Giochi invernali 2018. Da Bjorgen alle due Kim: le Olimpiadi delle donne

Olimpiadi

Danilo Freri

olimpiadi_donne

Dall'oro storico di Marit Bjorgen a quello di Chloe Kim, un fenomeno dello snowboard. Le donne sono state le vere protagoniste a PyeongChang

IL RACCONTO DELLE GARE DEL 25 FEBBRAIO

LA CERIMONIA DI CHIUSURA: LE FOTO

Una veterana che entra definitivamente nel mito, Marit Bjorgen e le giovanissime Zagitova e Chloe Kim, fenomeni di precocità. Ma un’altra Kim passerà alla storia per un gesto meno atletico ma più significativo: una semplice stretta di mano

Marit Bjorgen

La mamma di Trondheim farà 38 anni il prossimo mese. Li festeggerà con il suo Marius, nato nel dicembre 2015. La maternità non l’ha fermata, se non per i pochi mesi strettamente necessari. Era già la donna più vincente nella storia del fondo, ma non le è bastato. Diventa lei l’immagine di PyeongChang 2018 con le sue 5 medaglie: 2 ori, 1 argento e 2 bronzi. Soprattutto chiude con un’oro alla sua maniera, dominando la 30 km a tecnica classica, imponendo un ritmo che ha stroncato le avversarie. L’oro più prezioso per la Norvegia che grazie al suo successo vince il medagliere sulla Germania e fa il record assoluto nella storia con 39 medaglie. Non poteva che essere lei, la Lady di Ferro, a segnare il momento più importante di questa edizione dei Giochi Invernali. Non entra nel mito, perché nel mito c’era già. Ma ora diventa probabilmente irraggiungibile. Il suo record assoluto di medaglie nella storia olimpica arriva a 15, sorpassa Bjorndalen e Daehlie e li raggiunge anche a quota 8 medaglie d’oro. Sembrava un traguardo anche difficile da immaginare. Ma per Marit Bjorgen ci sono solo traguardi da tagliare prima delle avversarie. Le ha battute sulla neve, poi ha cominciato a fare la sua gara contro la storia, contro i più grandi di sempre. La sua rincorsa olimpica non era iniziata nel migliore dei modi. Nessuna vittoria a Salt Lake City e a Torino 2006 dove si era presentata con una bronchite presa ad una settimana dall’appuntamento olimpico. Non è stata però la fine dell’avventura, ma solo l’inizio. Le sue Olimpiadi sono diventate 5, le sue medaglie 15, i suoi ori 8 e tutti nelle tre edizioni successive. Nel frattempo ci ha messo anche 112 vittorie in Coppa del Mondo, 12 Coppe tra titoli assoluti e di specialità. Non l’ha fermata la bronchite, non l’ha fermata l’asma nel 2009, l’aritmia cardiaca nel 2012 ed un infortunio all’anca nel 2016. Più forte di tutto e di tutti, sempre inseguita dai sospetti per le esenzioni all’uso di farmaci che ha ottenuto per sopportare questi guai. La maternità l’ha cambiata. Questo, almeno, è quello che sostiene. L’ha resa più rilassata, le ha fatto capire che ci sono cose nella vita più importanti di una gara di fondo. Non l’hanno vista molto cambiata le sue avversarie, però. Una cannibale delle nevi. Una cannibale gentile, che nel 2014 ha vinto anche un premio per la sua sportività e per il suo fair play. Una che ti batte ma che poi ti aspetta all’arrivo e ti abbraccia. Ormai la sua priorità non può più essere solo la prossima gara. Perché c’è Marius. Che quando è tornata alle gare è sempre stato con lei, rompendo il suo solito approccio alla competizione. Certo l’ha aiutata suo marito, Fred Borre Lundgren, una leggenda nella combinata nordica e anche lui campione olimpico. Fantastico non solo nel saltare con gli sci, anche nell’occuparsi del piccolo Marius. Vuoi vedere che dovremo cominciare a dire che accanto ad una grande donna c’è sempre un grande uomo. Ma l’edizione 2018 passerà alla storia come l’Olimpiade delle donne. La più anziana è stata la migliore. Ma il futuro è già diventato presente. Piccole donne sono già diventate grandi.

