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Larry Brown, parla il Maestro: "Il basket mi mancava, quanti ricordi in NBA"

NBA

Pietro Colnago

A 78 anni appena compiuti Larry Brown ha accettato una nuova sfida: dopo essere stato l’unico allenatore nella storia a vincere un titolo NBA e NCAA, dopo aver portato tutte le otto squadre professionistiche che ha allenato ai playoff ed essere inserito nella Hall of Fame di Springfield, ha accettato di sedere sulla panchina di Torino nella nostra serie A

La premessa è sostanziale e obbligatoria: erano in molti quelli che non ci credevano. Non credevano innanzitutto che avrebbe attraversato l’oceano per venire ad allenare in Italia e non credevano nemmeno che, una volta sbarcato, avesse avuto la forza e l’energia di lavorare quotidianamente in palestra con una squadra di serie A. Ed invece, dopo qualche settimana e una manciata di partite di preseason, Larry Brown ha stupito tutti, in primis i suoi collaboratori: “Non molla un secondo, ha le idee chiare e spiega la pallacanestro come nessun altro” hanno detto accompagnando la venerazione per tutto quello che Larry ha già fatto in passato all’ammirazione per quello che stanno vivendo giorno dopo giorno in palestra accanto a lui. Già, perché Larry Brown, 78 anni appena compiuti, con alle spalle 23 stagioni da capo allenatore NBA, un titolo di college vinto con Kansas e uno NBA con Detroit -l’unico al mondo ad essere riuscito in un’impresa del genere - una poltrona nella Hall of Fame, una medaglia d’oro olimpica come giocatore e due - una d’oro e una di bronzo - come allenatore della squadra americana, considera la palestra il suo habitat naturale e il lavoro quotidiano la sua unica ragione di vita. Nella tranquillità del suo spogliatoio e con la mente già proiettata alle prossime sfide sulla panchina della Fiat Torino, il “Maestro” ci ha voluto regalare un’intervista che ha abbracciato tutta la sua carriera. “Negli ultimi due anni mi è mancata la palestra, volevo tornare e fare una nuova esperienza e la proposta di Torino è arrivata al momento giusto”, ha detto. “Ho sempre guardato al basket europeo con ammirazione: da voi si gioca la pallacanestro come deve essere giocata, ci sono buoni giocatori e ottimi allenatori. Lo stile europeo sta contagiando anche la pallacanestro americana: quella di college con l’ingresso dei 30 secondi sta diventando più simile alla vostra e anche nella NBA, con l’arrivo di gente come D’Antoni, Messina e molti altri si comincia a pensare in maniera meno rigida. Quando io allenavo nella lega professionistica non si poteva fare a meno di un centro e un’ala forte di ruolo, poi è arrivato Mike e ha stravolto tutto: quattro piccoli, grande ritmo e applicazione difensiva, giocatori più versatili che possono coprire più ruoli ed ecco fatta la rivoluzione. Oggi da quelle parti giocano tutti così”.

Un tuffo nel passato: dal titolo NCAA a quello NBA con Detroit

Sfogliando il suo album dei ricordi non si può fare a meno di cominciare dal titolo NCAA conquistato coi Kansas Jayhawks. “Volete una sintesi di tutto quello che è successo? Eccovela: Danny Manning. Lui è stato un giocatore incredibile, il più forte giocatore di college che abbia mai visto. Solitamente in quel campionato vince chi ha il giocatore migliore e noi ce lo avevamo. Ma non era una superstella arrogante: il nostro sistema prevedeva tanto lavoro di squadra, collaborazione di tutti sia in difesa che in attacco e Danny era il primo a farsi il mazzo. E quando i compagni vedono che il migliore non è egoista, lo seguono con entusiasmo. Quello era il nostro segreto e la ragione della vittoria. Tant’è che l’anno precedente avremmo potuto vincere un altro titolo se Danny non si fosse infortunato”. Dalla NCAA alla NBA il passo è breve: “La mia fortuna è di aver sempre lavorato con allenatori di grande spessore. Da giocatore ho giocato le Olimpiadi per coach Iba e Dean Smith, che è un po’ il mio mentore, da allenatore ha avuto al mio fianco grandi conoscitori del Gioco con cui ho potuto condividere idee e lavoro. Poi la differenza l’hanno sempre fatta i grandi giocatori che ho avuto: a Phialdelphia ho allenato Allen Iverson. Qualcuno lo può ritenere un pazzo, ma Allen è stato il giocatore, data l’altezza, con più talento che ho mai visto. E poi aveva un cuore grandissimo. Credo che sia anche il giocatore più popolare al mondo perché ovunque sia andato tutti, anche quelli che non conoscevano il mio nome, mi chiedevano di Allen. Grande atleta, ancor più grande combattente, talento cristallino: magari fuori dal campo è stato uno che non sempre ha avuto equilibrio, ma sul parquet è sempre stato perfetto perché per lui contava solo il lavoro che portava alla vittoria”. Ma non solo Allen I, perché coach Brown ha avuto alle sue “dipendenze” anche altri giocatori di spessore. “A Indiana c’era Reggie Miller, a Detroit una lunga fila di fenomeni. I Pistons sono stati l’unica squadra che ho allenatore che, al momento del mio arrivo, avevano un record positivo. Il lavoro fatto da coach Rck Carlisle prima di me è stato super, a me è bastato seguire i suoi concetti, aggiungerne un altro paio e farmi accettare dai giocatori. Il titolo è stata la conclusione naturale delle cose: i due Wallace, Prince, Hamilton, Billups, sapevano cosa fare, non c’era bisogno che glielo insegnassi io e mi hanno portato fino alla fine. E vi dirò di più, se l’anno dopo non avessero smemrato la squadra, di titoli ne avremmo vinti ancora un paio di fila”.

L’ultimo capitolo è dedicato all’Italia: “Qui da voi vedo tantrissimi bravi allenatori, tutti molto preparati ma pochi giovani italiani in campo. Nel passato l’Italia era una delle squadre più forti al mondo e molti avrebbero potruto essere i giocatori in grado di giocare nella NBA: Dino Meneghin per esempio avrebbe potuto essere una vera stella. Oggi ci sono solo Gallinari e Belinelli ma la colpa è del sistema. I giovani giocatori stanno seduti in panchina invece che giocare ed è un peccato: trovare un campionato in cui farli crescere è fondamentale per il futuro del basket in Italia e per la sua nazionale. Se non giocano non migliorano e questo è un problema”.

Perle di saggezza, storie incredibili e tanta umiltà. Grazie coach Brown.