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Finals NBA, a lezione con Calderon: “Vi racconto i Raptors e le mie due ore da Warriors”

NBA

Stefano Salerno

José Calderon durante una delle lezioni all'università Bocconi di Milano (foto di Matteo Marchi)
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Ospite tra i banchi dell'Università Bocconi di Milano assieme ad altri giocatori NBA impegnati a seguire un corso organizzato dalla NBPA, lo spagnolo ha scherzato sul suo passato da miliardario ai Cavaliers, tifa davanti la TV per la sua Toronto e non ha dubbi sul caso Durant: "Se è sceso in campo vuol dire che ha avuto l'ok dai medici e stava bene, nessuno avrebbe rischiato di subire un infortunio così grave" 

Gara-6 è in diretta dalle 3 su Sky Sport Uno e Sky Sport NBA con il commento live in italiano di Flavio Tranquillo e Davide Pessina

A guardarlo passeggiare tra i banchi dell’università, difficilmente si potrebbero ipotizzare le 14 stagioni NBA che si è già lasciato alle spalle. José Calderon siede in prima fila – anche perché se fosse finito in aula dietro Zaza Pachulia o Cristiano Felicio, non avrebbe avuto modo di vedere la cattedra, visti 30 centimetri abbondanti di differenza – e osserva attento le immagini proiettate sul maxi-schermo. Nessuna difesa da analizzare o pick&roll da perfezionare: non è una sessione video tenuta da un allenatore, ma una divertente spiegazione che tocca l’economia, la gestione del proprio brand, l’analisi delle ragioni alla base di scelte razionali. Per il terzo anno consecutivo infatti la NBPA - il sindacato dei giocatori NBA - ha organizzato presso la SDA Bocconi di Milano il programma “Branding in the Global Economy”: una tre giorni di lezioni in cui far fronte alla crescente necessità dei 450 giocatori NBA (e non solo, c’è anche Andrea Della Valle tra gli ospiti ad esempio) di conoscere e vivere la dimensione internazionale anche dal punto di vista economico-manageriale. Argomenti che hanno mosso l’interesse di molti atleti, tutti chini sui propri appunti e concentrati nel non lasciarsi sfuggire i consigli. La lista degli studenti è variegata, da Rudy Gay a Bogdan Bogdanovic, dal trio di Portland Aminu-Turner-Harkless a quello di Detroit Pachulia-Galloway-Calderon. Il playmaker spagnolo sembra a tutti gli effetti uno studente dell’università – ben più giovane dei 37 anni presenti sulla carta d’identità – dal fisico contenuto e ben diverso rispetto a quello dei compagni di classe e di parquet. Il suo sorriso è cordiale e, nonostante l’occasione non richieda alcun obbligo di intervista, chiacchiera con noi con piacere tra una lezione e l’altra – soltanto dopo aver discusso con i professori che hanno catturato il suo interesse: “È sempre importante prendere parte a esperienze del genere e cercare di accumulare quanta più conoscenza possibile. Avere la gioia di imparare qualcosa di nuovo: è un’occasione per i giocatori presenti di capire cosa fare dopo la carriera e per altri come implementare il proprio business mentre sono ancora impegnati sul parquet. È una situazione nuova, in cui si ha l’opportunità di ascoltare tante storie di successo. In fondo, per chi è abituato a giocare a pallacanestro ad alto livello è normale approcciare alle cose ben consapevoli di dover lavorare tanto, di dover affrontare dei momenti di calo, di dover sperimentare qualcosa di nuovo. Far bene sul parquet richiede caratteristiche simili a quelle di chi ha successo come uomo d’affari”.

Toronto a un passo dal titolo: “Sento di far parte della crescita dei Raptors”

