Resterà per sempre
Le grandi imprese di Marco Pantani
Se andate su qualsiasi montagna, al passaggio del Giro o del Tour, ancora oggi troverete scritte sulla strada inneggianti al Pirata. Marco Pantani è nel mito e a 20 anni dalla morte le sue imprese restano impresse in modo indelebile. Ripercorriamo insieme alcuni dei suoi trionfi, veri e propri capolavori che lo hanno consegnato al mito, senza ordine cronologico o di importanza, un tuffo nella memoria e un'arrampicata sulle vette che lo hanno reso immortale. Perché se si pensa a salita si pensa al Pirata
1) Il gigante del Galibier (Tour 1998)
27 luglio, 15ª tappa: Grenoble - Les Deux Alpes, 189 km
Alla partenza: Jan Ullrich maglia gialla; Pantani 4° a 3’01”
All’arrivo: Pantani in giallo; Ullrich 4° a 5’56”
Trentaquattro.
Come i suoi battiti a riposo del suo cuore d’atleta.
Come il dorsale con cui, nel back-to-back Merano-Aprica, al Giro ’94, s’era rivelato al mondo.
Come gli anni di quando, poi, s’è "jamesdeanizzato", diventando così (ancor più) mito.
Come i chilometri di salita del Col du Galibier, forse – e anche senza forse – la sua impresa più grande.
Lassù avevano vinto Gino Bartali nel ’37 e Fausto Coppi nel ’52.
In qualche modo entrambi con qualcosa in comune col loro degno epigono.
Bartali a quel Tour si era presentato con poca convinzione (eufemismo).
Come il Panta veniva sì dalla fresca vittoria al Giro, ma Ginettaccio pure da una broncopolmonite. E più che il fascino dell’ignoto, avvertiva le insidie del territorio inesplorato. Sin lì nessuno aveva mai osato tanto: vincere nella stessa stagione due grandi giri, figuriamoci Giro e Tour.
Ci riuscirà Coppi, due volte: nel ’49 e nel ’52. L’anno del Galibier, la salita forse più adatta alle sue caratteristiche.
Un dominio tale, quello dell’Airone, da indurre gli organizzatori a raddoppiare il premio per il secondo posto; che a Parigi – a 28’17” dalla maglia gialla – sarà del belga Stan Ockers, l’idolo la cui tragica fine farà piangere il Merckx bambino.
Neanche il Pirata avrebbe voluto salpare per il Mar d’Irlanda, nuova frontiera da dove quell’anno – e per la tredicesima volta dall’estero – sarebbe partita la Grande Boucle.
Ormai un mastodontico Barnum itinerante dello sport-biz globale. E così malato di gigantismo da fagocitare se stesso nella sempre più affannosa caccia di spazi vergini. Purché danarosi.
Marco a quel Tour neanche voleva andarci. Il percorso non gli si addiceva, e lui non c’era con la testa prima ancora che con le gambe, girate a vuoto (o punto) nelle tre settimane di bagordi.
La conquista del Giro aveva inebriato il Pirata, e il bottino forse più ancora la sua ciurma.
Ma l’hangover era stato – per tutti, e per il Panta di più – traumatico.
All’improvviso – dal 26 giugno – Luciano Pezzi non c’era più.
E chissà come sarebbe andata se ci fosse stato almeno per un altro po’, magari fino al post-Campiglio ’99. Forse il Pirata neppure avrebbe tentato la doppietta Giro-Tour, ma magari oggi saremmo qui a celebrare – non a commemorare – “soltanto” Marco Pantani. L’erede del suo idolo di gioventù Charly Gaul.
Il più forte scalatore dell’èra moderna. Uno che vinse un Giro e subito dopo ne perse un altro già vinto.
Quel Tour del 1998 aveva però, tra le tante maledette, una particolarità salvifica.
Quell’estate il mondiale di calcio si giocava in Francia e così l’ASO, fiutandosi fra cannibali, s’era posticipata la propria fête de juillet alle ultime tre settimane del mese, slittando la passerella finale di Parigi addirittura al 2 agosto.
Questo, pur con lo scotto di certe bollenti estati transalpine, avrebbe consentito ai reduci del Giro una decina di giorni in più di scarico per anche solo pensare di poter correre, una dietro l’altra, le due maggiori corse a tappe della stagione.
Per Marco, da domenica 7 maggio, in rosa sul podio finale di Milano, al cronoprologo di Dublino dell’11 luglio al Tour: trentaquattro (!) giorni per ricominciare. A respirare. A rinascere. A vivere.
Nei 5,6 centralissimi chilometri da Grafton Street al rettilineo di O’Connell Street, il Panta chiude 122°, a 48” dallo spaziale Chris Boardman, primo a 54,194 km/h di media. Ma quel che più conta è che lui sia di nuovo lì, in sella.
Senza più Luciano in ammiraglia, ma col suo ricordo nei pensieri, la sua presenza nel cuore. Il vecchio saggio, romagnolo e maniaco della bici come lui. L’ex partigiano “Stano” che aveva corso per Alfredo Binda, contro Bartali e Coppi, con Gastone Nencini e diretto Felice Gimondi, Vittorio Adorni, Francesco Moser e… Marco Pantani.
Quel lunedì 27 luglio, neanche pare estate.
Freddo, pioggia, nebbione. Un cielo pesto da tregenda che i fari della carovana tagliano a malapena.
Il Col du Galibier fa paura sempre. Ma in quello scenario – dantesco – ancora di più.
Scendervi in corsa, anche solo imbucandosi guidando un’auto accreditata al seguito, tra due ali di folla sui costoni, è un’esperienza quasi mistica. Al limite del trascendente.
Provata di persona al Tour 2017, pur in condizioni meteo meno apocalittiche, inseguendo Chris Froome e Fabio Aru nel tappone di Serre Chevalier vinto da Primož Roglič, una roba da cuori forti. E comunque da non ripetere.
Nel ’98 il girone infernale prevede un toboga di 189 km da Grenoble a Les Deux Alpes con quattro GPM: due hors-catégorie oltre quota duemila (i 2067 metri del Col de la Croix de Fer dopo 70 km e il Galibier ai 146,5); uno di seconda (i 1566 metri del Col du Télégraphe al km 123) e il prima categoria fino ai 1644 metri dell’arrivo.
Al via della tre giorni alpina, in giallo c’è Jan Ullrich, tedesco di Rostock della tedeschissima (pure troppo) Telekom.
In classifica generale lo inseguono a 1’11” lo statunitense Bobby Julich della francese Cofidis e a 3’01” il francese Laurent Jalabert della spagnola/tedesca ONCE-Deutsche Bank e Pantani della Mercatone Uno-Bianchi.
Il Galibier, con i suoi 2645 metri di altitudine il Souvenir Henri-Desgrange (la “Cima Coppi” di quel Tour), è a 42 chilometri dal traguardo.
A poco più di cinque chilometri dalla vetta, l’aedo Adriano De Zan, attualizza il suo mantra.
Il suo mitologico «scatttaaa Pan-tttaaa-ni» diventa «parttteee Pan-tttaaa-ni» sul primo affondo del Pirata, cui risponde Luc Leblanc dell’italiana Polti ma non la maglia gialla Ullrich né Julich, e tantomeno l’altro francese Jalabert, già staccato.
Pantani si volta e, nel vedere Leblanc che abbozza una reazione, sembra come rialzarsi. Sta bluffando.
Poi, nel tratto più duro, seconda rasoiata: «Riparrr-ttteee Pan-tttaaa-ni». E lì salta anche Leblanc.
Pantani s’invola. In due chilometri gli rifila quaranta secondi.
Riprende via via i fuggitivi, la maglia a pois Rodolfo Massi (il suo Tour finirà ad Albertville, fermato in gendarmeria e poi rilasciato), Marcos Antonio Serrano e Fernando Escartín della Kelme, per penultimo il francese Christophe Rinero, lanciato come testa di ponte per il suo capitano Julich, e che cerca invano di restare a ruota.
Poi toccherà a José Maria Jiménez, il suo altrettanto “maledetto” alter ego spagnolo della Banesto.
Più dietro, a 1’13”, Ullrich è intruppato con Julich, Jean-Cyril Robin, Giuseppe Di Grande e Michael Boogerd, che si era già spento sulle prime rampe del Galibier.
Nel mezzo il Panta manda a quel paese un “tifoso” che a piedi gli corre accanto ma pericolosamente troppo vicino.
A un chilometro dalla vetta ha ormai due minuti e mezzo dalla maglia gialla. E una volta in cima, con 2’56” sul tedesco, ancora 42 chilometri per recuperare i cinque secondi che gli mancano per sfilargliela. Almeno virtualmente.
Ma oltre al bluff di quel primo scattino c’è un’altra (duplice) magata in arrivo. La piazza, lassù in cima, il suo terzo diesse Orlando Maini, che tutto imbacuccato lo aspetta per passargli una borraccia e soprattutto una mantellina.
Errore esiziale, quello di fiondarsi giù senza coprirsi e idratarsi, che Ullrich commetterà e il Pirata no.
Brividi, e non solo di freddo, quando, subito dopo aver scollinato, l’operatore in moto inquadra Pantani con un piede e a terra e dietro di lui l’ammiraglia. Si temono l’ennesima caduta, il millesimo incidente, invece – per una volta – è solo saggia prudenza: non riusciva a infilarsi la manica sinistra. Un meccanico in maglietta scende e lo aiuta.
Al Panta basta averla, senza neanche chiudersela la mantellina, perché Jiménez gli ha rimontato i dieci secondi di svantaggio e ora i due scendono – meglio: picchiano – assieme.
Ai piedi della salita che in nove chilometri porta al traguardo il suo gruppetto di testa (Escartín, Rinero e Massi) ha 3’59” su quello di Ullrich, che è già in crisi non solo di fame.
E, al solito, senza più la guida dei suoi due Peter, Seger prima e Becker poi, come tanti ex DDR, è perso: non sa cosa fare. In corsa e fuori.
Pantani è quindi maglia gialla virtuale.
Il suo personalissimo Tour in teoria l’aveva già salvato vincendo, pur senza convincere appieno, cinque giorni prima sui Pirenei, a Plateau de Beille, recuperando 1’33” su Julich e 1’40” su Ullrich.
Poi entrambi con lui, ma in ordine invertito e staccatissimi, sul podio finale di Parigi: Jan a 3’21”, Bobby a 4’08”.
A Les Deux Alpes però è altro: for the ages. Per i posteri.
Sul traguardo il Panta – mantellina tolta, manicotti neri calati sui polsi, occhiali in testa sopra la bandana– socchiude per un attimo gli occhi e allarga – più che alza – le braccia al cielo pesto da tregenda.
Vuole guadagnare più secondi possibile, non esulta, ma “sente”: il momento, l’impresa, la storia.
È un’immagine diversa dal cristo in rosa quasi trasfigurato del 4 giugno a Montecampione, meno tormentata.
Là c’era un come senso di sofferta, dolorosa liberazione. Qui più di consapevolezza, di consacrazione, quasi di affrancamento, di astrazione dalle umane cose, dal tanto patire.
Capisce che – trentatré anni dopo Gimondi, ora suo padre putativo alla Bianchi – può puntare al bersaglio grosso.
E sarà proprio “Felicione” ad alzargli il braccio, come l’arbitro col pugile vittorioso, nel trionfo sugli Champs-Elysées.
Ullrich, scortato dal suo ex capitano Bjarne Riis e da Udo Bolts, arriva 25º a 8’57”. E nella generale precipita quarto a 5’56”, scavallato da Julich a 3’53” e da Escartín a 4’14”.
E anche se nella crono di 52 km a Le Creusot (piovosissima pure quella) il penultimo giorno sarà super favorito il tedesco, il Panta – sulla carta – ha dalla sua ancora due tappe alpine consecutive: Albertville con La Madeleine e, pur meno dura, di Aix-les-Bains. Quest’ultima però poi neutralizzata per lo “sciopero” dei corridori contro il trattamento intimidatorio e irrispettoso usato dalla Gendarmerie di Albertville nella perquisizione notturna in albergo dove pernottava la TVM.
«Noi siamo atleti: non mi va che ci trattino come delinquenti. Se il gruppo decide di proseguire io ci sto; se si decide per lo sciopero, mi fermo anch’io», dichiara il Pirata, leader dei big che il patron Jean-Marie Leblanc implorava di ripartire.
Lo stesso Leblanc che nel 2003 gli rifiuterà la wild card con cui, chissà, Marco magari avrebbe potuto salvarsi.
In quella 17ª tappa si ritireranno per protesta cinque squadre: ONCE, Banesto, Riso Scotti, Vitalicios Seguros e Kelme. La TVM lo farà alla 19ª. A Parigi, dei 189 partiti, arriveranno in 96.
Nato moribondo con l’arresto di Willy Voet, il massaggiatore della Festina, alla frontiera franco-belga l’8 luglio, a tre giorni dalla Grand Départ, mai il Tour era stato a tanto così dal chiudere bottega.
Pantani, che con quell’impresa aveva ipotecato, ma non ancora vinto il Tour, aveva in realtà fatto molto di più.
