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NBA, Denver Nuggets e L.A. Clippers: quale futuro per le eliminate dai playoff?

NBA

Nicolò Ciuppani

Mentre le sedici squadre qualificate si preparano per i playoff, le ultime due eliminate fanno i conti con una stagione di alti e bassi. Che cosa hanno sbagliato le squadre di Michael Malone e Doc Rivers? E rimarranno ancora loro in panchina il prossimo anno?

L’ultima giornata di regular season, oltre ad aver determinato quello che sarà il primo turno dei prossimi playoff, ci ha dato anche il nome delle ultime eliminate dalla post-season. Come direbbe il presidente dell’Alma Mater Tankorum Sam Hinkie: non esiste in NBA cosa peggiore di non vincere o perdere abbastanza, ritrovandosi in un limbo dal quale non è semplice uscire. Mentre a Minneapolis e a New Orleans i sospiri di sollievo sono ormai il rumore più assordante, per gli L.A. Clippers e i Denver Nuggets l’eliminazione dalla post-season è arrivata proprio sul finale della stagione, e a causa di questa eliminazione cocente i loro destini rischiano di venir cambiati - perché anche nella NBA i risultati contano, eccome.

I margini di crescita dei Denver Nuggets

Per i tifosi dei Nuggets la partita di mercoledì notte deve essere stata una delle esperienze sportive più dolorose della vita. Perdere i playoff di poco fa male, ma perderli l’ultima giornata contro l’avversario diretto dopo un tempo supplementare deve essere veramente agonizzante.

Per Denver siamo quindi alla seconda stagione consecutiva in cui la squadra è al livello delle altre che hanno raggiunto la post-season, ma che per vari motivi non ci sono riusciti. Non ci sarebbe da preoccuparsi troppo: il nucleo dei Nuggets è ancora estremamente giovane, era la prima stagione di Jamal Murray da point guard titolare - ed è stata semplicemente ottima - e ci sono ancora dei margini di crescita molto ampi. L’anno scorso i Nuggets avevano il 30° Defensive Rating della lega, ultimissimi, peggio di tutte le squadre che stavano deliberatamente cercando di perdere delle partite. Erano richiesti in tutti i modi dei miglioramenti da quel punto di vista, e la firma di Paul Millsap in estate andava palesemente in quella direzione. Purtroppo i miglioramenti, per quanto ci siano stati, sono stati molto marginali: i Nuggets hanno la 26^ difesa della lega e concedono ancora 109 punti per 100 possessi, un’enormità. Per come è assemblato il roster sarà difficile pensare che in futuro possano avere una difesa asfissiante, ma il loro livello in attacco è già talmente alto con giocatori così giovani che sembra quasi obbligatorio provare a sviluppare uniformemente tutta la squadra per renderli una difesa quantomeno mediocre, e la mediocrità sarebbe al momento un miglioramento pazzesco. L’esempio dei Blazers, passati da difesa mediocre a top-10 da un anno all’altro mantenendo lo stesso nucleo, è lì da vedere.

Il grosso problema dei Nuggets, quello che ha determinato la loro eliminazione, è che non riescono davvero a creare una striscia di possessi difensivi senza concedere canestri facili: basta spostare Nikola Jokic da sotto il canestro e non esiste nessuno in grado di provare a porre una pezza alle sue mancanze. Jokic è troppo lento di piedi per stare davanti alle guardie, le quali devono solo accucciarsi leggermente per passargli accanto, senza temere stoppate in chasedown in quanto le braccia del Joker sono troppo corte per mettere in pensiero chiunque. Ma Denver deve essere meglio di così: a parte Millsap, che non ha giocato per gran parte della stagione per problemi fisici, Wilson Chandler era un buon difensore, Gary Harris la stessa cosa, perfino Murray non ha degli istinti terribili, ma sembra che non ci sia la benché minima intenzione da parte di chiunque di provare a forzare l’avversario a stare lontano dal canestro perché c’è troppa voglia di andare in attacco a fare le cose “da Nuggets”. Tanto brutti sono in difesa, quanto belli sono in attacco: la fase offensiva di Denver è un simposio di tagli, passaggi no look e tiratori che sbucano dal nulla, uno di quei piaceri giornalieri da League Pass. Per uno spettatore neutrale, non averli ai playoff è un duro colpo.

