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NBA, 450 sfumature di social network: un gioco serio e leggero

NBA

Manuel Riccio

I burner account, i troll, i meme, gli haters: perchè i social media sono così centrali per la narrazione della lega più mediatica del mondo. In più: chi sono i must follow tra i 450 giocatori NBA e quali stereotipi su di loro vanno allontanati

Non c’è alcun dubbio che la NBA e i suoi testimonial abbiano rappresentato un punto di riferimento per la promozione di se stessi e del proprio brand nel corso degli ultimi decenni. Con l’esplosione dei nuovi media, le possibilità di avvicinare i fan ai propri idoli si sono moltiplicate a velocità vertiginosa, e la lega ha dimostrato ancora una volta la propria capacità pionieristica di interpretare lo spazio che la circonda.

Nasce così l’idillio tra la NBA e i social media: giocatori con milioni di followers, stelle polari per gli utenti Twitter come Rob Perez o Adrian Wojnarowski , squadre che fanno a gara a chi fa le GIF più cool. Un idillio creatosi grazie anche ad una lungimirante scelta strategica della lega, nella persona di Adam Silver, che ha voluto lasciare la possibilità di creare e condividere gli highlights e i contenuti NBA, sia se "rubati" da pagine ufficiali sia se registrati artigianalmente dalla propria televisione, attuando una scelta in controtendenza con tante altre properties rivali (NFL, MLB). Perchè?

"Paragoniamo la nostra strategia al confronto fra gli snack e i pasti. Se noi lasciamo che i nostri fan possano avere qualche snack gratis (ovvero le clip sui social), continueranno comunque a volere i nostri pasti. che sono le partite live" ha spiegato con rara chiarezza Silver. "Crediamo che un maggiore engagement sui social media porti un effetto moltiplicatore per la nostra audience TV". I dati della NBA rispetto alle altre leghe americane danno ragione, una volta di più, al commissioner che ha raccolto l’eredità di David Stern per portare la NBA verso il futuro.

Sullo sfondo dei social, tuttavia, giacciono le contraddizioni tipiche di un propagatore: molto fumo, molta autoreferenza, alto potenziale esplosivo. Nel rapporto tifoso-star dello sport, la sensibilità è massima: la tendenza è di vivisezionare ogni minimo comportamento, in campo o fuori, per formare un giudizio insindacabile sulla persona, oltre che sul giocatore. Ogni errore, o reazione istintiva, ha un effetto virtualmente enorme. E a volte non solo virtualmente, vedendo cosa è successo a Bryan Colangelo negli scorsi mesi.

Prima di andare a individuare i cosiddetti "must follow" fra gli atleti NBA, proviamo ad armarci degli strumenti per capire perché tutto succede a una velocità insostenibile, quali sono le chiavi di successo e gli stereotipi che dovremmo allontanare.

Best for business

J.J. Redick è uno dei giocatori più esposti a livello mediatico: ha un suo podcast fisso su The Ringer, ha raccontato su Uninterrupted il suo passaggio ai Sixers un anno fa, ed era stato tra i protagonisti della emoji battle che aveva accompagnato il "rapimento" di DeAndre Jordan da parte dei Clippers nell’estate 2016, riusciti nel tentativo di convincerlo a non andare dai Dallas Mavericks di Mark Cuban. Sono passati solo tre anni da uno dei picchi di #NBATwitter, e oggi è normale vedere DeAndre scattare foto con un bel sorrisone al Media Day dei Mavericks. J.J., invece, quest’estate ha chiuso tutti i suoi profili social.

Cos'è successo nel frattempo? Quella battaglia social non aveva incrinato i rapporti per sempre? Era tutta fiction?

È molto più complesso di così. In un’epoca in cui la WWE, massima promotion mondiale di wrestling, si preoccupa di controllare che i propri talent si presentino correttamente sui propri canali social, non rompendo la cosiddetta kayfabe - ovvero , in parole semplici, si premurano che i lottatori evitino di farsi selfie sorridenti con il/la loro rivale del momento, uccidendo la narrativa portata avanti nel copione televisivo -, la NBA si ritrova dall’altra parte della storia.

Oggi la lega, così come le squadre e gli entourage delle varie stelle, non solo vogliono, ma anzi incoraggiano i giocatori a “rompere la Kayfabe” di continuo, interagendo e creando storie ad altissimo concentrato di drama, che poi spesso si rivelano essere solo piccole scaramucce. Citofonare Tarik Black sulla presunta invasione dello spogliatoio allo Staples Center, se non vi basta il sorrisone di DeAndre Jordan.