Alina Zagitova

Una storia incredibile, quella di Alina Zagitova. Non solo perché a 15 anni trionfa in una delle gare più affascinanti e seguite dei Giochi, il singolo donne del pattinaggio artistico. Una gara che ha segnato la storia olimpica con nomi come Katarina Witt o Yu Na Kim. L’incredibile è come ci è arrivata. A 12 anni la Zagitova era ancora nella sua Izevsk, capitale dell’Udmurtia. Era la migliore a Izevsk, ma sapeva fare pochi salti e praticamente tutti doppi. Troppo poco per sognare davvero una carriera ad alto livello. Per riuscirci bisognava andare a Mosca, da Eteri Tuberidze, una allenatrice che sta costruendo piccole campionesse ad un ritmo impressionante. Per una bambina di 12 anni però il trauma è stato troppo grande. Lontana da casa, spremuta dai metodi rigidi e improntati all’eccellenza della Tuberidze, la piccola Alina non ha retto. Non si è adattata alla qualità e alla quantità di lavoro che era necessario. L’allenatrice dopo qualche mese emette la sua sentenza: non ci siamo, così non si arriva da nessuna parte. Poi arrivano prima una frattura ad una mano, poi ad una gamba. Alina riparte da zero, anzi riparte dall’imparare ad appoggiare il piede, a camminare di nuovo. Figurarsi pattinare. E saltare, poi. Guarisce, ma nel frattempo capisce. Capisce che il pattinaggio ad alto livello non fa per lei. Evidentemente non è destino. Compra un bel mazzo di fiori e li porta ad Eteri Tuberidze. “Grazie di tutto, io torno a casa”. Il capolavoro che abbiamo visto a PyeongChang è nato esattamente in quel momento. Quando Eteri l’ha guardata e le ha detto: “Ma perché non ci diamo un’altra possibilità? Io ci credo. Che ne dici?”. Non se l’aspettava Alina. Ma ha abbracciato l’occasione, ha ricominciato a sognare come prima. Più di prima. E in allenamento è cambiato qualcosa, poi ancora qualcosa. Alla fine è cambiato tutto. Salti tripli come non si era mai visto. O meglio, come Alina vedeva tutti i giorni perché la sua compagna di allenamento è Evgenia Medvedeva. Un fenomeno, già più volte campionessa europea e del mondo a 18 anni. Che diventa l’esempio da seguire. Tutte le ragazze a Mosca imitano il suo modo di rendere più belli e difficili i salti, alzando le braccia sopra la testa. Alina impara dall’amica e comincia a mettere insieme combinazioni di salti tripli ancora più difficili. E comincia ad eseguire tutti i salti nella seconda parte dei suoi programmi. Perché il regolamento così le assegna un punteggio più alto. Nessuna altra pattinatrice è in grado di farlo. Prende i limiti da record del mondo stabiliti dalla Medvedeva e va più in là. Diventa insuperabile fino al trionfo di PyeongChang. Ha fatto tutto in tre anni partendo da Izevsk, capitale dell’Udmurtia. Ha fatto tutto in pochi mesi in realtà perché solo a settembre ha lasciato la categoria junior. Ora la più piccola è diventata la più grande. Ed ha un’altra missione. Non sparire come capitato a Sotnikova e Lipniskaya, eroine a Sochi, dimenticate oggi. L’incredibile storia di Alina è solo all’inizio.

Chloe Kim 

Se parliamo di precocità, nessuno come lei. Chloe Kim è un fenomeno dello snowboard ed è diventata a 17 anni la ragazza più giovane a vincere un’oro nello snowboard, specialità halfpipe. Ma l’ha vinto come fosse una veterana. Perché in un certo senso lo è. A 13 anni Chloe era già in grado di competere con le migliori. Ma non poteva andare a Sochi, le regole non lo permettevano. Avrebbe potuto già lottare per le medaglie. E in effetti lo ha sempre fatto negli X Games, dove già nel 2014 ha vinto l’argento nell’halfpipe. Poi sono arrivati 4 ori e un argento agli X Games, prima di fare le prove generali dell’oro olimpico nei Giochi giovanili. Nel 2016 a Lillehammer la piccola Chloe che fa con la tavola evoluzioni strabilianti porta a casa due ori. Ed è anche la portabandiera della squadra USA, prima volta per un’atleta dello snowboard nella storia olimpica americana. Non male per una ragazza che diventa la regina della tavola sulla neve dopo essere nata a Long Beach ed essere cresciuta nella vicina a Torrance, California. Il papà l’ha avviata allo snowboard a 4 anni, comprando l’attrezzo su eBay e portandola a Montain High, California del Sud. E a 6 anni Chloe ha inziato a fare le prime gare nel Team Montain High. Poi a 8 anni si è trasferita in Svizzera dove è rimasta un paio d’anni per allenarsi sul serio, vivendo a casa degli zii. Perché la mamma di Chloe è svizzera e lì ha incontrato Jong Jin Kim. Indovinate un po’? Si, Jong Jin Kim, padre di Chloe è sud coreano. Emigrato negli USA nel 1982 per laurearsi in ingegneria. Finito in California ma con una passione per la neve. Immaginate che cosa ha voluto dire per la famiglia Kim poter vedere Chloe a PyeongChang. E’ diventata l’occasione per Jong Jin di ritornare in Sud Corea, per tutti di riunire una famiglia intorno ad un piccolo fenomeno. Chloe ha potuto conoscere la nonna, che ha visto in questi mesi la foto della nipote sempre sui giornali, perché i coreani hanno aspettato la sua Olimpiade come se fosse una di loro, una delle maggiori attrazioni dei Giochi coreani. In effetti è per metà una di loro. La sua vita continuerà negli Stati Uniti. Dove centinaia di migliaia di seguaci la seguono sui social, dove una decina di aziende stanno sgomitando per metterla sotto contratto e dove i magazine più importanti l’hanno già messa in copertina. A lei basta una tavola. E i 100 dollari che la mamma le dà il primo giorno di ogni mese. Rimane una ragazza californiana di 17 anni, che dopo aver fatto i suoi trick a qualche metro d’altezza, si mette il pigiama e i guarda un film sul divano. La normalità di una ragazza straordinaria.

Kim Yo-Jong 

L’altra Kim che ha fatto la storia a PyeongChang 2018. Nell’Olimpiade delle donne non poteva mancare. Non è un’atleta, non ha vinto medaglie. La sua grande impresa è stata semplicemente una stretta di mano. Kim Yo-Jong è la sorella del dittatore della Corea del Nord Kim Jong-Un. Una minaccia costante per i Giochi della Corea del Sud prima di un disgelo che ha aperto una nuova strada. Il simbolo di tutto questo è stata la stretta di mano in tribuna tra il presidente della Corea del Sud Moon Jae-In e Kim Yo-Jong, inviata dal fratello in missione diplomatica. E’ accaduto in tribuna alla cerimonia d’apertura. Forse si è trattato di un’apertura di significato più grande. Ecco un gesto olimpico destinato a rimanere.