Se la mancata qualificazione alla post-season comporta la perdita di una potenziale dose di esperienza unica - perché i playoff sono davvero tutt’altro sport rispetto alle partite velocemente preparate della regular season -, la stagione 2017-18 non è da buttare, se non altro per le numerose lezioni apprese. La più scontata e importante: Nikola Jokic è saldamente sul trono del giocatore franchigia. Se l’anno scorso ci sono volute 20 partite per capire che fosse la pietra angolare della squadra, quest’anno è stato palese dal primo all’ultimo minuto, finendo la stagione come leader di squadra per punti segnati, assist e rimbalzi. A differenza degli altri unicorni che infestano la lega, Jokic non ha lo strapotere atletico degli altri e non è in grado di mettere su numeri impressionanti (sebbene sia ormai sospettosamente affezionato alle triple doppie), ma la sua capacità di capire il gioco e agire di conseguenza, anticipando tempi e spazi è una cosa non valutabile, in quanto non esistono precedenti simili o termini di paragone.

Gli ultimi, purtroppo per lui inutili, 35 punti e 10 rimbalzi di Nikola Jokic contro Minnesota.

Continuando su questa falsariga, Gary Harris e Jamal Murray si sono confermati come le guardie del futuro, e non ci sono motivi per cui dovrebbero destare ulteriori dubbi: sono entrambe enormemente versatili sia palla in mano che lontano da essa, si trovano a meraviglia con Jokic e riescono a rendere sempre pericolosi i ribaltamenti di fronte fiondandosi istantaneamente verso il canestro avversario.

Le note davvero positive, però, si fermano qui. Millsap non è solo il giocatore più pagato della squadra: è il terzo giocatore più pagato dell’intera lega. I suoi problemi fisici, uniti all’età che avanza, rappresentano un campanello di allarme, ma anche nelle poche partite giocate non ha minimamente dimostrato di poter valere anche una frazione dello stipendio che i Nuggets verseranno nelle sue tasche. L’intesa con Jokic non è mai realmente sbocciata e la fase difensiva, che implicitamente gli era stata affidata quasi nella totalità, è scomparsa nell’istante in cui ha deciso di adattarsi alle attitudini dei compagni invece di correggerli.

Il roster è ancora zeppo di personale in esubero: oltre a Millsap, su cui non si può far altro che sperare che si sia trattato solo di una stagione estemporanea, giocatori come Wilson Chandler, Kenneth Faried, Mason Plumlee e roba simile sono in controtendenza col resto del roster, essendo mediamente pagati più degli altri, risultando al contempo più vecchi del resto del roster e molto meno utili. I Nuggets hanno ancora tutte le loro scelte, compresa quella in lottery di quest’anno. Il cap non è congestionato, anche se dal prossimo anno inizieranno a pesare i rinnovi dei giovani, a partire con quello di Gary Harris per finire con quello di Jokic, mentre gli esuberi arriveranno sempre più vicini alla scadenza.

La squadra di quest’anno sarà probabilmente la stessa o quasi che si ripresenterà ai nastri di partenza della prossima stagione, con l’unica vera incertezza legata al nome dell’allenatore. Michael Malone resta un ottimo coach per una franchigia NBA, ma è ormai il secondo anno consecutivo in cui i Nuggets perdono il treno della post-season per delle ingenuità colossali del loro allenatore. Non è semplice dare un giudizio definitivo su un allenatore che ha così tanti pregi, su tutti quello di essere un fenomenale insegnante per i suoi giocatori, ma che al contempo sembra a volte incapace di risolvere problemi che per altri allenatori sembrano elementari, tipo perdere una partita saldamente in vantaggio perché Boban Marjanovic sembra dominante per l’unica gara intera della sua carriera NBA.