Le due menzionate sono solo alcune di infinite storie che hanno riempito le nostre chat WhatsApp, ci hanno fatto portato a clickare like e follow su profili di atleti, squadre, ecc. Poi erano mezze verità, o magari nemmeno mezze. Nel frattempo però i fratelli Malamut ci hanno fatto un episodio divertentissimo di Game of Zones su Bleacher Report, Drake e Meek Mill hanno commentato su Instagram, e la solita marca ha preparato il nuovo hoodie che tu, e pure io, prima retwitteremo con 8 emoji di fuoco e poi acquisteremo ad una cifra spropositata.

Per tornare alla WWE e al suo linguaggio avanguardista rispetto allo sport contemporaneo (non a caso si parla sempre più spesso di WWE-ification), colei che recita il ruolo - ed è - la commissioner della promotion, Stephanie McMahon, in occasione di tutte le sue scelte più o meno controverse sul ring - spesso accompagnata dal marito e partner-in-crime Triple H - ripete sempre la sua punchline: "That’s what’s best for business".

Ecco, l’idillio NBA & social media può essere analizzato con moltissime sfumature, ed ha sicuramente lati grigi, ma iniziamo col fissare un primo caposaldo: tutto il rumore di #NBATwitter è what’s best for business.

Il tweet fissato in alto nel profilo di Embiid è una GIF di Undertaker che esce dalla bara. Per dire.

Look-at-me culture

Redick in una recente puntata di "The Lowe Post" con il giornalista di ESPN Zach Lowe ha esposto le sue motivazioni per aver disattivato tutti i suoi account. Dopo aver premesso, dimostrando un’altra volta la sua grande comprensione del business, che il cosiddetto social media buzz ha portato enormi benefici alla NBA, ha introdotto uno dei grandi temi della subcultura digitale.

"In the look-at-me culture we’re in now, everybody makes things about themselves".

I social media sono un potentissimo, e per questo pericoloso, strumento di self-validation, di ricerca di affermazione del proprio ego. Ed è un qualcosa che è - come puntualmente detto da J.J. - "inherited in social media", un suo carattere fondante e per questo impossibile da combattere. E quando si parla di sportivi di altissimo livello come gli atleti NBA, la necessità di validation si unisce a quelle di sponsor, entourage e vari portatori di interesse che spingono per la creazione di un personaggio che sia sempre "sulla bocca di tutti".

Redick notava come, ad esempio, nel momento in cui Manu Ginobili ha annunciato il proprio ritiro poche settimane fa, tantissimi dei giocatori NBA siano corsi a commentare sulle varie piattaforme per essere parte della conversazione. Ma molti di loro non si sono limitati al congratularsi con un irripetibile campione che lascia la pallacanestro, andando invece ad aggiungere invece un twist autoreferenziale al racconto, sotto forma di diversi espedienti: dalla foto (rigorosamente con se stessi E l’argentino) alla caption (con un intreccio più o meno sulla falsariga di “ti ho guardato da bambino, poi abbiamo giocato insieme, e ora eccomi qui nella NBA come te”).

C’è qualcosa di sbagliato in questo approccio? Ovviamente no. Capita solo alle megastar dello sport? Figuriamoci. Aprite Instagram 3 minuti e tornate qui: succede ovunque. È pacifico che la tendenza è quella di ribaltare ogni cosa su se stessi. La controversia, al pari della look-at-me culture, è nel DNA dei social. Bisogna comprenderla e conviverci, non sottovalutando mai che dietro ad atteggiamenti vanitosi e contenuti auto-riferiti ci sono condizionamenti di contesto sempre più forti, e che arrivano in giovanissima età. Oggi Zion Williamson, che deve ancora esordire con la maglia di Duke, ha già 1,7 milioni di fan su Instagram e una macchina dell’hype in moto da anni sotto forma di "BeSt DuNkS - ZION IS A FREAK!! IS HE BETTER THAN LEBRON?!".

"Avere il proprio numero di like e followers in bella vista sui canali social è solo un modo di farsi vedere e giudicare dal mondo, come mostrare i propri soldi in banca o scrivere la lunghezza del proprio attrezzo su una maglietta con cui andare in giro". È un recente tweet di Kanye West, che nei suoi vari deliri recenti ha detto anche questa - salvo poi chiudere di nuovo tutti i suoi profili social.  Arriverà il giorno in cui Kanye West avrà convinto Jack Dorsey, Mark Zuckerberg e tutti i suoi amici altolocati a rivoluzionare i social media, facendo togliere da ogni post il numero di like, condivisioni, retweet vari, che a suo dire generano insicurezze, vanità, e disagi profondi. Ha un argomento, di sicuro. Tutto questo succederà? Difficile, non sarebbe what’s best for business.

