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NBA, i Minnesota Timberwolves non si vogliono più fermare

NBA

Michele Serra

Andrew Wiggins, Jimmy Butler e Karl-Anthony Towns, le tre stelle dei T'Wolves (foto Getty)
twolves

Dopo un inizio poco convincente, la squadra di Tom Thibodeau ha cambiato passo e ora può vincere anche senza Jimmy Butler. La scalata fino al terzo posto nella Western Conference rende sempre più vicin il ritorno ai playoff dopo 14 anni di assenza

Si dice che il tempo vola, ma quattordici anni sono tanti. E se passati non solo a guardare gli altri vincere, ma anche a veder sbagliare praticamente qualsiasi tipo di scelta in grado di rimettere in carreggiata la propria squadra, allora diventano un’eternità. È praticamente quello che è successo a Minnesota che solo ora, dopo anni di tentativi andati male, i Timberwolves stanno cercando di risollevarsi nella iper-competitiva Western Conference, ponendo le basi per un futuro più roseo. Come un decennio fa, anche oggi è grazie ad un uomo su tutti che i T’Wolves sono ritornati sulla mappa.

Cultura vincente                                                 

 “Do it for the culture,
they gon’ bite like vultures”
(Migos – T-Shirt)

Si parla tanto di inculcare nelle giovani (e perdenti) squadra la cosiddetta “mentalità” o “cultura” vincente. Per Minnesota l’acquisizione di ciò, che comunque ha le sembianze di un lungo e travagliato processo, ha un nome e un cognome, vale a dire Jimmy Butler. Nell’ultimo episodio del The Lowe Post, il podcast condotto da Zach Lowe per ESPN, a fargli compagnia c’era Jim Petersen, color commentator dei Timberwolves, il quale ha toccato molti punti riguardanti la sua squadra, tra cui l’impatto – a livelli di MVP – dell’ex di Chicago. Petersen è stato molto chiaro: “Negli ultimi anni, Minnesota ha portato in squadra vari giocatori in grado di garantire leadership all’interno della squadra: Andre Miller, Tayshaun Prince, l’ultimo Kevin Garnett. L’impatto di questi però non si traduceva mai in un concreto apporto a livello di campo; con Jimmy, finalmente è arrivato un giocatore in grado di fare entrambe le cose”.

Ciò ad esempio si è tradotto in un miglioramento esponenziale del rendimento di squadra nelle cosiddette situazioni clutch, quando cioè mancano cinque o meno minuti alla fine della gara e la differenza di punteggio tra le due squadre non supera i 5 punti. Lo scorso anno, la squadra di Tom Thibodeau ha giocato 45 partite di questo tipo, perdendone 30 (terzo peggior record in NBA nel clutch): quest’anno sono invece settimi (record parziale di 15-11).  Come riportato da NBA Miner, Jimmy “Buckets" è il terzo giocatore nella Lega per punti segnati in questa situazione (97) e, sebbene la sua percentuale effettiva non sia eccezionale (44%), è il giocatore che più si è conquistato tiri liberi (43) nella top 20 dei giocatori clutch, convertiti con l’86%.

Guai però a pensare che il prodotto di Marquette sia un animale da isolamenti. Questa situazione viene esplorata solo nel 12% dei casi in cui ha palla in mano, e i suoi 0.94 punti per possesso lo pongono solo a metà nella graduatoria dei giocatori con almeno il 10% di frequenza di questa azione. Butler è un giocatore ormai al picco della sua evoluzione e sa condurre l’attacco con la palla in mano, magari sfruttando il blocco di un compagno (gioca da ball handler in questa situazione nel 29% dei casi): da lì può mettersi in proprio (0.87 punti per possesso) o coinvolgere i compagni grazie a una abilità negli assist sicuramente sottovalutata.

Qui sfrutta il doppio pick and roll con Taj Gibson e Karl-Anthony Towns: Butler riconosce il cambio e mette Towns nelle condizioni di avere la meglio contro Carmelo Anthony spalle a canestro.