In attesa di saperne di più sul suo futuro e reduce da una deludente stagione con i Detroit Pistons, Calderon dice di non aver ancora pensato a cosa succederà nelle prossime settimane alla sua carriera – è un argomento che evita con facilità, come un avversario sfidato in campo aperto e saltato dal palleggio – mentre parla con piacere dei suoi Raptors. Era presente alla Scotiabank Arena durante gara-7 della semifinale contro Philadelphia, ha trattenuto il fiato e poi esultato come tutto il popolo canadese sul canestro di Kawhi Leonard alla sirena, ma poi come sempre successo da 15 anni a questa parte, terminato l’anno scolastico dei suoi ragazzi, è partito alla volta della Spagna e diretto a Villanueva de la Serena – casa sua, nel sud della penisola iberica. Anche da lì però è impossibile non seguire con attenzione le Finals NBA: “Il fatto che i Raptors siano arrivati fino in fondo in questa stagione è certamente qualcosa di importante, di speciale. Non solo per quello che è il mio passato. Credo che in generale per il bene della Lega e per i tifosi sia importante dimostrare che anche altre squadre siano in grado di competere ad alto livello e vincere. Sul piano personale non può che essere diverso, sono stato otto anni a Toronto: a quei tempi abbiamo riportato la squadra ai playoff dopo un periodo difficile, vinto la Division e in generale fatto tante cose positive per la franchigia. Da quel momento l’organizzazione ha continuato a crescere, i tifosi sono aumentati. Sai cosa significa sentirsi parte di qualcosa, anche senza esserne più protagonista in prima persona? Ecco perché per me queste Finals con i Raptors rappresentano qualcosa di speciale”. Lo ripete con il sorriso sulle labbra, senza un velo di malinconia. Qualche anno fa un traguardo del genere sarebbe stato impensabile, ma in NBA lo scenario può cambiare in fretta. “Penso che la cosa migliore da sempre garantita dalla NBA è il fatto che ogni squadra potenzialmente può fare un salto in avanti. In Europa non puoi pensare che questa accada: a livello economico le cose funzionano in maniera differente. Le regole NBA, il Draft, i vincoli nelle trade e tutto il resto permettono alle 30 franchigie di sognare di diventare campioni. In Italia ad esempio molte squadre sono tagliate fuori: senza soldi non puoi prendere i miglior giocatori. Anche per questo l’exploit dei Raptors non è una grande sorpresa: tutte le squadre ambiscono a un risultato importante, basta fare le cose per bene. Un po’ di fortuna quando si tratta di scegliere al Draft, mettere sotto contratto il free agent perfetto per l’occasione (ogni riferimento a Kawhi Leonard non è puramente casuale, ndr): sai che in qualche modo puoi farcela”.

L’infortunio di Durant e il pronostico sulle Finals NBA

La questione che ha tenuto banco nel post gara-5 però non è la sconfitta casalinga dei Raptors, ma l’infortunio di Kevin Durant; secondo alcuni costretto a tornare a causa delle pressioni e delle illazioni di appassionati e dirigenza. Una ricostruzione senza fondamento secondo Calderon: “No, nessuno farebbe mai una richiesta di questo tipo. Credo che queste considerazione siano figlie degli stereotipi dei tifosi. Un giocatore vuole sempre scendere sul parquet, per questo non hanno senso le polemiche di chi dice che un infortunato se la prende troppo comoda o che non ha voglia di giocare. Non sto dicendo che tutti hanno questo stimolo, esistono sempre delle eccezioni, ma io non ho mai conosciuto nessuno che non volesse restare sul parquet per tutti e 48 i minuti. Chiunque ambisce a quello ed è questa la ragione che spesso mette in difficoltà gli allenatori che devono farti capire che in un determinato momento magari c’è bisogno che tu stia fuori. Detto questo, se a Durant è stato dato l’ok vuol dire che c’erano tutte le condizioni per farlo giocare. Non esistono forzature in casi come il suo, non sarebbe stato vantaggioso per entrambe le parti rischiare. La discriminante quando ci sono infortuni di questo tipo è: ‘Se scendo in campo la situazione può peggiorare?’, se la risposta è no allora un giocatore sente di poter giocare. Bisogna soltanto combattere contro il dolore, una cosa che capita spesso. Chiunque è sceso su un parquet NBA sa di dover stringere i denti. Ma se uno specialista dice: ‘C’è un piccolo danno al legamento e c’è il rischio che sforzandolo possa peggiorare’, o al tendine come nel caso di Durant, nessuno avrebbe pensato di farlo scendere in campo. Nessun medico avrebbe dato l’ok, sarebbe stato un pazzo”. Calderon è loquace, sereno e discute di tutto da vecchio saggio. Nonostante l’enorme esperienza accumulato in passato però, non può che rispondere da tifoso quando si tratta di fare un pronostico sulle Finals: “Avevo detto prima dell’inizio della serie che speravo in un successo di Toronto per 4-2, una scelta dovuta a quanto di speciale mi lega ai Raptors, come già detto prima. Hanno perso una grande opportunità in gara-5, ma continuo a tenere fede alla mia previsione iniziale. Onestamente so che tutto resta complicato da immaginare, queste finali NBA hanno già dimostrato di essere molto sorprendenti”.