Essere on brand

"L’admin di @ASRoma_EN è un genio". Quante volte l’avete letto, sentito, o detto voi stessi, se i social media sono parte del vostro pane quotidiano. Paul Rogers, la mente che sta a capo del dipartimento digital della Roma, ha recentemente detto questa frase, che riecheggia come un manifesto: "Non esiste più una cosiddetta digital strategy. Esiste una strategia del brand - o del club, e il digital la abbraccia nella sua interezza".

Altro punto da fissare. Molto spesso, subito dopo ai complimenti alla Roma (o ad una squadra di Bundes, di NFL o di altri contesti), la tentazione è quella di aggiungere: "Eh se gestissero loro i social di X", o "Y dovrebbe fare proprio così", o l’ancora più comune "avessi io in mano quell’account…". Applicando il principio per cui, trovata una ricetta che funziona, basti prenderla e portarla altrove per avere uguale successo. E si afferma altresì che il talento - sicuramente geniale - di quei professionisti, possa portare gli stessi risultati con un altro brand.

Quello che ci sta dicendo Rogers è che il successo dei social della AS Roma è determinato da una più ampia strategia della società, che è definita in prima base e poi viene portata avanti dai vari dipartimenti - tra cui quello digital - che si coordinano, si intrecciano e si contaminano tra di loro. Le playlist su Spotify, le illustrazioni dei Migos con il lupacchiotto, l’endorsement alla nazionale nigeriana per i Mondiali… sono tutte declinazioni di un’anima precisa che il club si è dato, e che viene recepita e tradotta da un team di altissimo livello.

Discutendo con Shahbaz Khan, responsabile Digital delle franchigie di Minneapolis (Timberwolves e Lynx) arrivato da un’esperienza precedente ai Kings, ha detto: "La nostra strategia non è mai basata su quello che io e il mio team pensiamo che funzioni sui social, ma è basata su quello che è coerente con il brand. Quando ho ottenuto il lavoro, ho dovuto presentare tutta la strategia digitale che avevo in mente ai responsabili di tutti i dipartimenti. Non siamo su un’isola, non siamo i giovani che sanno cosa funziona: siamo parte integrante di un brand e di un’organizzazione che ha una storia alle spalle, dei valori, una direzione futura, un presente. Noi dobbiamo comprenderlo e tradurlo in modo efficace".

Allo stesso modo, arrivando agli atleti e in particolare a quelli della NBA, ciò che conta più di tutto è di essere autentici e on brand. I fan vogliono un accesso sempre più profondo alla loro quotidianità, dentro e fuori dal campo. I numeri stessi (fonte Opendorse) dicono che sia a livello di followers che di engagement gli utenti vogliono abbeverarsi alla loro fonte, molto più che a quella dei club, delle leghe o di altri right holders nello sport.

È fondamentale che i tifosi riconoscano il proprio beniamino in ogni momento. In campo, in televisione, sui social. Il tono di voce, l’atteggiamento, il tipo di contenuto, il filtro di Instagram: tutto deve essere in linea con quello che è l’atleta. Sempre on brand.

In tal senso, ben venga che LeBron James si autoproclami "King of NY" dopo aver dominato al Madison Square Garden. Nessuno si sognerebbe oggi di attaccarlo perchè ha scritto o detto qualcosa di autocelebrativo perchè oggi questo è il brand di LBJ. E non è solo una questione di legittimazione data dagli anelli vinti: come detto da Draymond Green perfettamente nella serie HBO "The Shop", il Re diventa definitivamente il Re quando il suo atteggiamento a 360° (la brand strategy che ci dice Rogers) afferma il principio: "F**k y’all, I’m here". Da lì in poi può portare avanti, anche sui suoi canali social, quel tipo di narrazione in maniera credibile ed efficace. Tant’è che #KingMe ormai è uno dei suoi hashtag di riferimento.

Dray di puro istinto ci regala gemme.