Non solo lo aveva salvato, ne aveva scritto – à la Matheson – la Storia: io sono leggenda.
«C’EST UN GÉANT» titolò l’indomani, in maiuscolo a tutta prima pagina, L’Équipe. È un gigante.
Sul Galibier. Come Bartali. Come Coppi
2) Il "Cristo rosa" di Montecampione (Giro 1998)
4 giugno, 19ª tappa: Cavalese – Plan di Montecampione, 243 km
Alla partenza: Pantani in rosa; Tonkov 2° a 27”; 3° Guerini a 1’47”, 4° Zülle a 2’08”
All’arrivo: Pantani in rosa; Tonkov 2° a 1’28”; 3° Guerini a 5’11”
Un cristo alato di sei metri. Un sesto del Corcovado, e più redento che Redentor.
Campeggia dal 26 giugno 2021 a Plan di Montecampione, col Col du Galibier forse l’altro apogeo nell’epica – magica e tragica – di Marco Pantani.
Il suo arrivo in rosa a occhi semichiusi, la testa reclinata all’indietro, tra il tormento e l’estasi michelangioleschi, braccia larghe come a voler accogliere e perdonarsi il mondo di sofferenze patite: è l’immagine più iconica del fragile, effimero eppure eterno volo terreno del Pirata.
Qualcosa di vagamente simile – nello sport recente, e pur senza quell’afflato di pietās – s’è rivisto forse solo nella trasfigurazione di Wayne Rooney subito dopo la sua immortale rovesciata del 2-1 nel derby mancuniano del 12 febbraio 2011. E ovvio Goal of the Year di quella Premier League.
Quanto al Giro ’98, non è là che il Panta lo vince. Ma è là che Marcopantani – così, tutto attaccato, come il Paolorossi mundial e un tutt’uno, inscindibile, con la sua bicicletta – diventa altro. Entra nel mito. Si fa monumento.
A Montecampione come sul Mortirolo o sul Fauniera, in piazza a Cesenatico e a Serramazzoni, il Cippo a Carpegna o il Biglione sull’autostrada a Imola. Per Panta, per sempre.
E dire che il percorso quell’anno, come troppo spesso al Giro, non si addice agli italiani più forti al momento.
Hai il più grande scalatore dei tempi moderni che incolla alla tv 4,5 milioni di persone (il 51% di share) dopopranzo in un giorno feriale? E pure discesista folle che può duellare in punta di sella – o a uovo – col vincitore uscente che, sì, mai sarà un fuoriclasse ma s’arrampica come uno stambecco?
E cosa fai, invece di salite à gogo, piazzi due cronometro da 40 e 34 chilometri come per il signore e padrone Miguelón Indurain; o, prima ancora, i francesi coi Tour su misura per Jeff Bernard (che poi, da mero specialista, per di più inviso al gruppo, mai li avrebbe vinti)?
Ovvio allora che, più che il paperino Pantani o l’antipersonaggio Ivan Gotti, alla vigilia risultino (più) favoriti il russo Pavel Tonkov, un bel tenebroso regolarista forte dappertutto che il Giro l’ha vinto nel 1996; e l’astro nascente Alex Zülle, un orologio svizzero (pure di passaporto) contro il tempo, e fresco di vittoria alla Vuelta a España il settembre precedente.
E infatti, pronti-via e il capitano della Festina (già chiacchierata, ma il bubbone non scoppierà che due mesi dopo, in Francia) sin dal cronoprologo di Nizza si prende la rosa, e a 53,053 km/h in 7 km rifila 23” a Gianni Bugno e Tonkov, 39” a Pantani e 49” a Gotti. Neanche partiti e già distacchi quasi da tapponi alpini.
La corsa – per dirla con l’immenso “Gabo”, che raccontando il ciclismo aveva iniziato – sembra Cronaca di una morte annunciata, invece per Zülle e Gotti sarà La mala ora; per Tonkov, ex colonnello dell’Armata Rossa, Il generale nel labirinto; e per Pantani Ci vediamo ad agosto, il mese in cui sarà il primo italiano, 46 anni dopo Fausto Coppi, a vincere Giro-Tour nella stessa stagione. E, sin qui, l’ultimo tout court a riuscirci.
La gara “vera”, al solito, s’accende nella terza settimana. Sin lì non che si sia sia scherzato, ma quasi.
Michele Bartoli, talento cristallino da campagna del Nord (Fiandre, Amstel, due Liegi e altrettante Coppe del mondo in carriera) la corsa sin lì l’ha colorata; persino di rosa, seppure per un giorno, a Frascati alla quinta. Ma è Zülle che l’ha controllata, facendo con la maglia come in Per Elisa di Alice: ti lascia e ti riprende come e quando vuole… lui.
Un giochino rischioso che in tempi recenti non ha portato fortuna a Remco Evenepoel e che a Primož Roglič stava per costare, contro Geraint Thomas, il Giro 2023.
Zülle l’aveva persa a Imperia, nella seconda frazione in linea, se l’era rimessa vincendo a Lago Laceno e a Carpi l’aveva lasciata al carneade francese Laurent Roux, vincitore di giornata.
Anche lui per un giorno, perché l’indomani a Schio – tappa #13 al Bartoli furioso – la vestirà Andrea Noè, compagno dello stesso Bartoli nella Asics. E lo stesso “Brontolo”, reduce dal successo di San Marino all’11ª, la sua prima vittoria da pro’, l’avrebbe poi subito “restituita” a Zülle.
Il 30 maggio nell’inedita Piancavallo, montagna vera (14,5 km al 7,8% di pendenza media e 14% di massima), e vigilia della crono di Trieste, ecco il primo abbordaggio del Pirata.
Il giorno prima, sotto la pioggia, era caduto due volte (nella picchiata dal Passo Zovo, nel fosso con Zülle e Tonkov, avanti, aveva rischiato grosso). Così, giusto per rinnovare l’abbonamento annuale con la jella.
Saldato il conto con sole escoriazioni («Cose che succedono. Fanno parte del mestiere. Basta non farsi male»), il Panta mette i suoi a tirare. E sul tratto più duro, ai -7 km dai 1290 metri della vetta, piazza l’attacco che più annunciato non si può. Epperò irresistibile. Gli risponde solo Tonkov, che al traguardo – secondo a 13” con Zülle – non gli risparmierà critiche: «Se mi avesse aspettato, su Zülle ne avremmo guadagnati quarantacinque».
«Sono andato oltre le mie possibilità, qui è cominciata la mia corsa vera e Zülle deve avere paura», risponde indiretto Marco, che sembra però urlare – da buon romagnolo, non nel bosco ma nella pineta – come a scacciare i fantasmi di dover pagare, già l’indomani, cotanto sforzo. Per di più contro il mai amato orologio.
Lo svizzero invece, poi incollatosi alla ruota di Tonkov, s’era ripreso il primato: ora con 22” su Pantani e 40” sul russo.
Intanto era però saltato Gotti, scortato da Paolo Savoldelli, allora suo gregario nella Saeco, a 5’01”.
In difficoltà già verso Schio il vincitore uscente, che ammetterà di non aver mai sofferto così in salita, è fuori dei giochi. Due giorni dopo, e altri 6’ persi ad Asiago, finirà fuori tempo massimo anche per via di un virus gastrointestinale.
I danni che Zülle ha limitato in montagna li rifila a tutti, e con gli interessi, a crono: a Trieste vola ancora oltre i 53 km orari, ma per 40 km e a una media persino superiore a quella tenuta nei 7 km di prologo a Nizza: 53,771 contro i 53,053.
Un marziano rosa.
Con una macchiolina di giallo: in un primo momento i cronometristi avevano indicato vincitore l’ucraino Serhiy Hončar per 7”. Solo che Zülle, al via per ultimo in quanto leader, come gli altri big era partito tre e non due minuti dopo il corridore che lo precedeva nella starting list.
Ristabilita la verità di Padre Tempo, Alex – mulinando un allora futuristico, quasi gannesco 55x11 – vince con 53” su Hončar e 1’22” su Tonkov. Nella generale lo svizzero adesso comanda con 2’02” sul russo e 3’48” su Pantani, che aveva chiuso 24° a 3’26 e ingoiato – su strada – l’onta del sorpasso.
Per quanto prevista, è quella la vera istantanea della crono e, tutto fa pensare, del Giro: il gigante rosa che alla velocità della luce divora il pollicino verde (leader del GPM).
Impietosa la tabella dei distacchi virtuali in metri: 1224,78 in 82” su Tonkov, 3076,90 in 206” su Pantani.
All’arrivo trova a festeggiarlo mamma Will e papà Walter, e lui ancora incredulo («Pensavo di fare i 52») ammette di non essere mai andato così forte.
Il 2 giugno la Asiago-Selva di Val Gardena di 215 km apre il trittico alpino e prevede Passo Duran, Forcella Staulanza, Fedaia/Marmolada e Selva (dal versante di Val di Fassa/Canazei), con i suoi 2218 metri la Cima Coppi di quella edizione.
Al via Zülle guida con 2’02” su Tonkov, 3’29” sulla sorpresa Bettini, 3’48” su Pantani e 4’21” su Guerini.
La 17ª, tappa s’infiamma sul Fedaia. Tonkov scatta, Pantani e poi Guerini rispondono sul tratto più duro.
Per il Panta è la prima volta sulla Marmolada. Gli mancano i riferimenti e allora chiede in dialetto lumi al sodale prima che gregario e conterraneo Roberto Conti, una pasta di corridore che ha un sorriso per tutti. E per gli amici di più.
Il capitano s’è raccomandato di avvertirlo quando sarà il momento giusto per scattare.
«Dopo le gallerie, ma te lo dico io», gli risponde il faentino. Mica l’ultimo del plotone: maglia bianca ’87, due top ten al Tour e una al Giro, primo sull’Alpe d’Huez ’94 e propheta in patria nel Romagna ’99.
Sono però tempi ancora un po’ così. Conti, e come lui in ammiraglia, non sa però che il percorso è stato cambiato proprio per evitarle, le gallerie. E così il Panta, magari tra un «burdèl» e l’altro, nel vedere che Zülle annaspa, domanda a Roberto: «Alùra, ma quando arriva ’sta Marmolada?».
E quello, di rimando: «Ci siamo già sulla Marmolada…».
È il segnale. Difficile stabilire se parte prima il Panta o il pur amichevole vaffa.
Zülle sulla Marmolada («la più dura in vita mia») salta, perde in un amen 42” cui sul GPM s’aggiunge un minuto e all’arrivo precipiterà a 4’37”. Tonkov invece resiste e chiuderà a 2’04”.
Mancano ancora 35 km e Pantani tra i due ultimi GPM trova un alleato leale in Guerini. E insieme vanno a prendere il colombiano José Jaime “Chepe” González.
I distacchi di 55” su Tonkov e di 1’48” su Zülle della Marmolada, sul Sella schizzano a 2’05” e 4’36”.
Lo spartito è già scritto, a “Turbo” (una sua passione giovanile, le turbine) la tappa, al Pirata la prima rosa in carriera.
«Pantani e io abbiamo interessi comuni – calcola Beppe, ora terzo a 31” – e chissà che non saremo noi a giocarci il Giro nella crono». Intanto con quel ritmo forsennato ne hanno mandati a casa 39, tra i fuori tempo massimo (a oltre 38’) Bartoli, Martinello e Cipollini, Guidi e Fontanelli, altro gregario romagnolo di Pantani e vincitore il giorno prima ad Asiago.
Il Panta ha fatto un numero, che però non ha avuto il clamore che meritava. Un po’ per la non-vittoria, e molto perché Tonkov è comunque lì, piazzato a 30”; e alla penultima sia il russo sia lo svizzero sono favoriti nella crono di Lugano.
Prima però ci sono i 115 km da Selva all’Alpe di Pampeago. E, soprattutto, i 243 da Cavalese a Plan di Montecampione con un ottovolante fatto di Fai della Paganella, Goletto di Cadino da Bagolino/Crocedomini (a 1938 e 1890 i due scollinamenti) prima dei 19,2 km al 7,9% medio (e un centinaio di metri al 13,2% di massima) che portano ai 1732 metri di quota del traguardo.
Salendo a Pampeago, Zülle ci prova ma è solo 4° a 58” al traguardo e a 2’08” in classifica.
Pantani paga l’exploit di Selva e non stacca Tonkov, che anzi si piglia la tappa con un secondo sull’italiano e 58” sullo svizzero. Guerini, quinto a 1’07” e terzo nella generale a 1’47”, se la prende col chilometraggio ridotto («troppo corto per le mie caratteristiche»). Ma il vero pericolo è il russo, che ora alita sul colletto rosa del Panta a 27”.
Plan di Montecampione sarà il redde rationem.
Sul Crocedomini, nomen omen, Zülle protetto dai suoi Festina, non regge l’andatura imposta dalla Mercatone Uno per Pantani e dalla Mapei per Tonkov. Lo svizzero stavolta salta sul serio: chiuderà a 30’04”. Roba da «musica da ballo» di Nicolò Carosio per Coppi uomo solo al comando alla Sanremo ’46.