L’accordo con Golden State nel 2017: “Ero a casa quel pomeriggio, non posso avere rimpianti”

Tutti infatti hanno ben stampata in mente l’immagine del giocatore spagnolo in maglia Raptors – per otto anni sul parquet con i canadesi, con l’ultima gara casalinga a Toronto giocata nel gennaio 2013 proprio contro Golden State – ma in pochi ricordano che nel 2017 aveva raggiunto un accordo con gli Warriors. La miglior squadra NBA, a caccia di un giocatore per allungare la rotazione, aveva fatto un’offerta al termine della sessione di mercato per Calderon – subito accettata dallo spagnolo, che aveva firmato il contratto nel salotto di casa sua. Pochi minuti dopo però la notizia dell’infortunio di Durant aveva costretto Golden State a cambiare i piani: a quel punto serviva un profilo diverso da poter sfruttare – fu messo sotto contratto Matt Barnes – e il posto nel roster appena occupato da Calderon diventava quello da sfruttare per altro. E così lo spagnolo è ritornato a essere un free agent, con gli Warriors che spesero più di 400.000 dollari per il disturbo. “Com’è stato essere un giocatore degli Warriors?”, gli chiedo, con la paura che la domanda suoni come una provocazione, ma scatenando sul suo volto l’ennesimo sorriso: “No, non ho fatto neanche in tempo a giocare con loro in realtà. Ho firmato il contratto e poco dopo ho saputo che ero stato tagliato dal roster. Spesso nella vita ci si ritrova in situazioni in cui ti domandi: ‘Cosa sarebbe successo se…’. Ma sin dall’inizio della mia carriera non ho mai ragionato in questo modo. Ci sono delle cose che non puoi controllare, che non dipendono da te. Ti puoi allenare, esercitare quanto vuoi, giocare al meglio sul parquet e in quell’occasione l’unica cosa che potevo fare era accettare l’offerta – ed è quello che è successo, ho subito detto di sì a Golden State – ma dopo si sono susseguiti degli eventi che non dipendevano da me. Non mi sono mai soffermato a pensare a quello che sarebbe potuto succedere. La gente spesso mi ha ripetuto: ‘Avresti vinto un titolo NBA’, ma non è accaduto non perché io abbia fatto qualcosa di sbagliato. Sono cose che nella vita succedono. Non ci penso, anche perché sarebbe stato più complicato da accettare se mi fossi ritrovato con la squadra, ma io non ho neanche mai incontrato gli Warriors. Ero a casa mia quando ho accettato l’offerta e anche poche ore dopo mentre mi comunicavano che la mia esperienza con Golden State era già terminata. Per quello mi ripeto: ‘Non ho mai fatto parte di quel gruppo, non c’è ragione di rammaricarsi’”.

Miliardario per qualche settimana, almeno secondo i suoi compagni a Cleveland

Il titolo NBA in realtà lo ha sfiorato anche con i Cleveland Cavaliers 12 mesi più tardi – perso in quell’occasione di nuovo per colpa degli Warriors – al termine di una stagione da comprimario sul parquet, ma protagonista di una delle storie più divertenti circolate nello spogliatoio della squadra dell’Ohio (e nel 2018 ce ne sono state davvero molte a fargli concorrenza). In molti, non solo a Cleveland, erano convinti del fatto che Calderon fosse miliardario. Sì, super ricco di famiglia in sostanza, stando a quanto riportato su internet da un sito specializzato nella valutazione dei patrimoni personali dei paperoni in giro per il mondo. Peccato che il suo fosse un caso di omonimia con un Calderon messicano – anche lui José, ma con un conto in banca ben più ricco del suo. “È stato fantastico - commenta trattenendo a stento le risate - Beh, non è complicata da raccontare come storia: qualcuno su internet ha commesso un errore, generando questa pagina con il mio profilo in cui tutto era perfetto, esatto in ogni dettaglio tranne quando si parlava di soldi e della dimensione della mia ricchezza personale. È una cosa che colse di sorpresa molti di quelli che mi stavano attorno – anche io all’inizio pensavo fosse uno scherzo - e che in poco tempo fece parlare mezza NBA, anche giocatori di altre squadre e non solo i miei compagni. È stato divertente, anche perché poi un sacco di giornalisti hanno iniziato a chiedermi spiegazioni, anche gli avversari durante qualche partita volevano sapere se fosse vero o meno. Alcuni mi hanno scritto dei messaggi in privato: se ci penso adesso, sorrido ancora”. La campanella virtuale a quel punto suona anche per noi, con il professore già tornato in cattedra e pronto a interrogare i suoi alunni durante l’ultima lezione. Calderon è pronto a riprendere il suo posto in prima fila, ad “aumentare la sua conoscenza” e capire come sfruttare al meglio il suo brand. Rilassato e a suo agio allo stesso modo davanti a un microfono, tra i banchi di scuola e soprattutto sui parquet NBA.