Allo stesso modo, è totalmente on brand Paul Pierce che pubblica la foto di un’emoji invece di un’emoji vera e propria: è old school, i social non sono il suo pane. E anzi, quel post diventa virale. La reazione dell’audience a un post è determinata dal brand di chi lo scrive: per assurdo, la foto osé condivisa per sbaglio da Draymond su Snapchat è completamente all’interno del suo personaggio sopra le righe, e gli causa un danno di immagine del tutto marginale rispetto a quello che sarebbe successo con il 99% dei suoi colleghi.

Insomma, nel valutare chi è più o meno forte sui social servono mille valutazioni di contesto, di carattere, di provenienza. All’interno di queste variabili ci sono professionisti e agenzie che lavorano più o meno bene con qualità di contenuti, tempismo, e tanti altri tecnicismi. Ma se il punto di partenza e di arrivo nella valutazione è il numerino di followers o la creatività dei post, allora cadiamo nuovamente nell’errore del pensare che siano tutti uguali e ci sia una ricetta giusta da confezionare e distribuire a tutti. L’autenticità è ciò che vince, la forza di un brand. Se non lo accettiamo, tanti auguri a spiegare a qualcuno perchè Kimi Raikkonen sfondi su Instagram a 38 anni scrivendo caption creative come “Ok.”.

Must follow

Avendo fatto tutte queste premesse, avrete capito di come non ci sia una lista di quelli capaci e una di quelli incapaci sui social. C’è chi ha un brand più o meno attraente, e tra questi c’è chi lo sa utilizzare il mezzo in modo migliore per aumentare il valore di quel brand, sia per proprie capacità che per il sostegno di professionisti del mestiere. Qui sotto quelli che regalano più spunti, divisi per gironi.

Trying so hard.

Girone di quei giocatori disposti a tutto pur di essere parte nella conversazione, esemplari più lampanti della look-at-me culture di cui sopra. Definirei probabile un loro workout con Brickley, una watermark t-shirt di Cassy Athena e un bel selfie con Omar Raja di House of Highlights.

  • Kyle Kuzma. La presenza nel big market di Los Angeles, la vicinanza di Lonzo Ball… tutte cose che non sfuggono certo a Kuzmania, il quale non manca mai di ricordarci la sua esistenza. Tanto che nella scorsa stagione, dopo l’ennesimo sberleffo social con il figlio di LaVar sfociato in una “diss track””, a lui, Hart e tutti i giovincelli dei Lakers sono state tirate le orecchie dal front office. Pure la mamma - insieme a quella di Draymond (neanche a dirlo), una delle più attive della categoria - ha richiamato tutti all’ordine.

Bio di Kuz Momma: “Proud mother of 3. Mother of a Los Angeles Laker”. Personalità.

  • Donovan Mitchell. Anche per @spidadmitchell, una presenza costante in timeline. Anche se si parla di Trump. Cucito per i riflettori, e si vede in campo - il brand è uno. Un bell’esempio: ha interrotto l’intervista di Grayson Allen subito dopo la scelta al Draft dei Jazz per abbracciarlo ed entrare anche in quel momento. Un ragno talvolta un po’ ingombrante.

Dire una cosa, accorgersi che nell’internet si prendono più like con altro, dire anche l’altro. Anche il ragno ha il suo bottone “Tactics” da premere.

  • Enes Kanter. #DictatorErdogan, video con qualsiasi animale predatore, scomoda presenza paparazzata a OKC per i playoff: Enes è uomo ovunque. Anche a bordo ring per vedere il suo idolo Undertaker, ovviamente.

"Enes Kanter come on Desktop è diventato realtà, ed è stato bellissimo.

Troll

Questo girone è di Joel Embiid. È il suo modo autentico di stare al mondo, e continuerà per questo ad essere il più efficace nel trollare i suoi rivali, gli avversari, i compagni stessi, il suo nuovo GM! Usa il nickname “The Process” anche se richiama l’allontanato Sam Hinkie, è pioniere nell’inserire il troll nella location di Instagram, si è divorato Hassan Whiteside e la famiglia Ball con rara facilità. Ha recentemente preso parte ad uno shooting con Ronda Rousey e ha fatto teasing di una sua presenza a Wrestlemania. Ci andrà si-cu-ra-men-te, he belongs.