Ai meno 2800 metri, il Panta attacca nel delirio della folla.
Tonkov – che da dieci chilometri non beve, e quando un tifoso gli passa dell’acqua Pavel se la versa in testa – cede di schianto. Più che il duello rusticano di Pampeago, qui è un assolo. Un crescendo rossiniano: ai -1500 metri Marco ha 26” di vantaggio, 42” ai -1000, 50” ai -500 e 57” al traguardo. Dopo 7h 42’ 52” di corsa.
Come il mese dopo sul Galibier al Tour, ma qui col sole e in rosa, non esulta. Si trasfigura. Un attimo, una vita.
«Mi sono detto: ultima occasione, o salta lui o salto io. Ho raccolto tutte le mie forze e sono andato via».
Abbuoni compresi (12” al primo, 8” al piazzato), Tonkov ora è secondo a 1’28”. Tra l’interlocutoria Boario Terme-Mendrisio e la passerella finale di Milano, mancano ancora i 34 km a crono di Lugano.
Marco dentro di sé sa d’averlo finalmente vinto, quel Giro inseguito da una vita. E si sa che quella maglia addosso fa miracoli: il Panta è addirittura terzo a 30”, Tonkov quinto a 35”. La crono la vince Hončar, e senza giallo.
Beppe Martinelli, commosso, che il suo pupillo quel Giro non lo potesse perdere l’aveva capito già «dopo la prima curva, era troppo bello in bicicletta».
Sul podio finale con Pantani in rosa salgono Tonkov a 1’33” e Guerini a 6’51”. Ma se è a Lugano contro il tempo, stupendo persino se stesso, che di fatto ha vinto il Giro, è a Montecampione che il Panta ha compiuto il suo autentico capolavoro. E rapito il cuore della gente.
Ecco perché è lì, nel Bresciano, che lo scultore Matteo Trotta, vicentino d’adozione trapiantato nel borgo di Brenno, in Val Camonica, ha posto la sua opera. Base e bici e sagoma del Panta in lamiere di acciaio corten ancorate a travi anch’esse in acciaio su un plinto in cemento interrato. A imperitura memoria.
È il Corcovado di chi ha nel cuore il Pirata e le fragilità sue e di tutti noi. Il nostro umanissimo Redentor.
3) L’Urlo sull’Alpe
(Tour 1995 e 1997)
1997
Sabato 19 luglio, 13ª tappa: Saint-Étienne – L’Alpe d’Huez, 203,5 km
Alla partenza: Ullrich in giallo; Pantani 5° a 9’11”;
All’arrivo: Ullrich in giallo; Pantani 5° a 8’24”.
lunedì 21 luglio, 15ª tappa: Courchevel – Morzine 208,5 km
1995
12 luglio, 10ª tappa: Aime-la-Plagne – L’Alpe d’Huez, 162,5 km
16 luglio, 14ª tappa: Saint-Orens-de-Gameville – Guzet-Neige, 164 km
L’Urlo.
Nell’arte Edvard Munch, nella letteratura Allen Ginsberg, nel calcio Marco Tardelli.
Il suo, sull’Alpe, è però diverso.
Vittorioso e liberatorio sì, ma più la rabbia e l’orgoglio che un inno alla gioia.
A metà tra il furore iconoclasta del Maradona invasato a USA ’94 – occhi spiritati in camera dopo il suo 3-0 alla Grecia – e la tormentata estasi dell’altro Marco, l’azzurro-mundial di Madrid ’82.
E liberato non a braccia levate ma a pugni alzati, che è «altro». Una storia diversa. Una seconda vita.
L’angoscia esistenziale e l’agonia mentre il mondo attorno si deforma – il disperato, alienato Skirk del “folle” norvegese – sarebbero piombate sì, con la loro «torrida tristezza» ma due anni dopo.
A Campiglio ’99, sopra il giorno di dolore che uno ha.
Quello sull’Alpe d’Huez ’97, da lui domata per primo al Tour per la seconda volta in due anni, è più Urlando contro il cielo. Un lacerante grido di protesta – come The Owl, dedicato al poeta beat Carl Solomon, lui sì internato – di cui non si ha, ancora, piena contezza. Nessuno può averne. I demoni, quando li senti o vedi arrivare, è già troppo tardi.
L’Alpe. La chiamano “la montagna degli olandesi”, perché sono quelli che l’hanno conquistata più volte (otto contro le nostre sette), e pazienza se non ci sono più riusciti da Gert-Jan Theunisse ’89 (e noi da Beppe Guerini ’99). Ma anche perché da giorni prima la affollano e colorano di oranje, e la inondano – pure troppo – di birra. E purtroppo, in quest’epoca di sempre più deleteria calcistizzazione del tifo anche ciclistico, l’asfissiano di fumogeni e la invadono di mitomani.
Per referenze visionare le lastre alle vertebre di Vincenzo Nibali, che dal 2018 – tirato giù con una bretella da un improvvisato fotografo – non è stato più il miglior lui. Quell’incidente, prima ancora della clavicola rotta nell’umida discesa a Rio, gli costerà, se non vogliamo dire l’oro del belga Greg Van Avermaet, un podio olimpico ormai sicuro.
Da allora, fumogeni vietati durante il passaggio della corsa. Al Tour, a fatica ma l’han capito. Alla Sanremo, sin dal 2016 specie su Berta e Poggio, ancora no. O se sì, mai abbastanza: nel 2019 i primi cinque daspo con divieto di accesso per un anno a manifestazioni ciclistiche. Per gente così, meglio mai che tardi.
La 13ª tappa, sabato 19 luglio, parte da Saint-Étienne con Jan Ullrich, che quel Tour lo dominerà, in maglia gialla.
L’ha sfilata, con un’autorità soggiogante, al francese Cedric Vasseur, con la sua impresa più maestosa: stravincendo il tappone pirenaico Luchon-Andorra/Arcalís alla decima, il 15 luglio.
E poi se l’è cucita addosso con un’impressionante dimostrazione di potenza – à la Indurain – nella crono di 55 km molto duri di Saint-Étienne, coperti a 43,100 km/h di media.
«Il problema non è stabilire se vincerà questo Tour, ma quanti Tour vincerà» aveva profetizzato – con poca fortuna – il leggendario Bernard Hinault, all’epoca ambasciatore della Grande Boucle vinta in carriera per cinque volte come solo Anquetil e Indurain.
Tutto però allora faceva pensare che le Blaireau avesse ragione da vendere.
Al via, quattro giorni dopo, il tedesco della Telekom comanda con 5’42” sul francese in maglia a pois Richard Virenque, 8’00” sullo spagnolo ex iridato Abraham Olano e 8’01” sul danese Bjarne Riis, vincitore uscente e ormai ex capitano del suo fu gregario Ullrich.
Marco Pantani è quinto a 9’11”. Ma su quei 21 tornanti ha già trionfato due anni prima, e culla sogni di bis.
È in crescendo di condizione. Alla nona, la Pau-Loudenville, ha fatto terzo arrivando con i big Virenque e Ullrich a 13” dal vincitore Laurent Brochard, che di lì a tre mesi, il 12 ottobre a San Sebastián, diventerà uno dei campioni del mondo più improbabili (e dimenticabili) della storia.
E nella crono, duretta assai, non solo ha tenuto chiudendo a “soli” 3’42” dal leader Ullrich, ma sui 14 km di salita ha fatto segnare il miglior tempo. Grazie al saggio cambio-bici e usando, una volta tanto, il cardiofrequenzimetro, è riuscito anche a gestirsi, per non andare troppo fuori giri, proprio in vista del tappone dell’Alpe. Il suo territorio di caccia.
Lassù, debuttante al Tour nel 1994 nella tappa vinta dal suo futuro gregario Roberto Conti, aveva scalato i 13,8 km (al 7,9% di pendenza media) a tempo di record: 38’00”.
Tempo di appena 4” superiore quello con cui, l’anno dopo, aveva trionfato lasciando a 1’24” la maglia gialla Miguel Indurain, prossimo a conquistare il suo quinto e ultimo Tour consecutivo, e a 1’26” Alex Zülle e Bjarne Riis.
«Non ho risposto a Pantani perché ho capito subito che l’avrei pagata cara – ammise al traguardo il navarro – I suoi scatti fanno male e a me interessava mettere in difficoltà Zülle e Riis, anche se è sempre un rischio concedere troppo spazio a uno scalatore forte come Marco». Parafrasando un suo connazionale, ex portiere del Juvenil B merengue piuttosto intonato: non sono un Pirata, sono un signore.
Nel ’97, che il Panta fosse pronto all’assalto-bis, se n’era accorto – già a Perpignan, il mercoledì, 11ª frazione – pure Jean-Marie Leblanc. «Che bel regalo per il ciclismo ritrovare un Pantani così – aveva vaticinato il patron dell’ASO – Pensate all’arrivo dell’Alpe d’Huez: sembra fatto apposta per lui». A differenza del Tasso, sarà buon profeta.
Fino all’ascesa finale la tappa non è durissima, è solo che è lunga oltre duecento km e corsa tutta ventre a terra.
Pantani mette la sua Mercatone Uno a tirare sin dal via, e ai piedi della salita – dopo un chilometro e due tornanti – è già in testa. E con un forcing dei suoi, non la molla più.
Venti metri seduto, e poi en danseuse a rilanciare l’azione.
Ventun modi di dirti ti odio. Uno per ogni tornante, a decrescere, ciascuno intitolato a uno o più vincitori.
Qualcuno, come gli olandesi Joop Zoetemelk, Hennie Kuiper e Peter Winnen, e i nostri Bugno (#7 e #6) e Pantani (#3 e #2), ne ha due perché han fatto doppietta. “De Gentleman” Kuiper, il Gianni e il Panta addirittura in back-to-back. E una volta completato il giro, si ricomincia da 21.
Il “Pantadattilo” (cfr. Gianni Mura) vola a 23,08 km/h di media e chiude in 37’35”, 25” in meno del suo primato del ’94. E all’arrivo libera tutto quel vulcano di emozioni che gli ardeva dentro. L’Urlo, appunto.
I suoi tifosi, impazziti, stappano bottiglie non necessariamente di Sangiovese e intonano “Romagna mia”. Il quadrangolare del tifo – coi francesi per Virenque, i rumorosi, simpaticissimi rooligans danesi (che abbiamo imparato a conoscere nel loro vittorioso Euro ’92) per Riis e gli olandesi… per la “propria” montagna – lo stravincono loro. Il popolo del “Magico Pantani”, il club fondato al “Caffè dei Pini” di Cesenatico da Vittorio Savini, il suo primo diesse, alla Fausto Coppi.
È una vittoria diversa da quella di due anni prima, speciale. Perché in quei due anni erano successe tante, troppe cose.
Investito da un’auto il 1° maggio, aveva dovuto saltare il Giro ’95, ma poi al Tour s’era ripreso. E il ciclismo aveva ritrovato il campione che la voce di Adriano De Zan, in telecronaca, aveva quasi accompagnato sin sul traguardo:
«Marco Pantani che può alzare il braccio. Vince. Sembra quasi che discuta con se stesso. Sembra quasi che parli con se stesso per spiegarsi. Per raccontarsi questa splendida vittoria».
Ne descriveva, De Zan, l’esultanza composta, quasi schiva: il braccio destro alzato, un battito di mani come a scacciar via nella testa quel ronzio di un mese da incubo. «Una volta da solo – disse al traguardo – ho cercato l’impresa. Non sono ancora il miglior Pantani, più delle gambe mi ha aiutato la grinta. Ma non avrei mai mollato».
E pensare che già a Liegi, alla settima, quattro giorni prima, provato dal dolore che dal ginocchio si estendeva a tutta la gamba, aveva detto: «Stasera vado a casa». Era, quel dolore tanto persistente, un retaggio della caduta di due giorni prima, nella tappone di 261 km fino a Dunkerque. Poi il gran lavoro dell’osteopata belga Alain Piron – suggerito da un agente in Belgio della Carrera, impermeabile nel tenere il tutto nascosto alla carovana – aveva compiuto il miracolo non di rimetterlo in sella, e di farlo in modo così competitivo.
Sistemato in una seduta di un’ora e mezza il «problema biomeccanico», che non dipendeva dal ginocchio ma da un lieve spostamento del bacino, figlio dell’incidente del 1° maggio, il giorno di riposo aveva fatto il resto.
Quella del ’97 è una vittoria a sé. Un’altra cosa, non per forza “migliore” ma comunque diversa. Anche nei registri, narrativo e linguistico, scelti dallo storico telecronista RAI nel raccontarne l’arrivo:
«Il Pirata ha colpito. A due anni di distanza dalla sua ultima vittoria, il Tour de France ci ripropone un grande, un grandissimo Pantani. Oltre al gesto atletico, bisogna applaudire a Pantani, soprattutto, il fatto umano: a livello morale, questo ragazzo che ha avuto tanta, tanta sfortuna, oggi, finalmente, può alzare nuovamente le braccia al cielo. Un gesto proprio, quasi, un pugno sul manubrio. Non ha voluto alzare le braccia. Ha sferrato (in realtà gli scappa “scagliato”, ndr) un pugno contro la sfortuna. (…) E l’urlo, l’urlo di liberazione di Pantani».
