona e nella cattiva sorte", il titolo del 2015, la dolorosissima sconfitta dello scorso giugno e il trionfo attuale per questo motivo ancora più dolce. La televisione locale — NBC Sports Bay Area — continua a ripetere ogni pochi minuti l’impressionante cifra di 1.5 milioni di persone (“Me ne aspettavo un po’ di più”, ha commentato scherzosamente coach Steve Kerr) e la marea di persone che si riunisce sulle sponde del Lake Merritt è in effetti impressionante. Sembrano siano venuti tutti, a celebrare i propri campioni, e lo stesso si può dire per tutta una serie di invitati eccellenti alla festa degli Warriors. C’è la leggenda del passato Tom Meschery (“Draymond Green prima di Draymond Green”, la maniera in cui viene introdotto al pubblico); c’è il protagonista del titolo del 1975 — il primo sulla Baia, l’ultimo prima dell’avvento di Steph Curry e soci — Rick Barry; c’è la sorella del grande Wilt Chamberlain, che con questa franchigia ha giocato quando ancora era di stanza sulla East Coast, a Philadelphia; c’è quello che viene definito “il padrino” di casa Warriors, Al Attles, leggenda in campo e poi in panchina. Ma non solo pallacanestro: Oakland partecipa al successo della squadra di Kerr anche con i grandi ex degli altri sport — dal campione dei Raiders Willie Brown alle leggende del baseball Barry Bonds e Ricky Henderson — o con i nomi che infiammano la scena hip-hop locale, da G-Eazy a Mistah F.A.B., da E-40 a Too $hort.

Sfilano tutti, dal rookie Patrick McCaw al veterano David West

Ma il milione e mezzo di persone accorse in massa alla parata vuole ovviamente vedere gli artefici del trionfo (“Bring ‘em out”, fateli uscire, il coro intonato più volte dopo l’attesa di ore sotto il sole cocente di una caldissima giornata californiana) e sentire le loro parole. Prima ai microfoni della tv locale e poi sul palco, quando finalmente i bus a due piani (accompagnati anche dai caratteristici tram cittadini) hanno terminato la loro sfilata per le vie di downtown Oakland e hanno raggiunto le sponde di Lake Merritt. Klay Thompson è il primo ad affrontare il concetto spesso citato di sacrificio — “Sarebbe un sacrificio questo?!? Poter sfilare davanti a un milione e mezzo di persone?”, si domanda sorpreso — prima che a tornare sull’argomento sia lo stesso Curry: “Parlare di sacrificio individuale non ha senso per me, perché qui non si tratta di me: si tratta di una squadra, si tratta di vincere”, dice il n°30 degli Warriors, che qualcuno voleva oscurato dalla presenza di Kevin Durant. Che Curry definisce “forse il miglior realizzatore della storia del gioco”, uno che “se hai la chance di poterlo portare in squadra non puoi assolutamente fartela scappare”. Chi lo ha portato in squadra è stato il GM Bob Myers, forse protagonista del discorso più lungo di tutti sul palco (“Più lungo anche di quello mio di due anni fa”, ha scherzato Draymond Green) e uno dei pochi a sottolineare la difficoltà e la durezza di un’impresa del genere: “Si è detto spesso di come con questo roster, con questi campioni così forti e altruisti, sia stato facile arrivare alla vittoria. Beh, non per me. Non c’è stato niente di facile, è stata dura, durissima, perché le aspettative erano altissime. Quando abbiamo vinto la mia prima sensazione, ancor più che di gioia, è stata di sollievo”. Un’opinione condivisa dal veteranissimo David West, che sapeva di non poter sbagliare: “Dall’inizio dell’anno per noi era o vittoria o fallimento: l’obiettivo era il titolo, fin dal primo giorno, e lo abbiamo raggiunto riuscendo a non saltare nessuna tappa intermedia, restando sempre concentrati e nel momento”.

Segreti e proclami

Una lezione che gli Warriors hanno appreso da professor Kerr, il loro allenatore e uno dei segreti del loro successo. Apparso più in forma che nelle ultime uscite alla guida della squadra, l’allenatore di Golden State ha iniziato ricordando la sua prima parata — nel 1996, come membro dei Chicago Bulls di Michael Jordan: “Al tempo mio figlio Nick aveva 3 anni, ora ne ha 24 e dopo aver giocato a Cal [University of California] fa parte del nostro gruppo dandoci una mano in palestra. Son passati più di 20 anni e sono qui per un’altra parata: significa che sono davvero fortunato”. Forse è così, o forse invece è stato capace di mettere a buon frutto gli insegnamenti ricevuti da maestri importanti: “Da Phil Jackson e Gregg Popovich ad esempio ho imparato a far giocare più giocatori possibili durante la stagione, perché così facendo so di poter contare su di loro in situazioni più delicate anche durante i playoff”, come successo quest’anno con il rookie Patrick McCaw. Uno che — confessa — fino all’anno scorso coi suoi attuali compagni di squadra ci giocava solo ai videogame, mentre oggi ci divide il parquet. Non sempre è facile (“C’è voluto lavoro e concentrazione per tutto l’anno — dice Kevin Durant — ma alla fine ne valeva la pena”) e non sempre tutto fila dritto (“Certo che ci diciamo le cose a muso duro, in faccia, ma così dev’essere — sostiene Draymond Green, come al solito il più pepato nei commenti — perché un gruppo vincente deve anche saper gestire questo tipo di dinamiche. Questa squadra è speciale proprio perché le nostre superstar non hanno problemi a sentirsi chiamati in causa”. Poi è speciale anche per il talento accumulato e nessuno lo sa meglio dei due proprietari — Joe Lacob e Peter Guber — che il roster lo hanno assemblato. Con un’idea chiara in testa: vincere e continuare a vincere: “Stesso posto, stessa data: ci vediamo ancora qui l’anno prossimo”, il proclama di Guber, avallato anche da Klay Thompson — “Possiamo vincere ancora. Quanti titoli? Fatemi aspettare 15 giorni [Draft e free agency, ndr] prima di rispondere…” — e Steph Curry: “Voglio restare qui e voglio continuare a vincere”, dice il due volte MVP. Lo vuole anche tutta la gente di Oakland, che all’abitudine della parata a metà giugno ormai non vuole più rinunciare.