La dirigenza dei Nuggets sarebbe piena di motivi per confermare il proprio staff tecnico e dargli fiducia per il proseguimento del progetto, ma le ultime eliminazioni sono state così “stupide” e così dolorose che una reazione di pancia potrebbe essere giustificabile, anche solo per dare un messaggio chiaro a tutto il roster: non ci sono interruzioni in regular season, qualunque partita delle 82 rischia di costare molto di più di quanto si possa pensare.

Il futuro incerto degli L.A. Clippers

Di tutte le squadre ad aver mancato di poco la post-season, forse i Clippers sono quelli che si erano rassegnati da più tempo, avendo loro stessi iniziato un cammino di ricostruzione con la cessione di Chris Paul a Houston e proseguendo con quella di Blake Griffin a Detroit. Il loro cammino è stato costellato da infortuni dall’inizio alla fine, con il pazzesco dato che hanno avuto tutti i titolari a disposizione in solo due delle 82 partite di regular season. Come ha confermato Doc Rivers qualche giorno fa, anche alcuni di quelli rimasti sani nell’ultimo periodo stavano in realtà giocando su infortuni minori, come DeAndre Jordan o Lou Williams, tanto da portarli a chiedere a Danilo Gallinari di giocare sul dolore. Questa valanga di infortuni ha sicuramente un fattore di sfortuna, ma i Clippers non sono stati propriamente audaci al momento della composizione del roster, prendendo o confermando giocatori perennemente alle prese con problemi fisici.

Il pesantissimo giro di assenze comunque ha portato anche delle buone notizie con sé, costringendo per la prima volta Doc Rivers a variare le rotazioni e a dare minuti considerevoli ai giovani. Se il futuro dei Clippers pare meno tenebroso di dodici mesi fa è proprio dovuto al fatto che, dei molti giovani presenti a roster, praticamente nessuno è sembrato completamente inutile o perso nel nulla, con il più che positivo Sindarius Thornwell a fare da capofila. Thornwell porta alle spalle una lunga esperienza universitaria in cui poteva giocare da franchise player con molto volume di tiro e poca efficienza, ma si è reinventato rapidamente come giocatore di contorno con una scorta considerevole di assi nascosti dentro alle maniche da tirar fuori per punire le difese avversarie che lo sottovalutano.

Anche nell’ora più buia, quella della matematica eliminazione dai playoff, lampi come questo sono riusciti a schiarare la notte losangelina.

Sebbene questa epifania di Doc Rivers sia arrivata più per mancanza di alternative che per meriti propri, sarebbe difficile motivare a questo punto un cambio di allenatore, considerato comunque che Doc ha ancora saldamente in pugno lo spogliatoio e che ha già accettato di fare un passo indietro dal doppio ruolo che costringeva il suo gemello cattivo “Roc Divers” a operare nel modo più convoluto e autolesionista possibile. Continuando a variare le rotazioni e dimostrandosi, per l’ennesima volta in carriera un ottimo insegnante per i giovani, Doc Rivers può sedere ancora al timone dei Clippers per la prossima stagione - se mai lo vorrà, visto che le panchine vuote sul mercato non mancheranno.

Qualunque cosa decida di fare, i Clippers si trovano comunque davanti al più grande crocevia della prossima estate: il rinnovo di DeAndre Jordan. Il centro non ha minimamente subito la lontananza da Chris Paul, confermandosi un difensore eccellente e un finalizzatore di livello assoluto al ferro, ma questa estate è libero di accasarsi dove preferisce e la carta di identità comincia a far pesare gli anni, rendendo quindi molto probabile lo scenario in cui vada alla ricerca dell’ultimo grande contratto della carriera. I Clippers hanno ovviamente tutti gli interessi del caso a rifirmarlo e il prossimo mercato congestionato potrebbe perfino favorire le loro possibilità di rinnovare il loro miglior giocatore senza dover per forza elargire un quinquennale completamente garantito, cosa che affosserebbe il futuro della franchigia legando completamente la loro situazione salariale per gli anni a venire. Un rinnovo a cifre contenute, o più probabile ancora per meno anni, sarebbe la situazione ideale per i Clippers che potrebbero contare ancora su DeAndre per blindare la difesa della prossima stagione provando nuovamente a cercare un posto in post-season, il tutto mentre il loro nucleo giovane si sviluppa.