Non che in classifica fosse cambiato granché, perché Ullrich – secondo a 47” – in giallo era e tale era rimasto, e così Pantani quinto, anche se non più a 9’11” bensì a 8’24”. E la maglia a pois Virenque, terzo al traguardo a 1’27” e secondo nella generale a 6’22” dal leader – restava comunque lontano e difficile da scalzare sul podio finale.
La notizia però è che il Panta era tornato: non solo a vincere, ma più ancora a divertire e divertirsi, a regalare spettacolo.
«Vado avanti senza vedere la strada – aveva raccontato, novello Mosé sul mar arancione, a Pietro Cabras, inviato del Corriere dello Sport-Stadio – È il pubblico che guida, ti avvicini alla gente che piano piano si sposta, ti lascia passare, ti indica la traiettoria. Nel 1995 ho fatto l’intera scalata senza guardare l’asfalto, davanti vedevo solo la gente che urlava, migliaia di persone, andavo alla cieca in quel mare che si spalancava davanti a me».
Ci sono però ulteriori analogie tra quei suoi due Tour di resurrezione.
Ai trionfi sull’Alpe seguirono altrettante vittorie spesso sottovalutate: il 16 luglio 1995, 14ª tappa: la Saint-Orens-de-Gameville – Guzet-Neige di 164 km; il 21 luglio 1997, 15ª tappa, la Courchevel-Morzine di 208,5 km.
Una cavalcata imperiosa nata in risposta a un attacco di Tony Rominger sulla salita del Port de Lers, a oltre trenta km dall’arrivo. Anche lì, l’avrebbero rivisto sul palco premiazioni. Come a Merano e all’Aprica al Giro ’94, a Flumserberg al Giro di Svizzera e, due volte, al Tour ’95: un uomo solo al comando.
Meteo a parte (là sole a picco, qua grigio da tregenda), tutto o quasi come a Guzet-Neige ’88: un altro Carrera primo al traguardo (Massimo Ghirotto) e uno spagnolo (Pedro Delgado) in giallo. Stavolta senza lo scozzese Millar, seguito dal compianto francese Philippe Bouvatier, a sbagliare curva – dopo cento km di fuga – a pochi metri dal traguardo.
Dietro, a 2’31” il francese Laurent Madouas, a 2’33” la maglia gialla Indurain e Zülle, a 2’35” Gotti e a 3’24” Riis, gli altri big suoi rivali per un podio che il Panta – a differenza della maglia bianca – in quell’anno non bisserà. A Parigi sarà 13° a 26’20”, ma il ragazzo si farà.
L’investitura, nel fitto nebbione di Guzet-Neige, gli era arrivata nientemeno che da re Miguelón, che quel 16 luglio festeggiava il 31° compleanno: «Ha 25 anni, io ho cominciato a vincere il Tour a 27. Dovrà migliorare a cronometro e attrezzarsi con una grande squadra, ma il tempo non gli manca. È davvero forte».
Il gran navarro, capito l’andazzo (in gruppo e fuori), tempo un anno e saluterà.
«Marco Pantani si è dimostrato sulle Alpi e sui Pirenei – aveva cercato di contenersi De Zan vedendolo sbucare all’arrivo – l’uomo nuovo, il grande protagonista del ciclismo mondiale. Marco Pantani verso il secondo trionfo. Marco Pantani verso il podio di Parigi. (…) Marco Pantani che ora ha un gesto di stizza, quasi: ho vinto, ho vinto».
Due giorni dopo, giù dal Portet d’Aspet nella Saint-Girons – Cauterets, la tragica fine di Fabio Casartelli.
Al Tour ’97, abdicato il sovrano Indurain, è un altro regno. E un altro Pantani. Ma, come prima dell’Alpe, di nuovo non al meglio. Lo notte che precede il tappone di Morzine – 208,6 km con sei GPM tra cui Forclaz, Croix de Fer, Colombière e il terribile Joux Plane (10 km al 10% fino a quota 1700: nel 2017 memorabile la cotta di Fabio Aru) – tracheite e tosse non lo fanno dormire, e con lui il povero (e pur sano) Marcello Siboni suo compagno di camera.
Un altro gregario, Roberto Conti, già dalla sera aveva insistito col Panta per farlo ripartire. La mattina dopo, lo storico massaggiatore Roberto Pregnolato e il diesse Beppe Martinelli (al Tour ci si ritira solo da morti, il sunto) rifiniscono il lavorio di convincimento.
Salite facendo, come per incanto, il Pirata ritrova gamba e colpo di pedale. E in picchiata verso Morzine, affrontando le curve in discesa «meglio di Max Biaggi», trionfa con 1’17” su Virenque e Ullrich.
Gli stessi, ma in ordine inverso, che lo precedono nella generale: il tedesco in giallo, il francese a pois a 6’22”, l’italiano a 10’13”. Identico podio poi a Parigi ma con distacchi schizzati a 9’09” per Virenque e a 14’03” per Pantani.
Sugli Champs-Élysées, volata vincente di Nicola Minali. La seconda per lui dopo Le Puy du Fou alla quarta. Settima vittoria italiana nella stessa edizione come nel 1952, la prima volta dell’Alpe al Tour (vinse Coppi, noblesse oblige): doppietta filata di Cipollini la prima settimana e, a Digione, Mario Traversoni, compagno del Pirata, per squalifica degli scorretti Bart Voskamp e Jens Heppner.
«L’anno prossimo tornerò per vincere», dirà sul palco. Sarà di parola. Ma tutto era ricominciato lassù, sull’Alpe: da quel primo volo dell’Airone all’Urlo feroce del Pirata, la montagna – anche – degli italiani.
I 49 di Oropa (Giro 1999)
Domenica 30 maggio, 15ª tappa: Racconigi-Oropa, 143 km
Alla partenza: Pantani in rosa; Paolo Savoldelli 2° a 53”; Ivan Gotti 3° a 1’21”; Laurent Jalabert 5° a 1’45”;
All’arrivo: Pantani in rosa; Savoldelli 2° a 1’54”; Jalabert 3° a 2’10”; Gotti 4° a 2’11”ver media
«Io pensavo di andar forte, ma è sbucato Marco
e se non mi fossi spostato mi sarebbe passato sopra»
– Laurent Jalabert
L’aveva vinto l’anno prima, e ormai rivinto l’anno dopo. What If.
Nel 1999 Marco Pantani, reduce dalla doppietta Giro-Tour, è il corridore più popolare e forse più forte al mondo.
Di sicuro quando la strada va all’insù.
La rosa l’aveva già presa all’ottava, vincendo nelle intemperie (pioggia al via, poi caldo, neve e nebbia all’arrivo) la marcialonga (253 km) sul Gran Sasso dopo aver spezzato i sogni di Pietro Caucchioli e Mariano Piccoli (fugaioli per 208 km). E scavando un solco in appena due chilometri: secondo José María Jiménez a 23”, terzo Alex Zülle a 216”, quarto Ivan Gotti a 33”.
L’aveva strappata a Laurent Jalabert, il francese cacciatore di classiche reinventatosi tappista da grandi giri. E così completo e versatile da trasformarsi, da “over”, una volta smesso con la bici, in maratoneta amatoriale.
Jiménez, il Panta spagnolo specie nella cattiva sorte, aveva già capito tutto già alla quinta, alla vigilia delle prime salite: «Ho visto un corridore che pedala più facile di tutti e che mi ha impressionato: è Pantani. Da lui possiamo aspettarci di tutto. Se decide di prendere la maglia rosa, non ce ne sarà per nessuno». Fácil profeta.
Jaja però se l’era ripresa subito – e per appena due centesimi di secondo – vincendo a 47,9 km/h di media la crono di 32 km di Ancona, con il Panta-rosa ottimo terzo (a 55”) dietro lo specialista ucraino Serhiy Honchar (a 25”).
Stavolta il sogno spezzato è quello di Marco: arrivare in rosa, il giorno dopo, nella sua Cesenatico.
Si consolerà con la “visita parenti”: un saluto al chiosco delle piadine a mamma Tonina e alla sorella Manola. Un salto alla nuova casa per controllare come stessero i due cani donatigli da Jovanotti e l’amato cavallo. Poi il rientro a dormire in hotel, per rispetto dei compagni.
Jalabert poi gliela restituisce già alla 14ª nel tappone di Borgo San Dalmazzo. Vinto in picchiata da Paolo Savoldelli, giù dai 2511 metri del Fauniera più kamikaze che Falco, con Pantani piazzato a 1’47” e Jalabert saltato a 3’28” all’arrivo, e ora quinto a 1’45” nella generale.
L’indomani, domenica 30 maggio, altra frazione di montagna: la Racconigi-Oropa di 147 km, gli ultimi undici di salita per 733 ,metri di dislivello verso l’arrivo ai 1142 del Santuario Mariano, sulle Alpi biellesi. Pendenza media del 7,9%, e 13% massima. E teatro, al Giro ’93, di una delle più memorabili cotte subite da Miguel Indurain in carriera, sotto i fendenti di un Piotr Ugrumov spaziale e poi secondo sul podio finale.
Alla partenza, il Pirata veleggia con 53” su Savoldelli, 1’21” su Gotti, con cui non corre buon sangue dopo lo scarto dell’uno e la mancata collaborazione dell’altro nel finale verso Borgo San Dalmazzo: «Mi ha deluso come uomo», l’affondo del bergamasco; «È stato involontario», la difesa del romagnolo. I due si chiariranno l’indomani, in privato in coda al gruppo subito dopo il via, e in pubblico con reciproche dichiarazioni assai concilianti al traguardo.
Fino ai -33 km dall’arrivo, la Mercatone Uno del leader – uno squadrone – controlla la corsa.
Ai piedi della salita, Paolo Bettini e il colombiano José Jaime “Chepe” González scattano per prenderla davanti, ma in classifica sono lontani e ai big non interessano. Col Panta c’è anche Jalabert. In testa, a scandire il ritmo, ci pensano Roberto Petito e il Portoghese orlando Sergio Rodrigues.
Ma ai -8,7 km dal traguardo, nella spianata tra Cossila San Grato e Cossila San Giovanni, ecco il coup de théâtre. Quello sì, involontario: Pantani si accosta sul ciglio destro della strada, accanto a un cassonetto verde dei rifiuti, e scende di bici.
Sulle prime tutti pensano a una foratura. Poi a un problema meccanico. In realtà né l’una né l’altro: un banale, ma quanto mai intempestivo, salto di catena. Verosimilmente uscitagli nel passare dal 39” al 53” sul padellone, anche se le difficoltà maggiori Marco sembra poi averle nel risistemarla dietro, sul pignone.
Le riprese zoomate dall’elicottero mostrano il meccanico a bordo della macchina di cambio-ruote Shimano, con in mano una ruota posteriore dietro a Pantani che tenta di rimettere su la catena.
Il Panta fa in pratica tutto da solo, ma l’episodio regala al compianto Giancarlo Rinaldi, che almeno riesce a dargli una spintina per farlo ripartire più veloce, un quarto d’ora di warholiana notorietà tanto non voluta quanto meritata.
Anima del team Orobica, e tra i più rispettati e benvoluti in carovana, Rinaldi è stato nel servizio scorta – per Shimano, poi alla Scott e infine come responsabile del Neutral Service del gruppo editoriale InBici – per oltre quarant’anni nel mondo delle corse, e per almeno settanta gare in stagione, sommando quelle di pro’, dilettanti, gran fondo amatoriali.
Pantani perde circa quaranta secondi.
Déjà-vu, come trentasei anni prima. Nel 1963, la prima volta di Oropa sede di arrivo del Giro, capitò un incidente meccanico anche a Carlo Brugnami. Era l’undicesima frazione, la Asti-Oropa di 130 km. A lui però la catena era saltata a 400 metri dall’arrivo, quando era subito dietro Vito Taccone, che vinse la tappa, e i piazzati Vittorio Adorni e Franco Balmamion, poi vincitore di quel Giro. Il povero Brugnami il traguardo lo tagliò da nono, spingendo la bici.
A memento dell’episodio, ma ai -5 km dalla vetta, c’è una palina commemorativa dei grandi momenti vissuti lì dal Giro.
Il Comitato di tappa dell’edizione 2017 (la Castellania-Oropa) ne ha poste undici in metallo, una a ciascuno degli undici km da Biella al Santuario. Ai -3 km per lo scatto di Ugrumov su Indurain (la tappa la vinse poi Massimo Ghirotto), ai -7 km il successo di Marzio Bruseghin nel 2007 e ai -6 km quello di Enrico Battaglin nel 2014.
Peccato che uno o più soliti idioti e incivili – stessa malata genìa di chi ha asportato la targa con la quota in cima al Ventoux – abbiano subito rubato quella posta ai -8,7 km e dedicata alla Catena di Pantani.
La storia dunque che si ripete, anche se – vista coi nostri occhi di oggi – come tragedia anziché farsa.