Qui invece prende il blocco di Towns, si butta in area attirando su di sé anche l’uomo di KAT, che viene servito sullo scarico per un appoggio facile.

La crescita esponenziale di Butler in attacco non ha fatto perdere smalto anche alla sua difesa, metà campo nella quale rimane un fattore, prendendo regolarmente in consegna l’attaccante avversario più pericoloso, ma non necessariamente il pari ruolo. Contro Portland e OKC, per esempio, ha passato molto tempo sulle tracce di Damian Lillard e Russll Westbrook; contro Brooklyn, in una delle varie sconfitte patite da Minnesota contro le squadre dell’Est (in questa stagione 11 delle 18 sconfitte sono arrivate ad opera di squadre dell’altra Conference), Butler si è dato la possibilità di vincere la partita per i suoi grazie al proprio lavoro difensivo. Nell’ultimo minuto e mezzo ha prima strappato un rimbalzo contestato a seguito del quale ha fatto partire il contropiede concluso da Andrew Wiggins per il -2; successivamente ha stoppato Hollis-Jefferson, mettendo in moto un’altra transizione dei suoi e un altro canestro. Solo due straordinarie azioni personali di Spencer Dinwiddie (altro insospettabile top-20 stagionale nel clutch) hanno dato la vittoria ai padroni di casa in un finale in volata.

Petersen lo ha descritto come un ragazzo dotato di senso dell’umorismo – che comunque in uno spogliatoio non fa male avere –, schietto e soprattutto sempre informato sul piano partita da eseguire. Forse sono proprio queste due caratteristiche ad aver aiutato il progresso di Andrew Wiggins e Karl-Anthony Towns, visibilmente cresciuti negli ultimi tempi di pari passo con la squadra.

Complementi perfetti

Sempre secondo le parole di Petersen, non è necessario che un giocatore sia “vocale”, cioè si faccia sentire nello spogliatoio. Servono anche i giocatori tranquilli, che difficilmente alzano la voce e che quindi, gioco forza, difficilmente possono diventare dei leader. Wiggins e Towns rappresentano questi tipi di giocatore, ed ecco perché l’arrivo di Butler ha tolto loro pressione dalle spalle e li ha “costretti” a migliorare il loro gioco: finalmente, i frutti si stanno vedendo, come testimoniano anche le ultime vittorie arrivate senza poter contare su Butler.

Wiggins è salito agli onori della cronaca stanotte segnando il suo massimo stagionale con 40 punti contro gli L.A. Clippers, ma è ancora lontano dall’essere un giocatore efficiente: tira con il 48.4% di percentuale effettiva (miglior dato della carriera, ma ancora lontano dalla media NBA), benché il numero di possessi che passa dalle sue mani sia sceso considerevolmente (da quasi 29 lo scorso anno al 23 esatto attuale). Offensivamente sembra uscito dagli anni ’90, avendo modellato il gioco principalmente attorno ai tiri dalla media distanza (244 finora, convertiti con il 35%), in una squadra altrettanto devota al tiro che le analytics sconsiglierebbero di prendere (quarta per media tiri dal mid-range tentati, oltre 21 a partita, ma 29^ per triple e 24^ per tiri nell’ultimo metro di campo). Ciò nonostante i risultati sono eccellenti, visto che i T’Wolves hanno il terzo miglior attacco della lega dietro quelli di Golden State e Houston, e lo stesso Wiggins sta anche sviluppando un tiro che potrebbe diventare una sorta di marchio di fabbrica, questo:

Wiggo" parte dal lato sinistro aspettando il blocco di un piccolo (qui Tyus Jones) per finire sul lato opposto sperando che nel mentre la difesa cambi e su di lui finisca il marcatore della guardia, sul quale sa di avere un vantaggio fisico. Da qui conclude con un gancetto, come qui, se vicino a canestro, o in avvitamento se più lontano; oppure a inizio azione offensiva si posiziona direttamente lui a destra all’altezza delle tacche.

