Please select your default edition
Your default site has been set

NBA, il fallimento playoff dei Raptors: è il momento di ripartire da zero?

NBA

Stefano Salerno

I canadesi hanno perso per il terzo anno consecutivo ai playoff contro i Cavaliers, incapaci di impensierire LeBron James e battuti per dieci partite in fila in post-season da Cleveland. Toronto adesso ha davanti a sé un’estate in cui prendere delle decisioni importanti: cosa fare di questo gruppo di giocatori? E di coach Dwane Casey?

Ercole, eroe della mitologia greca entrato nell’immaginario collettivo per le 12 fatiche che fu costretto a superare per conquistarsi l’accesso nell’Olimpo, nella più complessa delle sue imprese si ritrovò al cospetto di Cerbero; mostro a tre teste e ultimo ostacolo da superare per raggiungere l’immortalità. In molti hanno spesso accostato la figura di LeBron James a quella dell’eroe greco, paragonando le sue cavalcate playoff condotte in solitaria o quasi (non ce ne vogliano i suoi compagni di squadra) a una lunga serie di prove per conquistare l’immortalità cestistica. Se chiedete ai tifosi dei Raptors però, il n°23 dei Cavaliers assume invece le sembianze di Cerbero. L’ostacolo che impedisce a Toronto di spiccare il volo, l’avversario che scrive la parola fine in calce alla loro stagione da tre anni a questa parte. Per questo, dopo la cocente eliminazione per 4-0 in semifinale di conference, a Toronto tornano a farsi le stesse identiche domande di 12 mesi fa: ha senso proseguire lungo questa strada? Conviene continuare a puntare su questo gruppo di giocatori (e di All-Star, in particolare), sapendo che prima o poi arriva James a spazzare via tutto e tutti dal campo? Domande che chiamano in causa un concetto importante e spesso dato per scontato: quello di vittoria all’interno di una lega chiusa come la NBA, che non prevede retrocessioni, né premi di consolazione. Ogni anno scendono sul parquet 30 squadre, una vince e le altre 29 – almeno guardando i risultati – avranno sempre qualcosa su cui recriminare. Non ci sono penalizzazioni, ma mille modi per puntare a risalire la china. Il problema però è che per una Golden State che vince 70 partite, deve gioco forza essercene almeno una che quelle gare le perda per far tornare i conti. Per questo, attestarsi ormai da anni con continuità nella medio-alta borghesia della lega può essere già di per sé un risultato convincente. L’Air Canada Center è un catino che ribolle di passione, sempre tutto esaurito e che con il suo merchandising coinvolge una nazione intera, garantendo decine di milioni di utili all’organizzazione. Toronto ha chiuso la stagione con 59 vittorie in regular season, ritoccando a rialzo per l’ennesima volta negli ultimi anni il record di franchigia. Insomma, è necessario tenere conto di tutto questo prima di porsi la fatidica domanda: è arrivato il momento di cambiare?

Prima opzione: chi si accontenta gode, punto.

I Raptors si sono sciolti come neve al sole al cospetto dei vice-campioni NBA, arrivati acciaccati e senza un’organizzazione di squadra che potesse definirsi tale alle semifinali di conference. In gara-1 le gambe dei canadesi hanno iniziato a tremare quando il traguardo era ormai a un passo, chiudendo quarto periodo e overtime tirando 3/18 dal campo. Nonostante questo però, quella partita i Raptors l’hanno persa con un solo punto di scarto, così come quella sfuggita di mano alla Quicken Loans Arena soltanto perché la rimonta da -17 è stata resa vana da uno dei più incredibili buzzer beater della storia recente. Tre punti totali pagati con due sconfitte, che a parti invertite avrebbero portato la serie sul 2-2 e cambiato la percezione di tutti del lavoro svolto dai canadesi. Queste, unito all’ennesima stagione in crescendo condotta dai Raptors, sembrano essere le ragioni da perseguire qualora si scelga di continuare lungo questo percorso. In fondo anche 12 mesi fa in molti pensavano che il gruppo avesse già performato al massimo delle sue potenzialità, scoprendo poi di essere in grado di cambiare sistema di gioco, puntare con molta più convinzione sul tiro dall’arco e sulla circolazione del pallone, rendendo più moderna l'esecuzione di una squadra che funzionava già prima. Toronto ha vinto otto partite in più rispetto all’anno precedente, prendendosi così a suon di triple la vetta della Eastern Conference. L’innesto grazie alla 23esima scelta al Draft di OG Anunoby in quintetto, unito a una panchina che a lungo ha dimostrato di essere l’arma in più per Toronto, lasciano intravedere ancora margini di miglioramento. Questa non è una squadra che può vincere il titolo NBA e difficilmente potrà esserlo nell’immediato futuro, ma forse sarebbe eccessivo pensare di buttare giù tutto e ricominciare da zero. Davvero bisogna pagare un prezzo così alto, soltanto perché al mondo di LeBron James ce n’è uno solo e non gioca nella tua squadra?

Seconda opzione: agire sul mercato. Sì, ma come?