Pantani ha un ritardo di 15” dalla coda del gruppo. E riparte come una furia, agganciando i compagni che lo hanno aspettato per riportarlo dentro: Marco Velo (#8) e Simone Borgheresi (#5) si fermano subito, poi anche Stefano Garzelli (dorsale #3), Enrico Zaina (#2) e Massimo Podenzana (#9), che con Ermanno Brignoli (#6) sarà il primo a sfilarsi dopo aver speso tutto nel forcing.
In testa, con quei 40 secondi di vantaggio, il gruppo di testa è tirato da Nicola Miceli con Savoldelli, Jalabert e lo svizzero Oscar Camenzind, che ha lui pure ambizioni di podio finale. E al traguardo se la prende con Gotti: «Non lo capisco. Quando ha visto Pantani staccarsi, doveva andare via, non tenere il proprio passo regolare. La corsa è corsa, il fair play un’altra cosa. Sembra che vincere questo Giro non interessi a nessuno, soltanto a Pantani. Se fossi ancora in classifica, avrei tentato un’alleanza con la Vitalicio e la Polti». Le squadre di Clavero e Gotti.
In pochi ricordano infatti il duplice gesto di sportività di Savoldelli, che prima aveva spinto Marco mentre questi armeggiava in sella con il cambio e la catena. E poi, con la maglia rosa ferma a bordo strada, a gran voce ne aveva avvertiti i compagni della Mercatone Uno: «Ragazzi, ma non vi siete accorti che Marco è rimasto indietro?». Chapeau bas.
Più dietro, intanto, c’è anche Jiménez con “Chepe” González.
La progressione del treno gialloblù con l’ultimo vagone rosa, zigzagando tra le ammiraglie, è però impressionante.
Ora il grosso del lavoro se lo smazza Garzelli, con Borgheresi a dargli il cambio, poi Zaina e Velo alla cui ruota c’è, coperto, il capitano. Perso anche il Garzo, a Pantani restano tre uomini.
Le ultime trenate di Zaina e Velo sono insostenibili persino per scalatori purissimi come “El Chava” (il Selvaggio) Jiménez e l’escarabajo colombiano Hernán Buenahora, cognome marqueziano se ce n’è uno.
Ai -7 km, e 10” già recuperati, persino il Panta – anche lui en danseuse – sembra faticare a tenere quel ritmo, ma ha comunque la lucidità di mettersi a posto la scarpa destra.
Ripreso il russo Andrei Zintchenko della Vitalicio-Seguros, ai -6 km, sul tratto più duro, tenta uno scattino Roberto Heras, spagnolo della Kelme, che ora è in testa da solo.
Prova a forzare Jalabert, con attaccato al mozzo Gotti e poi il rientrante Miceli.
Tre-quattrocento dietro, il Panta in coda ai suoi ultimi due scudieri dopo aver passato Gabriele Missaglia della Lampre, raggiunge lo svedese Niklas Axelsson e Giuliano Figueras della Mapei. La squadra rivalissima del Panta anche per via del suo «niet» al patron Giorgio Squinzi e le divergenze ideologiche del 1998 sulla campagna congiunta CONI-FSN (federazioni Sportive Nazionali) di prevenzione “Io non rischio la salute”.
Con loro c’è il redivivo González.
Entrando nel comune di Fàvaro, adesso è Gotti che si mette in testa a tirare. Perso anche Zaina, a Pantani è rimasto il solo – generosissimo – Velo, per mestiere e vocazione un cronoman (oggi è il Ct azzurro di specialità) ma che sta andando su come e più di un grimpeur. Si staccano sia Jiménez sia Andrea Noé.
Jalabert e Miceli davanti danno cambi a Gotti, in coda Pantani scorge i fuggitivi. E sembra avere un altro passo. Il suo.
Jaja se la prende con la moto della tv, che non gli sta abbastanza lontano.
Ai -5 km, esaurita la spianata, si torna a salire. Il Panta è a 22” dal battistrada Heras, che ha 15” sul terzetto Jalabert-Gotti-Miceli e in piedi sale a tutta tra due ali di folla che al suo passaggio si aprono e richiudono come a Mosé il mar Rosso.
Pantani ha raggiunto il terzetto guidato da Gilberto Simoni con Daniele De Paoli e Savoldelli, secondo nella generale a 53” e alla cui ruota il Pirata in rosa s’incolla.
Ai -3,5 km Jalabert pianta là Gotti e Miceli, che gli rendono subito dieci metri, sorpassa a sinistra a velocità doppia Heras e si volta a destra per vedere l’effetto che fa. A non più di venti metri Pantani vede l’altro terzetto, quello di Gotti, terzo in classifica a 1’21”. Tutti i big sono là davanti. Qui non si vincerà certo il Giro, ma per qualcuno di sicuro lo si perde.
Pantani parte in piedi sui pedali e a mani basse sul manubrio. Poi si risiede ma continua a spingere, anche se non sembra con la levità dei giorni migliori. Ri-scatta ancora, mentre gli si accoda Savoldelli.
La maglia rosa attacca nei punti più duri. Jalabert si volta ancora, quasi sentisse che è il suo l’odore del sangue già annusato dallo sparuto branco che lo bracca.
Pantani aggancia Miceli, che è a ruota di Gotti. Respira giusto un istante, poi «si rialza sui pedali e ricomincia la fatica» per dirla con il toccante, immortale testo dedicatogli dagli Stadio.
Pantani adesso mulina che è un piacere vederlo, alternando tratto en danseuse e seduto. Solo lo stoico Miceli prova a resistergli attaccato. Heras si è piantato.
Ai -3 non raggiunge, né sorpassa Jalabert: gli vola via largo a sinistra in progressione, disarmante, senza nemmeno guardarlo. Jaja è come se avesse avvistato un alieno e nessuno, lui in primis, possa credergli.
Cerca di restargli agganciato, ma è molto più alto sulla sella. Panta è schiacciato sul manubrio.
Dietro, a 14”, cerca di tenere duro Gotti, che respira a bocca aperta, con lui ci sono Simoni, Savoldelli e lo spagnolo Daniel Clavero, compagno di Buenahora nella Vitalicio Seguros.
Il Panta fiuta il momento. Si guarda basso a sinistra e a destra. Si rialza sui pedali e riparte. Stavolta a un ritmo irresistibile per Jaja, figurarsi per gli altri. Ai -2,5 il francese è a 6”, Miceli a 16”. Il distacco di Savoldelli, Gotti, Simoni e Clavero è raddoppiato: 28”. Sul quartetto rientra Heras e si riavvicina De Paoli. Ma i giochi sono fatti, e loro ne sono fuori.
Savoldelli perde le ruota di Simoni e Gotti, che dà tutto quel che gli resta e forse pure di più.
I secondi del numero uno – di dorsale e di fatto – salgono a otto su Jalabert e trenta sulla coppia Gotti-Simoni.
Pantani addirittura rimette su il 53”, e lo mulina ora sui pedali ora in sella.
La progressione, quella dei distacchi, all’ultimo km si fa quasi geometrica: Jaja scivola a 16”, Ivan e “Gibo” a 36”.
Sul rettilineo finale – con il sottofondo di un tifo da stadio – Pantani continua a scattare. E al traguardo non esulta, né alza le mani dal manubrio. «Temevo ci fosse ancora qualcuno davanti e volevo evitare figuracce», spiegherà nel dopotappa.
No, Marco: li hai ripresi tutti. Uno per uno come i 49 racconti di Hemingway, ma con un finale thrilling di romanzo rosa.
Claudio “Greg” Gregori, l’Ultimo aedo della Gazzetta, è andato poi a sentirli tutti, quei 49 «dannati».
Dopo l’inconveniente meccanico, in cinque chilometri e mezzo di salita, lo «sputnik rosa» (cfr. il kazako Andrei Teteriouk della Liquigas) ha chiuso con 21” su Jalabert, 35” su Simoni, 38” su Gotti. E in classifica ora guida con 1’54” su Savoldelli, 2’10” su Jalabert e 2’11” su Gotti.
Dopo due successi di tappa, e quella dimostrazione di forza e determinazione, il suo bis consecutivo sembra scritto.
«Riesce sempre ad andare oltre le nostre aspettative – dirà il suo diesse Beppe Martinelli – Sono sicuro che senza quell’incidente avrebbe guadagnato molto di più per stare tranquillo in vista della cronometro».
Il riferimento è ai 45 km di due giorni dopo a Treviso, dominata dal “solito” Honchar (che in zona ha abitato per un anno) con 17” su Savoldelli e 41” su Jalabert, che Lumezzane, l’indomani di Oropa, aveva bruciato allo sprint Pantani e Simoni.
Difesosi nella crono con un ottimo settimo posto a 1’38” dall’ucraino, il Pirata aveva poi fatto saltare il banco imponendosi in un demoralizzante – per gli altri – back-to-back all’Alpe di Pampeago (scavando abisso negli ultimi quattro km) e a Madonna di Campiglio.
Con 5’38” su Savoldelli e 6’12” su Gotti, e il solo tappone di Aprica (col “suo” Mortirolo) prima della passerella di Milano, restava solo da capire non se ma di quanto Pantani avrebbe rivinto il Giro.
Ma a Campiglio succederà altro. La Mercatone Uno per protesta non riparte. Al via Gotti, come Gimondi con Merckx dopo Savona ’69, per rispetto non ne indossa la rosa, che poi conquisterà.
E nulla, né Pantani né il ciclismo, sarebbe stato più come prima.
5) Mont Ventoux & Courchevel (Tour 2000)
Caos Calvo
Giovedì 13 luglio, 12ª tappa: Carpentras – Le Mont Ventoux, 149 km
Alla partenza: Lance Armstrong in giallo; 2° Jan Ullrich a 4’14”; Pantani 24° a 10’34”;
1° Pantani in 4h 15’11” a 35,033 km/h; 2° Armstrong s.t.; 3° Beloki a 25”; 4° Ullrich a 29”;
All’arrivo: Lance Armstrong in giallo; 2° Jan Ullrich a 4’55”; 3° Beloki a 5’52”; Pantani 12° a 10’26”.
Domenica 16 luglio, 15ª tappa: Briançon – Courchevel, 173,5 km
Alla partenza: Lance Armstrong in giallo; 2° Jan Ullrich a 4’55”; Pantani 9° a 10’13”
1° Pantani in 5h 34’46” a 31,096 km/h; 2° Jiménez a 41”; 3° Heras a 50”; 4° Armstrong, Nardello a 1’00”;
All’arrivo: Lance Armstrong in giallo; 2° Jan Ullrich a 7’26”; Pantani 6° a 9’03”
Il Mont Ventoux è uno strano esemplare jurassico. Unico. Lunare. Né Alpi né Massiccio Centrale.
L’ideale – se proprio si vuole o deve – sarebbe affrontarlo a tarda estate, quando i campi a fondovalle sono già stati arsi dal sole.
Se possibile la mattina presto, quando il profumo di lavanda si spande gradevole nell’aria ancora frizzantina.
E prima che il maestrale che spira, specie a tardo pomeriggio, a 90 km/h per 240 giorni l’anno, ti disarcioni mentre scali, figuriamoci quando scendi e alla bici devi solo pregare di riuscire a restarci aggrappato. In piedi.
Meglio ancora approcciarlo da Sault (22 km al 5,1% medio) anziché da Malaucène o da Bédoin (21,6 km al 7,5% di pendenza media e 10,7% di massima), il versante in genere più affrontato al Tour.
Fidatevi, esperienza personale. Perché almeno per qualche metro, in mezzo al bosco finché c’è, qua e là quasi spiana.
Il “Gigante della Provenza”, quando lo scorgi da lontano, sulle prime nemmeno te ne accorgi. E poi quasi neanche ti fa troppa paura. Sembra solo un inerme, innocuo cocuzzolo spolverato di sale in mezzo al nulla.
Tutto cambia dal punto di non ritorno: il parcheggio dello Chalet Reynard, la spianata con l’omonimo chioschetto ai -6,6 km dall’Osservatorio astronomico che in vetta domina le vallate circostanti. In un panorama, con qualsiasi meteo, sempre mozzafiato, e non solo per la fatica fatta nell’ultimo tratto fino ai 1909 metri di altitudine della vetta.
Da là in poi si entra in un metaverso distopico alla Cormac McCarthy. Un mondo nuovo e insieme antico nel quale le sorti dipendono dall’umore del meteo, prima e più ancora che dalle condizioni psicofisiche di chi si azzardi a inerpicarvisi. Lassù non esiste più vegetazione. E anche a pesanti cassonetti e transenne capita, a volte, di librarsi in volo leggeri come colibrì. Rifidatevi: l’unica è barricarsi in auto, e anche così sballottati non è detto ci si senta più al sicuro.
Il Ventoux del Tour 2000 è una giornata di quel tipo. Nonostante il sole abbagliante, riflesso dalle pietraie bianche, abbaglia, la temperatura è di soli nove gradi centigradi per un Mistral furioso, anche se meno che nella ricognizione fatta da qualche temerario la vigilia, nel giorno di riposo.