Wiggins tira abbastanza da tre – oltre 4 tentativi a sera, primo di squadra – ma ne converte pochi, poco più del 32%. A testimonianza di ciò il fatto che il 16% dei suoi tiri da tre sono definiti wide open da NBA.com ma, nonostante questo, vengono segnati ancora più raramente (neanche il 31%).

Un peccato sprecare occasioni come questa: sul pick and roll laterale, Crawford viene ingabbiato da Steven Adams; l’ex Clippers scarica per Towns su cui ruota George, l’uomo di Butler che, nel frattempo, taglia in area per tenere occupata la difesa. Il movimento funziona perché Anthony, che marcava Wiggins, lo segue lasciando il canadese libero sull’arco: il suo tiro, completamente smarcato, però esce.

Dove però l’ex prima scelta di Cleveland sta mostrando i primi segni di miglioramento sono la presenza a rimbalzo (è finalmente salito sopra il 10% di rimbalzi catturati nella propria metà campo) e la difesa. Non solo la sua difesa sull’uomo – è abbastanza esplosivo anche lateralmente per rimanere davanti al suo marcatore – quanto nella awareness, cioè la consapevolezza, il fatto di sapere dove dover essere in un determinato momento.

Qui sul pick and roll cambia marcatore rimanendogli attaccato e forzando una palla persa con una deviazione, ed è poi lui a sprintare in contropiede per il sottomano. Sono questi due ingredienti fondamentali del successo di Minnesota, visto che i T’Wolves sono in cima a varie categorie di hustle plays a partita: terzi per deviazioni (15.3), primi per palle vaganti recuperate (9) e quinti per sfondamenti presi (0.81). Sono inoltre quinti per punti in transizione a partita (1.11).

La difesa di Minnesota è attualmente 22^ per defensive rating (106.9 punti subiti su 100 possessi): sebbene non rappresenti un dato esaltante — a maggior ragione se pensiamo a chi è l’allenatore — a cavallo tra dicembre e gennaio, quando la squadra ha dato una accelerata alla stagione vincendo 12 partite su 15, questo dato era salito al 103.9, quinto miglior dato della Lega. Il lavoro comincia a dare i suoi frutti.

La migrazione di Towns

Altro giocatore su cui si è dibattuto molto durante quest’anno è Karl-Anthony Towns. Se sulla cui difesa si è già avuto modo di parlare già a inizio stagione (periodo dopo il quale, complici le critiche piovute più o meno da ogni dove, ha effettivamente iniziato a impegnarsi di più), è interessante far notare quanto stia cambiando il proprio modo di giocare, essendo nel bel mezzo di quella trasformazione che ha coinvolto a suo tempo anche un altro ex T’Wolves, ovvero Kevin Love.

Le rivedibili spaziature offensive della squadra — rese tali dalla presenza di due giocatore come Wiggins e Butler che banchettano dal mid-range e di un lungo molto interno come Gibson — hanno progressivamente costretto Towns a migrare oltre l’arco. Buon per Minnesota (e per lui) che il tiro da tre punti entri con buona frequenza: al momento è primo di squadra per precisione, convertendole con oltre il 41%, e secondo per tentativi a partita, quasi 4.

Comunque, essendo le coppie di lunghi in campo contemporaneamente ormai sempre più rare, KAT non disdegna prendere a spallate il “4” avversario facendosi strada verso il canestro. Alcune squadre infatti preferiscono mettergli contro un giocatore più basso ma più rapido e capace di uscire dall’area e rimanere con lui se mette palla a terra. Altre, invece, spaventate dal suo gioco spalle a canestro (a buon diritto: il lungo ex Kentucky tira con il 71% abbondante nella restricted area) preferiscono avere un marcatore grosso quanto lui. Non nuoce anche che Towns sia l’attuale leader NBA per doppie doppie: 41 finora, con un vantaggio di cinque lunghezze sul secondo, DeMarcus Cousins.

