Ospite alla trasmissione "Good morning America", l'ex stella dei Bulls ha accettato di ripercorrere alcuni momenti anche poco conosciuti della sua vita e della sua carriera: dal tiro in maglia UNC ("che mi ha reso Michael Jordan") alla famosa "last dance" del 1998 coi Bulls
Una decina di minuti di intervista, in una delle trasmissioni più popolari d’America: a pochi giorni dal debutto su ESPN di "The Last Dance" - serie dedicata all’ultima stagione ai Bulls di MJ, in Italia su Netflix e disponibile a un prezzo vantaggioso per gli abbonati Sky che sottoscrivono l’offerta Intrattenimento Plus su Sky Q - Robin Roberts, conduttrice di Good morning America, ha la chance di chiedere al n°23 in persona ricordi e sensazioni di una serie che si preannuncia essere quella definitiva per raccontare il mito e la leggenda di Michael Jordan. A partire proprio dalla scelta del titolo: “Quella stagione 1997-98 è stata un’annata difficile — ammette MJ — perché sapevamo che la nostra cavalcata sarebbe finita lì. A inizio anno il gm Jerry Krause era andato da Phil Jackson e gli aveva detto: ‘Se anche compilassi un record di 82 vittorie e zero sconfitte, non c’è una chance che tu possa ancora essere il nostro allenatore l’anno prossimo’. E io — lo avevo detto più volte chiaramente — avevo scelto di legare la mia carriera a Phil. F lui a inizio anno a cominciare a chiamare quel campionato ‘il nostro ultimo ballo’. Abbiamo giocato proprio così, con il focus giusto per far finire alla grande, nel modo giusto, un’avventura incredibile, anche se c’era un po’ di tristezza in tutti noi sapendo che a fine anno sarebbe terminato tutto”. Quel tutto per Jordan è una carriera iniziata 16 anni prima, con un altro canestro decisivo — 16 anni prima di quello segnato nello Utah contro Bryon Russell. Finale NCAA, North Carolina contro Georgetown. “Fino a quel momento nessuno sapeva realmente chi fossi”, racconta MJ. “Fuori dalla mia università, dove per tutti ero Mike, non mi conosceva nessuno, ma di quel tiro si parlava in tutta America come del tiro di Michael Jordan. E quel nome — Michael Jordan — è rimasto associato a tutti i trionfi della mia carriera”.
Il giovane Jordan, tra lettere alla mamma e bollette da pagare
La chiacchierata con Roberts si sofferma proprio sugli anni universitari a North Carolina, a inizio anni ’80, un mondo diversissimo da quello attuale: “Le cose erano diverse al tempo, per me ma per tutti, perché la vita era diversa: non avevamo Instagram, Twitter, si viveva la vita come capitava e quando si trascorreva del tempo con i propri amici, o in famiglia, lo si faceva di persona, faccia a faccia, non tramite un telefono. Si scrivevamo lettere, al massimo — e mia madre ha conservato tutte quelle che le ho scritto quand’ero al college a North Carolina: è un po’ imbarazzante, oggi, ma allo stesso tempo è bello pensare che le scrivessi quanto l’amavo”. Anche quando da una di queste emerge la richiesta fatta da un giovane Jordan a sua madre di pagargli la bolletta del telefono: “Era qualcosa come 60 dollari, forse meno, ma io ne avevo 20 in tutto. Le cose erano davvero diverse, a quel tempo”, commenta divertito il proprietario degli Charlotte Hornets, oggi uno degli uomini più ricchi al mondo. E dai ricordi di sua madre a quelli del padre, James Jordan — la cui uccisione ha avuto un ruolo importante nel primo ritiro di MJ, nel 1993. L’uomo — afferma Roberts — che conosceva Jordan meglio di chiunque: “Per ottenere il massimo da Michael basta dirgli che non è in grado di fare qualcosa”, ripeteva papà James, che ha plasmato l’incredibile spirito competitivo del figliolo, insegnandogli allo stesso tempo un’etica del lavoro impareggiabile: “Viene da lì, dai miei genitori”, ammette Michael. “Mio padre ha lavorato a lungo alla General Electric, mia madre in banca: entrambi gente abituata a lavorare duro, e lo stesso vale per i miei fratelli e le mie sorelle. Lavorare faceva parte della mia natura, qualcosa che ho ereditato senz’altro dai miei genitori”.