Fra questi Manuel Beltran e Daniele Nardello. «Il vento fischiava a oltre cento km l’ora – riferirà Beltran – le raffiche erano così forti che in cima non è stato possibile fare l’ultima curva, a duecento metri dall’arrivo.
E comunque non così intense, per capirci, rispetto a quelle del Tour 2016. Quando, per sacrosanti motivi di sicurezza (in primis dei corridori), la 12ª tappa partita da Montpellier – il 14 luglio, festa nazionale per la Presa della Bastiglia – e vinta dal fugaiolo belga Thomas De Gent, fu decurtata proprio allo Chalet Reynard, quindi degli ultimi 500 metri di dislivello, in quella poi passata alla storia come la “corsetta” – a piedi – di Chris Froome. La maglia gialla rimasta senza bici dopo aver tamponato l’ex compagno Richie Porte, che a sua volta aveva centrato una moto-tv fermatasi all’improvviso.
Il 13 luglio (come nel ’67, quando vi spirò Tom Simpson) la 12ª tappa, 149 km con partenza da Carpentras e (teorico) finale ai 1909 della vetta, prevede tre colli di seconda categoria (Col de Murs, Côte de Javon e Col de Notre Dame des Abeille) e uno di quarta (Côte de Mormoiron) prima dell’ascesa finale hors catégorie.
Il Ventoux, secondo traguardo in salita dopo Hautacam sui Pirenei alla decima, mancava dalla Grande Boucle dal 1994 (primo il nostro Eros Poli) e come sede di arrivo dal 1987. Anche allora una Carpentras-Ventoux salendo da sud, ma come cronoscalata di 36,5 km, vinta dallo francese Jean-François Bernard. L’ennesimo “nuovo Hinault” mancato.
C’è anche il suo tra i cinque ritratti sul mega-striscione approntato dal locale Dipartimento della Vaucluse, e appeso in verticale sulla facciata dell’Osservatorio. Gli altri, con relativa data, sono quelli di chi là in cima ha vinto prima di lui: 1958 Charly Gaul (l’idolo del Panta), 1965 Raymond Poulidor, 1970 Eddy Merckx, 1972 Bernard Thévenet.
Tu vuo’ fa’ l’Americano
Al via, dopo il primo giorno di riposo, il vertice della classifica recita: in giallo lo statunitense Lance Armstrong (della US Postal) con 4’14” sul tedesco Jan Ullrich (Deutsche Telekom), 5’10” sul francese Christophe Moreau (Festina).
Marco Pantani (Mercatone Uno-Albacom), reduce da un anno di inattività, è 24° a 10’35”.
Salendo verso Hautacam, aveva patito una delle sue più memorabili cotte da quando era pro’. «Mi sentivo bene e invece, per la prima volta nella mia carriera, mi hanno staccato».
Per «prima volta» intendeva, ovvio, la sua crisi in un tappone di montagna, suo abituale terreno di caccia nei grandi giri.
Il suo diesse Beppe Martinelli però alla vigilia del Ventoux si era mostrato fiducioso: Marco poteva solo migliorare, e avrebbe cercato di correre nel miglior modo possibile per puntare al podio di Parigi.
Un obiettivo che a Jan Ullrich, vincitore nel 1997, «non interessa. Il mio obiettivo resta la maglia gialla. Per questo me la vedrò con chi ha almeno possibilità di vincere questo Tour: nell’ordine Armstrong che è in testa alla classifica, Alex Zülle che mi è parso molto forte e Fernando Escartín, che ha una grande squadra per la montagna». Quando in conferenza stampa, in hotel a Grignan, una settantina di chilometri a nord di Avignone, gli chiedono se non ha dimenticato qualcuno, va giù duro come i rapportoni che spinge: «Pantani? No: non può più avere un ruolo importante per la classifica generale».
Quello, ne è sicuro, lo giocherà il Mistral. «Il Ventoux l’ho visionato subito dopo la Classique des Alpes (192 km da Chambéry ad Aix-les-Bains, vinta, il 3 giugno, da Jiménez su Escartín e Armstrong), ma mi sono subito fermato per il mal di schiena. Comunque, il Ventoux è duro e il vento reciterà un ruolo importante».
Ad Armstrong, invece, quel Gigante tutt’altro che gentile non è mai piaciuto. E per una volta la sua, di vigilia, pare più ricca di apprensione che di Grandi speranze dickensiane. «Non è una salita come le altre – spiega il texano dal cuore oltre che gli occhi di ghiaccio – Più che una montagna è una luna. Lassù gli alberi finiscono, il clima è strano. Non si respira. È la salita che temo di più e per me sarà un gran test».
Alla partenza, Pantani firma autografi sfoggiando una bandana nera con loghi da Pirata ricamati con filo giallo. «Terrò questa – dice promettendo battaglia – finché non tornerò re della montagna». Quello che gli uomini (o almeno certuni) non dicono è che da due giorni gli fa male il quadricipite sinistro.
Un classico, qualche malanno fisico, nell’immediata vigilia delle sue più grandi imprese.
Gli indizi però tutto lasciano pensare tranne che la tappa rientri fra queste.
La corsa si accende ai -8 km dal Ventoux. Pantani soffre il ritmo della Banesto e altre due volte a inizio salita.
La prima sulla trenata di Kevin Levingston della US Postal (uno dei due amici che, con la madre di Lance, erano con lui in ospedale a San Antonio il lunedì in cui gli fu diagnosticato il tumore; e, nel pomeriggio, per la prima chemioterapia).
La seconda su un forcing di Heras.
Il Panta si stacca dal gruppetto di testa e accumula 24” di ritardo, che poi riduce e contiene sempre sotto la doppia cifra.
In un paio di chilometri, rientra e subito dopo attacca.
Vanno a prenderlo Santiago Botero con gli altri della Kelme, e il Pirata riparte altre quattro volte.
Sembra di nuovo quello visto sei settimane prima, il 2 giugno, sul Colle dell’Agnello, la Cima Coppi di quel Giro: era la 19ª frazione, la Saluzzo-Briançon, con l’Izoard – già “suo” nella Cuneo-Les Deux Alpes ’94 vinta dal suo compagno Volodymyr Pulnikov – prima della discesa finale verso la «Città più alta d’Europa».
La tappa regina era poi andata a Paolo Lanfranchi, ma “la” notizia era il ritorno del Pirata, secondo a 54”.
Il Pirata e il Cowboy
All’inizio dell’ultimo tratto del Ventoux, ai -6 km dalla vetta, stacca anche Botero. «Quando ho visto che il ritmo dei primi non era fortissimo e che ero riuscito ad agganciarli, mi è scattata la molla e sono partito», spiegherà il Panta.
Armstrong lascia fare, aspettando che sia magari Ullrich, secondo nella generale ma a 4’14”, eventualmente a muoversi. Ma il tedesco è in difficoltà, per non dire crisi. Armstrong se ne accorge e allora parte anche lui. Non è quello visto dominare sui Pirenei, ma neanche il Panta sta benissimo e difatti lo raggiunge.
«L’ho incoraggiato a non mollare, con quel vento era meglio andare su in due», dirà poi un mai così cavalleresco Lance. Solo che prima gli chiede di collaborare e un attimo dopo lo pianta lì. A quel punto il ciclismo in quanto tale c’entra il giusto, idem la suprema ragion di Stato della maglia gialla.
È più un duello rusticano tra uomini che mai si sono né sarebbero presi, ciascuno a proprio modo irrisolti. E, nei loro opposti, insospettabilmente fragili e insicuri. A cantarla con Mina, «fatti di briciole, briciole che l’orgoglio tiene su».
Una sfida ad alto tasso di testosterone, due pugili sui pedali che hanno per ring il Ventoux.
Pantani al sesto e ultimo scatto riesce a scappargli via, ma Armstrong allunga e gli torna sotto. Salgono insieme, ma senza gli ultimi riferimenti. Il piano-b di emergenza-Mistral prevedeva infatti un arrivo alternativo anticipato di sei chilometri, ma pure la rimozione dei consueti pannelli indicanti i metri che mancano al traguardo.
E infatti la sala stampa, non quella grande attrezzata per i compound delle tv, ma il tendone (per carta stampata e web) posto a un chilometro dall’arrivo, era stata spazzata via dal vento.
Anche questo aveva quindi “falsato” uno sprint di fatto mai esistito. Lasciato vincere o no, è Pantani a passare per primo quel traguardo di cui lì per lì forse neanche si rendono conto di aver tagliato.
Dopo 405 giorni dalla sua ultima vittoria, a Campiglio il 4 giugno ’99 al Giro, Pantani diventa così il sesto ritratto che andrà messo sullo striscione da affiggere sulla facciata dell’Osservatorio al prossimo passaggio del Tour sul Ventoux.
Il giorno dopo, alla partenza da Avignone, foto di rito e premiazione sul palco con tutti e sei: Gaul, Thévenet, il Panta in completo all-pink della Mercatone Uno (non potendo usare al Tour il giallo), Bernard, Poulidor e Merckx.
Per lui è il settimo successo di tappa alla Grande Boucle, dopo tre doppiette: Alpe d’Huez e Guzet-Neige ’95, Alpe-bis e Morzine ’97, Plateau de Beille e Les Deux Alpes ’98. Presto arriverà l’ottava, a Courchevel alla 15ª, prima del ritiro proprio nella “sua” Morzine.
Nella generale, Ullrich – quarto all’arrivo a 29” – resta secondo ma a 4’55”, Beloki è terzo a 5’52”.
Non si vede, neanche in lontananza, chi possa anche solo insidiare il bis consecutivo di Armstrong.
Jalabert ha perso 2’01”, Escartín e Zülle 3’12”, Bobby Julich 6’45”, Michael Boogerd 7’51”, Abraham Olano 9’50”.
Pantani, 12° a 10’26”, può ambire al più a vittorie di tappa, il podio sembra fuori della sua portata.
«(Per me) comincia un altro Tour – dichiara – Farò l’impossibile per arrivare a un buon piazzamento a Parigi».
Nel dopocorsa, intanto, più forte del Mistral spira il vento delle polemiche.
«Vincere sul Ventoux con addosso la maglia gialla, quante volte può capitarti in carriera?», si interroga retorico Eddy Merckx, scuotendo il crapottone. «Grande Pantani, ma io non l’avrei fatto passare». Cannibale si nasce.
Armstrong però ha altre idee: «Tappa in due fasi. Nella prima ha fatto tutto la mia squadra, bravissima. Poi ci ho pensato io. Sono contento sia finita, troppo vento, è stata dura. E sono contento sia finita così: Pantani ha attaccato tante volte, era giusto vincesse lui, anzi ne aveva il “diritto”. Per come ha corso e per ciò che rappresenta».
Parole da texano dal cuore tutt’altro che di ghiaccio, ma con un retrogusto velenoso. Evitabile.
Fino a che punto sincere, be’, quello neanche dalla sua ospitata da Oprah Winfrey del 2013 l’avremmo mai saputo.
Però molto simili a quelle che Lance aveva pronunciato dopo Hautacam, dove era andato a prendere Javier Otxoa, gregario di Escartín e Heras ormai all’ammazzacaffè, lasciando però al basco della Kelme 42” di bagnomaria e una vittoria strameritata dopo 155 km di fuga sotto il diluvio. Uno stillicidio che aveva portato a dieci ritiri.
L’indomani sui quotidiani, invece, è tutto un peana ai dioscuri impegnati in una singolar tenzone che ai media, non solo francesi ma a loro forse di più, piace da matti.
«LES GÉANTS DE PROVENCE titola – stavolta facile, ma non per questo meno efficace – a tutta prima pagina e in maiuscolo L’Équipe, con la foto dei due (quasi) appaiati sul traguardo.
I giganti in cima a quello della Provenza.
Yves Perret, dal 1988 al 2010 redattore, poi inviato e infine capo dello sport al Le Dauphiné Libéré, la bibbia locale nella Région de Rhône-Alpes, va oltre lo scontato calembour: «C’était vraiment le mont chauve» (“È stato per davvero il monte calvo”), il titolo del suo pezzo in apertura delle pagine sportive. Accompagnato dai loro primi piani, scattati in periodi diversi: l’attuale pelata per scelta (di look) del Panta e quella in passato obbligata (per chemio) di Lance.
Ritorno in vetta – recitano occhiello e sommario, giocando su più livelli di lettura – Da quando era stato estromesso dal Giro ’99, Marco Pantani non aveva più vinto una corsa. Ieri, ha conquistato una delle tappe più ambite». Chapeau bas.
Doppio sogno
Due giorni dopo, altro tappone: con l’Izoard e arrivo ai 1335 metri di Briançon, proprio come al Giro 2000.
Un anno speciale per la autoproclamatasi «Capitale mondiale du vélo»: nell’arco di un mese e mezzo, il 2-3 giugno la corsa rosa, il 10 giugno il Delfinato e il 15-16 luglio il Tour.
Pantani ci prova ad attaccare, ai -6 km dallo scollinamento, quando davanti sono in fuga in sette, tra cui Santiago Botero e Paolo Savoldelli. Il Falco però stavolta non plana giù dal Fauniera come a Borgo San Dalmazzo al Giro ’99. E deve accontentarsi della seconda piazza, a 2’30” dal colombiano della Kelme.