Non sarà affatto semplice. Denver e Minnesota, che si sono appena contese il biglietto per i playoff all’ultimo respiro, sono molto meglio attrezzate nel breve periodo per migliorare i propri risultati mentre i Clippers, dopo aver usato il trucco del “non ho mai amato nessuno come te” con Blake Griffin, si sono bruciati questa carta. Se vogliono riprovarci, devono come minimo allegare una no trade clause al contratto di DeAndre Jordan (chiedete ai Knicks come ha funzionato per il rinnovo di Carmelo Anthony). Il lungo potrebbe comunque preferire una destinazione tecnicamente più appetibile, e non dovrebbe essercene una grande carenza considerato che i Clippers sono comunque in una sorta di limbo senza troppe possibilità di riuscire ad andare molto più su o molto più giù di dove si trovano al momento - e ricordiamoci sempre che basta una sola offerta fuori dal mercato per cambiare completamente la situazione.

Sul rinnovo di DeAndre pende quindi l’aspettativa di risultato per la prossima stagione: se con lui un altro assalto alle migliori otto dell’Ovest non è da escludere, senza Jordan le speranze dei playoff sarebbero completamente irrealistiche.

Per quanto riguarda lo sviluppo a lungo termine i Clippers sono in una situazione senza infamia e senza lode, hanno a disposizione due scelte in questa Lottery: la loro, che ha circa il 2% di probabilità di finire in top-3, e quella dei Pistons, che ha circa le stesse percentuali ma che nel caso ricadrebbe nella protezione e tornerebbe a Detroit. A meno quindi di colpi di scena dati dalla lotteria, a Los Angeles possono contare su due scelte alla 12 e alla 13, ma una loro prima scelta futura deve essere ancora riscossa dai Boston Celtics per lo scambio che ha portato Doc Rivers sulla panchina di Los Angeles (e Brad Stevens di conseguenza su quella dei Celtics *la risata malvagia che sentite in sottofondo è quella di Danny Ainge mentre sta lucidando la sua collezione di prime scelte*).

I Clippers quindi non hanno una scelta altissima, ma due buone scelte con le quali devono categoricamente continuare a scegliere bene per arricchire il roster. Le possibilità di migliorarsi nel breve o nel lungo periodo passano giocoforza dal Draft: la situazione salariale è stata compromessa con la firma di Gallinari, che chiama ancora 44 milioni garantiti nei prossimi due anni, quindi ricominciare da capo con il cap vuoto è fuori discussione. Se volessero cederlo occorrerebbe pagare salato, e l’eventuale partenza di DeAndre lascerebbe un solo giocatore appetibile per una trade in cambio di asset futuribili, ovverosia Lou Williams, rifirmato a febbraio a prezzo di saldo ma senza vere garanzie che possa ripetere la straordinaria stagione che ha vissuto quest’anno. Se DeAndre dovesse quindi tornare a vestire la casacca dei Clippers, la squadra dovrebbe continuare a scegliere bene a metà Draft, cosa che comunque può portare degli ottimi giocatori (chiedere a Paul George, Kawhi Leonard, Devin Booker o Donovan Mitchell). In caso invece Deandre cambi casacca, il processo di ricostruzione dovrebbe subire una brusca accelerata, con Lou Williams probabile pezzo pregiato in vendita e con le scelte a disposizione in futuro sicuramente più alte. La mancanza dei playoff quindi non danneggia irreparabilmente i Clippers, ma non ci sono nemmeno garanzie che potremmo ritrovarli ai playoff nel breve o lungo periodo. A Jerry West il compito di capire come riuscirci.