L’intasamento degli spazi in attacco è mitigato però, oltre che dall’efficace tiro da tre del numero 32, anche dalle sue ottime doti di passatore: qui in contropiede controlla in corsa il pallone recapitatogli da Teague e lo regala a Gibson per una comoda schiacciata. 

Qui invece emerge la sua vena creativa, con cui premia il taglio di Butler con un passaggio dietro la testa à la Jokic.

Come detto per Wiggins, anche Towns è un giocatore che, talento a parte, non sembra ancora a proprio agio nel ruolo di guida spirituale di una squadra. Ecco perché, oltre alla crescita personale dei giocatori e alla migliore comprensione, col tempo, delle richieste di Thibodeau, l’arrivo di Butler ha portato benefici un po’ a tutti, facendo scalare di un posto le gerarchie di squadra e mettendo tutti nei ruoli più congeniali per il proprio carattere e gli anni di esperienza nella lega.

Rotazioni da playoff

Senza dubbio, la critica più feroce mossa a Thibs quest’anno – e non solo – è quella di spremere i giocatori facendo tenere loro minutaggi altissimi, utilizzando la panchina al minimo indispensabile: praticamente quello che succede ai playoff, quando ci si gioca la posta in palio con gli uomini di cui ci si fida di più. Sono infatti cinque i giocatori di Minnesota scesi in campo in tutte le partite finora disputate, mentre le altre squadre si fermano al massimo a quattro.

Buon per il fiato dei titolari aver trovato in Tyus Jones un giocatore affidabile come cambio di Jeff Teague (di cui ha anche preso il posto per svariate gare a seguito del suo infortunio). Jones, che conosce la pressione avendo vinto da protagonista un titolo a Duke nel suo unico anno di college, è cresciuto molto dall’anno da rookie a quello di sophomore: non ha ancora un tiro da 3 affidabile (35% di conversione su 1.5 tiri tentati a partita), ma ha mostrato notevole aggressività nell’andare al ferro (47 tiri tentati, convertiti con il 70%). Peccato che sia piuttosto piccolo fisicamente e non abbia grande atletismo, soprattutto nello spostarsi lateralmente, cosa che lo penalizza molto in difesa: nasconderlo durante una partita di playoff potrebbe essere complicato (e lo stesso problema si riproporrà con Teague), ma se non altro ha mani molto attive e sa farsi trovare sulle linee di passaggio per deviarli e trasformare l’azione da difensiva in offensiva. Laddove non arriva con il corpo, insomma, prova ad arrivare con la voglia e la testa.

Jamal Crawford, alla sua stagione numero 18 in NBA, è sempre il solito, in grado di dare instant offense alla sua maniera, principalmente con tiri dal palleggio dalla media (il tiro che secondo NBA.com predilige: sono 155 i tentativi finora, convertiti con il 42%. Classic Jamal). Anche Gorgui Dieng e Nemanja Bjelica, che completano la rotazione, sono liabilities difensive e per questo si guadagnano pochi minuti da Thibs: Dieng è leggerissimo per giocare da unico lungo (qui si fa spostare da Zach Collins, non propriamente un energumeno, che poi, aiutato anche dal salto a vuoto di Towns, deposita il pallone in fondo alla retina); Bjelica, come vale per altri a roster, non ha la velocità di piedi per marcare gli esterni avversari, e anche a livello di posizionamento difensivo lascia molto a desiderare.

In realtà probabilmente a Minnesota queste considerazioni sul “dopo” interessano il giusto. Arrivare ai playoff è già un obiettivo enorme, considerando il passato (non solo) recente della squadra, e poi si vedrà. Ormai il vento pare essere definitivamente cambiato, e la cultura, finalmente, anche. Sembra poco, ma per come si erano messe le cose a inizio anno — al netto di un record che è sempre rimasto positivo e che ora li ha portati al terzo posto solitario a Ovest — è tutt’altro che un risultato scontato, e c’è ragionevolmente del potenziale inesplorato per poter sperare in qualcosa di ancora migliore.