L’unico che risponde all’affondo di Pantani sull’Izoard è Armstrong, mentre Pascal Hervé per Richard Virenque e Beppe Guerini per Ullrich sembrano averne persino di più dei rispettivi capitani che faticano a restargli a ruota. Lance li riprende tutti tranne i primi due, Pantani compreso, poi lasciato a cuocere con Roberto Conti.
Armstrong però non guadagna mai più di 30” e così Hervé riporta sotto i pochi altri big superstiti.
Nel finale, Pantani va prendersi il terzo posto, a 2’46” da Botero, e 13” sulla maglia gialla: i 5” di distacco su Armstrong più gli 8” di abbuono.
Forse per la prima volta in quel Tour anche Armstrong era parso umano.
«È vero, sul Ventoux mi sentivo molto più forte – spiegherà l’americano in conferenza stampa – Sull’Izoard ero al limite, ho sofferto. Pantani? Non mi preoccupa, ma lo vedo sempre meglio. Sono sicuro che lo rivedrò attaccare verso Courchevel, una tappa fatta su misura per lui».
Nell’aria quindi c’è profumo d’impresa. E stavolta senza concessioni.
Ma come spesso gli è capitato in vigilie importanti, il Panta non è al top: avrà smaltito l’influenza che lo ha condizionato il giorno prima? Il dottor Emilio Magni, il medico della Mercatone Uno, aveva parlato di «leggera tracheite».
Ma il colorito del Pirata – e soprattutto la brutta cera mostrata sul Col d’Allos e sul Col de Vars, non lasciava tranquilli né i compagni né il massaggiatore Roberto Pregnolato, il massaggiatore. Idem col meteo: un grado la temperatura sul Galibier, neve fresca sui prati e ghiaccio sulla strada.
Domenica 16 luglio, alla partenza della 15ª tappa, la Briançon-Courchevel di 173,5 km, la classifica recita: Armstrong con 7’26” su Ullrich e 7’28” su Beloki. Pantani è sesto a 9’03”.
Alla partenza i segnali sono due volte incoraggianti. Il Panta non si rintana nel camper, e mostra voglia di parlare. «Ieri ci sono rimasto male – confida a Gianni Mura de la Repubblica – quando (Armstrong) mi è scattato in faccia, un gesto inutile che non ho capito. Oggi devo fare qualcosa ma prima dell’ultima salita non serve a niente».
Il percorso prevede quattro GPM di cui due hors catégorie – Lautaret (2058 metri), Galibier (Souvenir Desgrange a quota 2645, al 6,9% medio), Télégraphe (1566) e, ai -70 km, de la Madeleine (2000) – prima dell’ascesa verso Courchevel, colle di I categoria e terzo arrivo in salita, dopo Hautacam alla 10ª e Ventoux alla 12ª.
I giochi fra i big cominciano sulla Madeleine. Armstrong non ha la faccia dei giorni migliori, e già non ha più gregari. Ma a parte uno scattino di Escartín e Ullrich, nessuno lo attacca.
Nessuno eccetto il Panta, la cui irresistibile azione stavolta si attua in tre fasi.
Solo nella prima, ai -15 km, con una progressione dal fondo del gruppetto che insegue i cinque superstiti del fugone di giornata: Jiménez, Nardello, Lelli e i “soliti” Otxoa e Botero, secondo e primo nella classifica della montagna.
All’allungo di Pantani rispondono subito il redivivo Livingston, luogotenente della maglia gialla, e il francese Virenque. E poi Armstrong. Ullrich naufraga, e a differenza dell’Izoard stavolta nemmeno Guerini può traghettarlo in porto.
Al secondo affondo del Panta, saltano Virenque e Livingston. Gli resiste Armstrong, che superandolo gli bofonchia qualcosa. I due galletti si danno i cambi, mentre da dietro li riagguanta Heras e davanti viene risucchiato Otxoa.
Ai -10 km i tre battistrada (Nardello, Jiménez e Botero) hanno 1’08” sul quartetto con Pantani e Armstrong, 2’ sul gruppetto di Virenque e un sontuoso Moreau, in lotta con Beloki per il podio finale, già 2’40” su Ullrich.
Ai -9 km Jiménez tenta l’allungo solitario, che invece riesce a Pantani ai -6 km. È la sua terza fase. Quella decisiva.
Armstrong tiene per cinquecento metri, poi cede e va su del proprio passo.
Pantani invece supera di slancio Botero e Nardello – «Quando Marco mi è passato accanto sembrava un razzo (o «una moto», secondo altra vulgata)», dirà l’italiano, esterrefatto almeno quanto lo Jalabert sverniciato dall’alieno rosa di Oropa ’99 – e poi, con due scatti inframmezzati da un mini-recupero dopo averlo agganciato, Jiménez.
Ai -3 km il Panta ha davanti solo il traguardo. E… un altro della Kelme.
Non è un corridore, ma un manifestante basco travestito da Javier Llorente (poi attardato a 22’17”), che manifesta mostrando sul petto la scritta «Libertà per i prigionieri baschi».
Al traguardo, se ne palesano altri tre: uno subito prima di Armstrong, e come lui in maglia gialla, che esulta a braccia levate, un altro in maglia a pois e uno in divisa Banesto. Tutti subito fermati dalla Gendarmerie.
Il Pirata invece non lo ferma più nessuno. Non siamo ai livelli dei «49 di Oropa», ma quasi.
Ai -22 km, l’inizio del forcing dei suoi Mercatone Uno (specie Siboni, Velo e Zaina ai piedi dell’ultima salita), aveva 4’10” di ritardo dagli undici fuggitivi. Nella sua rete cadranno via via Van de Wouver, Serrano e Boogerd, Luttenberger, Arrieta, García Acosta, Botero, Otxoa, Lelli e Nardello. E infine “el Chava” Jiménez, poi lasciato a 41”.
A 50” Heras e Armstrong. A 3’21” Ullrich, che nella generale salva il secondo posto ma precipita a 7’26”.
Il Panta guadagna tre posizioni e ora è sesto a 9’03”.
All’arrivo la sua esultanza è però quasi minimalista, se non altro rispetto al valore, intrinseco più che di classifica, dell’impresa. Solo dopo aver tagliato il traguardo alza il ditino indice destro, senza staccare dal manubrio la mano sinistra.
Non è, né sarà più, quello della doppietta del ’98. Ma ha «rimesso le cose a posto. Quando stacchi tutti e arrivi da solo, la vittoria ha il sapore del trionfo. Sì, è una vittoria alla Pantani. Questa vittoria ha un sapore forte. Il successo del Ventoux era tutto per me, questo invece voglio dedicarlo alla Tonina. Perché come me ha sofferto tanto in questi mesi».
«In salita Marco è il numero uno, è il più forte di tutti», lo elogia Armstrong all’arrivo (ma 24 ore dopo compirà una U-turn clamorosa). «Ci siamo subito capiti, avevamo interessi comuni. Quando è scattato l’ultima volta, non gli ho risposto. Non m’interessava vincere la tappa, ho preferito salire del mio passo. Ho sofferto anche oggi ma meno di ieri. Lo ammiro ogni giorno di più».
L’indomani mattina, nella conferenza stampa del secondo e ultimo riposo, seduto accanto al suo altrettanto diabolico e geniale diesse belga Johan Bruyneel, sgancia il bombone mediatico. Peraltro, del tutto gratuito oltre che fuori tempo massimo, quattro giorni dopo il presunto “regalo”: «Sul Ventoux ho preso una decisione istintiva, immediata e l’ho lasciato vincere perché lungo la salita era stato molto coraggioso. E perché so cosa ha passato. Ma dopo le frasi che ho letto ho capito di aver commesso un errore. Sono molto deluso da quello che Marco ha detto dopo. Pensavo avesse più classe. Quel giorno l’hanno visto tutti che ero il più forte. Ho voluto compiere un bel gesto, ma me ne pento».
Apriti cielo. Media impazziti. E subito a caccia dei perché e percome. Mercatone Uno caduta dal pero.
Tutto era nato da certe dichiarazioni attribuite a Pantani, e da lui smentite, riportate da giornali francesi. In particolare, da l’Équipe: «Quando (Armstrong) mi ha invitato ad accelerare mi sono sentito provocato, la prossima volta li staccherò tutti. Se crede che con quel gesto sia tutto finito, si sbaglia, con me non ha finito».
Anche a parole, prima che sui pedali.
La sera, in diretta tv dalle 20,10 su France 3, la controrisposta del Panta: «Sul Ventoux ho vinto uno sprint regolare. Non c’è stato alcun regalo. Se la pensa così, peggio per lui. Siamo arrivati in cima e ho visto la linea d’arrivo all’ultimo momento. Se avesse cercato di superarmi, avrei aumentato il ritmo».
A quel punto, la Courchevel-Le-Praz - Morzine di 196,5 km, 16ª tappa e ultima alpina, è qualcosa che va oltre l’agone sportivo, è lo Showdown definitivo. O io o lui.
Il Pirata va all’arrembaggio già dal Col des Saisies, un prima categoria, ai -116,5 km. Il suo è un doppio sogno schnitzleriano: non gli basta l’eventuale tris di tappe, vuole ribaltare il Tour. Resta in fuga per 82 km, ma con Escartín e Heras che lesinano i cambi, i tre vengono ripresi poco dopo la discesa della Colombière, ai -44,5 km. Ma la rumba vera inizia sul terribile Joux Plane: 11,5 km all’8,7% medio e 100 metri al 15,5% di massima fino ai 1697 della vetta prima della picchiata su Morzine. Proprio là – e sempre con lo Joux Plane – dove aveva trionfato nel 1997.
Altri tempi. In questi il Panta ha una crisi intestinale che lo svuota non solo di energie, e chiude a 13’44” dal vincitore, Virenque, che approfitta della caduta di Heras. E al traguardo elogia Pantani: «Ha fatto esplodere la dinamite nella corsa, giornata combattutissima». Mai banale il 18 luglio al Tour per il controverso francese: nel 1995 vinse a Cauterets la tappa in cui perì Fabio Casartelli, nel ’98 fu espulso per lo scandalo-Festina e ora Morzine.
Armstrong invece ammette che «è stata la giornata più dura nella mia carriera. Sulla salita sono andato in crisi, mi sento come un pugile salvato dalla campana».
Non si salva invece Pantani. Alle 23 all’hotel Les Sapins, sul Lac de Montriond, la decisione di non ripartire.
Il Tour del Panta finisce lì. A Parigi lo rivincerà, in back-to-back, «l’americano» come lo chiamava lui. Stavolta con 6’02” su Ullrich e 10’04” su Joseba Beloki.
Non avremmo più rivisto quel Pantani, né lui al Tour. Ventoux e Courchevel resteranno le sue ultime vittorie. E quell’attacco folle, tchaikovskyiano, il suo canto del cigno. Meraviglioso e struggente.
6) Merano & Aprica (Giro 1994)
Epifania di un alieno
Sabato 4 giugno, 14ª tappa: Lienz-Merano, 235 km
Alla partenza: Evgenij Berzin in rosa; Pantani 10° a 6’28”
All’arrivo: Evgenij Berzin in rosa; Pantani 6° a 5’36”
Domenica 5 giugno, 15ª tappa: Merano-Aprica, 188 km
Alla partenza: Evgenij Berzin in rosa; Pantani 6° a 5’36”
All’arrivo: Evgenij Berzin in rosa; Pantani 2° a 1’18”
In duecentomila sul Mortirolo, il Maracanã del ciclismo.
In 6,73 milioni (alle 17,55 il record) incollati davanti la tv, il 59% di share.
L’epifania in un back-to-back da sogno o son desto: in due giorni, fra Merano e Aprica, il Giro ’94 e, aprendo il grandangolo, il ciclismo dell’epoca trovano una stella del futuro che arriva dal passato.
Da quello ancora “eroico” di Federico Martín Bahamontes e Charly Gaul, senza azzardarsi a scomodare Bartali e Coppi.
Uno scalatore puro – per caratteristiche, coraggio e modo di scattare – destinato a infiammare i cuori, a rovesciare i pronostici, a ribaltare le classifiche. A far la “guerra” in corsa. A vincere da solo. Come da dilettante.
Déjà-vu. Il film di quel Marco Pantani, uno scricciolo di 24 anni e 56 chili, che vince a braccia alzate, i più attenti fra gli addetti ai lavori l’avevano già visto. In anteprima, al Giro Baby ’92 e con tanto di replica. Anche allora in back-to-back: la nona tappa, la Verona-Canavese di 144 km il 25 giugno e la Canavese-Alleghe di 111 km, il giorno dopo.
È infatti sulle salite dell’Alto Adige che nasce il mito dello scalatore nato, per un capriccio del fato, al mare di Cesenatico.
Pantani proprio sconosciuto già allora non era, anzi. Perlomeno nell’ambiente.
Il suo, infatti, nei tre anni precedenti era stato un crescendo, magari non rossiniano, ma certo da predestinato.