Visualizza questo post su Instagram

WHAT A NIGHT !!!!! #TheProcess

Un post condiviso da Joel "The Process" Embiid (@joelembiid) in data:

Segnaliamo due europei da seguire, Lauri Markkanen e Evan Fournier, che ultimamente hanno regalato un paio di colpi di altissimo livello. Lauri ha di fatto tolto allo stato di Minnesota la franchigia con un intervento a piedi pari sulla situazione di Jimmy Butler (il finlandese è stato draftato dai T’Wolves e girato immediatamente ai Bulls proprio per JB), mentre Evan - che va fortissimo, ma troppo spesso in francese - ha consigliato a LeBron di cambiare parrucchiere. Personalità.

Se non ci credete, questo è il certificato di garanzia di Jason Concepcion. Quando ricevi l’invito a #NBADesktop, sei arrivato.

Keep it real

Girone composto soprattutto ma non esclusivamente da veterani, che adorano fare RT di video vintage dall’account di SLAM, commentare la WNBA, ricordarci quanto manchi alla NBA la città di Seattle, e raccontare la propria opinione schietta ogni qualvolta lo ritengano necessario.

  • Damian Lillard. La presenza della stella di Portland sui social è perfettamente rappresentata dal suo commento alla grande questione dei workout estivi. Se non si vede sui social, allora non ti stai allenando? "My workout don’t require a camera crew". Ed ecco il video di sfottò per distruggere un altro dei mille stereotipi sulla vita degli atleti. Molto attivo nel dibattito con i fans, in cui riesce sempre ad essere autentico. Non a caso la sua linea signature ha sempre performato bene: Dame D.O.L.L.A. is a real one.

  • Dwyane Wade. Flash è perfetto: si complimenta con i rookies, spinge la WNBA e si congratula con Doris Burke, fa brutto a Jimmy Butler quando si avvicina alla sua Gabrielle, condivide i suoi vecchi highlights. Incarnazione dello stile Miami Vice.

Vet talk.

KD.

Kevin Durant, MVP delle ultime due Finals, fa categoria a sé. “I just did your fuckin podcast”.   

It’s fun!

Girone in cui si ride, composto da gente molto simpatica.

  • Dirk Nowitzki. Dirk twitta poco, ma quando lo fa stai pure certo che gli è venuta in mente una battuta geniale. Maestro di autoironia, virtù amatissima sui social - e non solo.

Già sappiamo che durante il suo discorso alla Hall of Fame, tra una lacrima e l’altra, scoppieremo a ridere.

  • Blake Griffin. Era più ispirato, comprensibilmente, quando se ne stava al sole della California. I suoi Twitter fingers però sono sempre pronti a colpire, specie quando bisogna rimettere qualche ragazzino al proprio posto.

  • Boban Marjanovic. Ha appena aperto il profilo su Twitter, in contemporanea del lancio della serie Bobi & Tobi con il compagno di giochi Harris. Consigliatissimo follow, ci divertiremo.

Bobiiiii <3

Un gioco leggero e serio

È opinione comune dire che gli atleti di oggi, ormai, pensano solo ai social media ed a farsi i capelli perfetti prima di entrare in campo piuttosto che a “dare l’anima” sul campo. E non è un pensiero da banalizzare, che vive solo nelle teste dei conservatori: di recente il leader progressista Pep Guardiola ha rimproverato il terzino francese Benjamin Mendy inserendosi in questo filone, ad ulteriore dimostrazione che il tema è reale e non è solo un nostalgico richiamo al passato fine a se stesso.

Al Gran Premio di Monza, l’anno scorso, ha iniziato a piovere prima dell’inizio delle qualifiche. Tutti sono rimasti concentrati nel box, pronti ad uscire al primo segnale. Intanto Hamilton, con il compagno Bottas, si è spostato alla Playstation a giocare, con tanto di diretta Instagram Live e conseguenti critiche da ogni angolo del mondo per poca professionalità, scarso focus, nessun rispetto degli avversari.

Quel giorno al Gran Premio di Monza Lewis ha fatto la pole position con 1” e mezzo sul secondo classificato Stroll, e 2” e mezzo sul compagno di merende Bottas. E quest’anno pare vicino al suo quinto titolo tra una sfilata e l’altra in giro per il mondo ed un selfie con Bella Hadid e Naomi Campbell. Vettel, on the other side, è l’unico pilota di F1 senza profili social.

Allora cazzeggiare sui social fa bene? O fa male? Impossibile dirlo in assoluto. Ma il dibattito è più vivo che mai, non solo ma soprattutto perchè se J.J. Redick e Guardiola alzano la voce, è giusto che ascoltiamo.

In ogni caso, per la stagione che è appena cominciata rimane valido un consiglio: #NBATwitter è una cosa leggera che va presa sul serio.