Qualora il GM Masai Ujiri però, non nuovo a peripezie di ogni tipo sul mercato, decidesse invece di rivoltare come un calzino la franchigia, avrebbe un bel po’ di grattacapi a cui dover porre rimedio. La situazione salariale dei canadesi – dopo i rinnovi della scorsa stagione di Ibaka e Lowry – è blindata, con il quartetto più pagato dei Raptors che tra 12 mesi passerà all’incasso per oltre 100 milioni di dollari. Questo, unito alla mancanza di scelte al prossimo Draft (date ai Brooklyn Nets per convincerli a sobbarcarsi il contrattone di DeMarre Carroll), rende ancora più stretta la strada di una possibile rivoluzione. Questo roster, in cui bisognerà inserire in qualche modo anche il contratto di Fred VanVleet (da rifirmare utilizzando i Bird Rights, garantendo così un contratto iniziale da oltre 8.5 milioni di dollari per il primo anno), porterebbe i Raptors ben al di sopra della soglia della luxury tax. Un investimento fatto raramente dalla dirigenza di Toronto e per nulla scontato, soprattutto dopo l’ennesimo risultato deludente ai playoff. Cosa fare dunque per cambiare le carte in tavola? L’unica opzione è quella di mettere sul mercato DeRozan, che dopo la pessima serie giocata contro Cleveland (-74 di plus/minus in quattro gare, panchinato negli ultimi 14 minuti gara-3 ed espulso nell’ultima sfida) minimizzerebbe la possibilità di lucrare da una sua cessione. DeRozan è un All-Star nel pieno della sua carriera, con i suoi difetti, certo, ma anche pieno di pregi e con ampi margini di miglioramento: “Arrivati a questo punto è chiaro che devo mettermi seduto, ragionare con calma, analizzare il mio gioco e le mie prestazioni dalla testa ai piedi, studiare e ritornare sul parquet più forte di prima”. Queste le sue parole dopo l’ennesima batosta incassata contro i Cavaliers, nonostante si sia lasciato alle spalle un biennio da protagonista. I canadesi sono davvero pronti a dire addio a un giocatore del genere?

Terza opzione: il sacrificio di coach Dwane Casey

La terza strada, molto calcistica come assegnazione delle responsabilità, è quella di cambiare la guida tecnica. Dwane Casey è cresciuto assieme a questo gruppo negli ultimi anni, dimostrando in alcuni frangenti di saper amministrare bene le energie del roster, mentre in altri non è riuscito a improvvisare fuori dal solito spartito. La scelta in gara-3 di tenere fuori DeRozan ha fatto arrabbiare il diretto interessato, ma aveva sortito il suo effetto riportando a contatto i Raptors. Meno felici invece i cambiamenti apportati al quintetto, mettendo in panchina prima Serge Ibaka e nell’ultima sfida Jonas Valanciunas; entrambi molto positivi una volta tornati sul parquet, a dimostrazione di come forse non fossero loro il problema. C.J. Miles è stata una scelta offensiva che ha pagato, ma troppo facile da punire per LeBron James sui sistematici cambi difensivi di Toronto. Prima di gara-4, alla domanda dei cronisti su come evitare quel pick&roll, Casey ha risposto stizzito: “Davvero? Non ho guardato i video, grazie di avermelo detto”, quasi a voler sottolineare come spesso il suo lavoro venga sottovalutato. Qualche decina di minuti più tardi però sembrava davvero non essersene accorto, visto che non era cambiato nulla. Casey infatti è sembrato più volte costretto a improvvisare qualcosa, più che dimostrare di aver preparato delle contromosse. Esemplare è quanto accaduto con Lucas Nogueira, scongelato nel secondo quarto e lanciato nella mischia. Una scelta disastrosa, diventato comodo bersaglio per la difesa di Cleveland che sui blocchi del brasiliano ha sempre raddoppiato il portatore di palla, e al tempo stesso innocuo in difesa dove, portato lontano dal ferro, ha recitato la parte della comparsa. Nogueira è rimasto in campo meno di due minuti, raccogliendo un eloquente -10 di plus/minus e dando il via alla fuga dei Cavaliers, che hanno chiuso la serie con 121.5 punti di rating offensivo. Uno dei tanti colpi sparati a salve in una serie che metterà inevitabilmente indiscussione la sua posizione sulla panchina di Toronto: "Penso che molti dei nostri ragazzi possano dare un contributo in uscita dalla panchina. Ho ripetuto più volte che il loro ingresso in campo può cambiare le cose in nostro favore. Per qualche ragione però, non ci siamo riusciti e questo è stato molto frustrante". Colpa del coach dunque, o dei giocatori? Con un allenatore diverso, qualcosa sarebbe cambiato?

Ercole alla fine riuscì a battere Cerbero senza ucciderlo, ma imprigionandolo dopo aver richiesto di sfidarlo da solo e senza armi, costringendolo in catene e portandolo via dall'Ade per dimostrare di aver avuto la meglio anche di lui. Grazie a quell'ultima impresa l'eroe greco riuscì a conquistare l'immortalità, come impresso nella memoria di tutti i tifosi dei Cavaliers che al posto delle tre teste ben ricordano le tre gare rimontate alle Finals 2016 contro Golden State. Quelli dei Raptors invece non sanno ancora come aggirare l'ostacolo James e forse non ci riusciranno mai. In fondo, conquistare l'immortalità non è un privilegio a cui possono avere accesso tutti.