Terzo alle spalle di Wladimir Belli e Ivan Gotti al Giro Baby nel 1990, con la selezione Emilia B.
Secondo nel 1991 dietro Francesco Casagrande e davanti a Giuseppe Guerini. Sì, con Gotti assente, ma dando spettacolo sia vincendo ad Agordo dopo aver scalato i passi Rolle e Valles, sia lottando con Casagrande sui quattro GPM della frazione successiva: Falzarego, Giau, Forcella Staulanza e Cibiana.
Primo nel 1992. Da promosso capitano della selezione Emilia-Romagna A può contare sui compagni Nicola Raffaele, Stefano Chiodini, Enrico Bonetti, Davide Taroni e Davide Dall’Olio. E all’occorrenza anche sui ragazzi della formazione B: Andreani, Barbero, Donati, Patuelli, Tartaggia e soprattutto Stefano Cembali.
La maglia è gialla con colletto rosso e fascia orizzontale bicolore: in nero su bianco la scritta “Emilia”, in nero su rosso “Romagna”. Su entrambe le spalle, appuntato con quattro balie, porta il dorsale #49 (e non il #41 come invece riportato in varie cronache) e sui pantaloncini neri campeggia in bianco su fascia rossoblù «Giacobazzi», lo sponsor del suo Gruppo Sportivo di appartenenza.
Gone (Giro) Baby Gone
Fra i 155 al via da Marotta (Pesaro), schierati in 27 squadre fra regionali italiane e nazionali, oltre al “Panta” – perché allora è solo così che tutti lo chiamano – i più accreditati sono il toscano Casagrande, col dorsale #1 di vincitore uscente, e Guerini, terzo nel 1991 e primo nel 1993, col #98 della Lombardia D.
Tanti i prospetti interessanti, anche in ottica pro’: lo stesso Belli che aveva vinto nel 1990, Vincenzo Galati e Andrea Noè pure loro sul podio finale, Daniele Cignali, il georgiano poi naturalizzato statunitense Vassili Davidenko, Gian Matteo Fagnini, Marco Fincato, Riccardo Forconi, Massimiliano Gentili, il velocista Nicola Minali, il futuro tricolore dei professionisti Filippo Simeoni, Luca Panichi (poi scalatore in carrozzina dopo il suo terribile incidente in un Giro di Umbria, Mariano Piccoli, Leonardo Piepoli che vincerà nel 1994, Michele Poser, Luca Scinto, Marco Serpellini, i fratelli Maurizio e (il povero) Simone Tomi, Paolo Valoti.
Per otto tappe Pantani corricchia coperto in fondo al gruppo, abitudine-vizio che, in attesa delle salite, non perderà mai nemmeno da pro’. E tiene d’occhio da lontano i rivali più pericolosi. Su tutti l’ucraino Alexander Gontchenkov, leader per una settimana e vincitore di due tappe: la prima (Marotta-Mondolfo) e la crono di Marina di Pietrasanta (Lucca) alla quinta. La rivelazione Serpellini, non ancora ventenne, gliela sfila alla settima, prima di cederla, alla nona, a Belli.
Poi, negli ultimi tre giorni, al terzo tentativo e dopo due podi in fila, il Panta si prende – finalmente – il Giro Baby.
E lo fa alla sua maniera, mirando alle stelle.
Con la vittoria a Cavalese lo ipoteca. E l’indomani lo blinda prendendosi maglia e tappone dolomitico che prevede Sella, Gardena, Valparola e l’arrivo ai 1347 di Piani di Pezzè, sopra ad Alleghe.
Già maglia verde di leader del GPM, s’invola sul Valparola e trionfa in solitaria nel pienone assiepato sul rettilineo d’arrivo staccando di 2’02” Pavel Cherkasov (russo della allora CSI), 2’26” Andrea Noè (Lombardia C), 2’37” Alexander Chefer (altro CSI ma kazako) e di 2’38” Vincenzo Galati (Lombardia D).
Conquistata così pure la gialla della generale, deve solo difenderla nella 11ª e ultima tappa, la Alleghe-Gaiarine di 145 km. Una scampagnata con due colli di seconda categoria (il Nevegal e il Campon) vinta da Mariano Piccoli (Veneto A).
Pantani, a 22 anni, conquista il 22° Giro d’Italia Dilettanti con 1’32” su Vincenzo Galati (Lombardia D) e 2’16” su Andrea “Brontolo” Noè (Lombardia C).
Terzo, secondo e finalmente primo in altrettante partecipazioni.
«Mi toccava vincere se non altro per continuare la serie – racconta su Bicisport di luglio 1992 a Enzo Vicennati, poi uno dei giornalisti storicamente a lui più vicini, per reciproche stima ed empatia – Nel ’90 finii in terra e fui costretto a correre con un reggispalle. L’anno scorso persi nelle tappe di pianura. Quest’anno, era ora, è andato tutto bene».
Marco dedica il suo primo successo importante al nonno Sotero, che gli aveva donato la prima bici da corsa: una Vicini rossa. Quanto al suo innato senso di Smilla per la montagna, dice sorridendo a Gino Goti, regista tv della corsa: «E pensare che la mia prima vittoria nelle categorie giovanili l’ho ottenuta nel 1984 a Case Castagnoli di Cesena: tutta pianura».
Una cometa a Merano
Tutta montagna invece quella aspetta lui e i girini al via della Lienz-Merano.
Primo tappone della due giorni dolomitica al Giro dei “grandi” 1994, il suo secondo dopo la tendinite che l’anno prima – al debutto nei pro’ – lo aveva costretto al ritiro alla 18ª tappa, la Sampeyre-Fossano. Alla vigilia del suo territorio di caccia: la cronoscalata di Sestriere e il tappone di Oropa. Quella della rimonta sui 49 dopo il salto di catena al Giro ’99.
Sabato 4 giugno, la 14ª frazione prevede, oltre il secondo sconfinamento in due giorni dopo quello sloveno di Kranj, 235 km e cinque Passi di cui tre oltre quota 2000 metri di altitudine (cioè un altro sport): Stalle (2052), Furcia (1759), delle Erbe (2004), di Eores (1863) e quello di Monte Giovo (2094) prima della discesa di 42 km fino all’arrivo.
Ed è proprio in discesa, due volte, che il Panta finalizzerà la sua prima grande impresa da professionista.
Nata andando a prendere sul Giovo lo svizzero Pascal Richard, in fuga da 112 km. Ancora misconosciuto esponente della Nouvelle Vague del ’70 – lui, la maglia rosa Evgeni Berzin e Michele Bartoli, primo in solitaria il giorno prima a Lienz (col Panta a inseguire in picchiata lui e Fabiano Fontanelli) – aveva fatto le prove generali scendendo di nuovo a tutta ma stavolta dalla città austriaca.
E aveva rifinito il capolavoro planando a Merano con 40” sul gruppo, poi regolato in volata da Gianni Bugno su Claudio Chiappucci, suo rivale per antonomasia ma più per sponsor e media che tra i diretti interessati. Perché la vera rivalità con Bugno, sentita più dal trentino che dal brianzolo, c’è sempre stata con Maurizio Fondriest.
Il Panta scende con un fuoco erasmiano. Il suo è un Elogio alla follia su due ruote: ma fuori sella. A uovo.
La posizione a braccia allungate e busto proteso col sedere sospeso, oggi vietata dalla UCI (la federazione internazionale), che in tv aveva visto tenere a Dmitrij Konyshev al mondiale francese di Chambéry ’89.
Il secondo per lo statunitense Greg LeMond, a sei anni da Altenrhein ’83 e due dopo il terribile incidente di caccia (impallinato per sbaglio dal cognato). E conquistato, in una sorta di simbolica fine Guerra Fredda, proprio davanti al russo allora ancora sovietico Konyshev, ancora oggi nell’ambiente come direttore sportivo (dal 2020) del team Gazprom-RusVelo e papà dell’italianissimo Alexander attuale professionista con la Corratec.
Chiappucci però è anche il capitano nonché compagno di camera del Panta alla Carrera. E conoscendolo, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non è che quell’azione e le successive inazioni le avesse prese benissimo.
«È sempre la stessa solfa – si era sfogato al traguardo con Eugenio Capodacqua de la Repubblica – : quello non collabora perché è stanco, quell’altro perché deve difendere la maglia verde, quell’altro ancora perché aspetta il compagno: insomma, alla fine mi sono ritrovato solo. Ormai succede sempre».
Il Diablo, peraltro mai amatissimo in gruppo e ancor meno in squadra, ci aveva provato in tutti i modi ad andar via. Era pure nella fuga giusta, con 2’40” di margine e davanti il solo Giovo prima della planata verso l’arrivo. Ma prima la Polti di Bugno e Gotti e poi la Gewiss-Ballan della maglia rosa Berzin non gli avevano dato scampo.
E lo stesso Bugno aveva giustificato così, nel dopo-gara a Pietro Cabras del CorSport, la tattica attendista sua e degli altri big (su tutti la maglia rosa Berzin e Miguel Indurain): «È assurdo: “passeggiate” di 240 km non servono a niente, ci vorrebbero tappe brevi e durissime. E poi quaranta km di discesa prima del traguardo, ti tolgono la voglia. La tappa giusta è quella di domani». Un insospettabile e pionieristico modernismo ciclistico, quello di “Vedremo” – meravigliosa cornice in cui per l’intercalare e i tentennamenti lo incasellò Gianni Mura – E che però almeno il pronostico l’avrebbe azzeccato. Il tappone giusto sarebbe stato quello del giorno successivo. Giusto per Pantani, però.
Quell’alieno la cui Epifania al Nuovo Mondo si era appena palesata alzandosi sui pedali sopra Bolzano, al primo chilometro della Valle del Passi di Monte Giovo. E che, insospettabilmente, stava per concedere, concedersi e concederci un irresistibile, e spartiacque, bis. Out of the blue, un giorno all’improvviso.
Come in A Star Is Born per Esther Hoffman Howard (Barbra Streisand) e Ally Maine (Lady Gaga) nel remake di 42 anni dopo. E niente, in primis per la neonata stella, sarà come prima. A cominciare dalla sua squadra.
Bene, bravissimo, bis
Alla fine, per l’alta classifica, le prime montagne “vere” avevano partorito un topolino di distacchi minimi o nulli.
Alla partenza da Lienz, Berzin era in rosa con 2’16” sul francese Armand de Las Cuevas (della Castorama), 2’32” su Bugno, 3’39” su Indurain (Banesto) e Pantani a 6’28” a chiudere la top 10.
All’arrivo a Merano, Berzin in rosa era rimasto, con gli stessi margini o quasi. Bugno, ora a 2’24”, con la volata aveva rosicchiato gli 8” di abbuono. E, saltati Marco Giovannetti e Francesco Casagrande, l’unico bel balzo lo avevano compiuto, più in posizioni che nei tempi, Belli e Pantani. I protagonisti del famoso Giro Baby del ’92, quando Marco sfilò a Wladimir la maglia gialla vincendo a Piani di Pezzè al penultimo giorno, ricordate?
Qui invece il bergamasco restava ancora a 5’24” ma salendo da settimo a quinto. Il romagnolo, con i 40” guadagnati su Berzin e i 12” di abbuono per la vittoria di tappa, schizzando dal 10° posto a +6’28” al sesto a +5’36”.
Il suo a quel punto forse già co-capitano Chiappucci, invece, languiva dieci gradini più giù, 16° a 10’35.
Chiaro che, per il tappone dell’indomani, nella pentola Carrera qualcosa (di grosso) stesse bollendo.
La 15ª frazione, domenica 5 giugno (data non banale nella Pantaneide), è la Merano-Aprica di 195 km con tre GPM: i 2758 metri dello spauracchio Stelvio dopo 73 km, i 1852 del Mortirolo ai 142,4 km e i 1427 del Valico di Santa Cristina prima di scendere in 6,6 km ai 1181 metri di altitudine del traguardo.
Ne verrà fuori un tappone epocale, di quelli da raccontare ai nipotini: io c’ero.
Il Panta se ne va via sul Mortirolo, e dove sennò?
Nel tratto più duro, nel territorio di Mazzo di Valtellina, dove – a imperitura memoria – oggi campeggia il monumento, voluto dall’Assocorridori e finanziato dalla Bianchi, che ne ricorda lo storico scatto. E meta di continuo pellegrinaggio di cicloamatori e semplici appassionati.
Nell’azione si trascina dietro il Chiappa e Franco Vona, compagno nella GB-MG di quel Richard che Pantani era andato a prendere in fuga il giorno prima sul Giovo. Vona però ha dato tutto per passare primo sullo Stelvio, Cima Coppi di questa edizione. Marco scollina da solo con 10” sul colombiano Nelson “Cacaito” Rodríguez, un escarabajo persino più leggero di lui, 40” su Gotti e Belli, 50” su Indurain, 1’50” su Chiappucci, 2’23” su Berzin e 3’10” su Bugno.
A rispondere a Pantani ci provano stavolta i primi due della generale, Berzin e de Las Cuevas, ma saltano presto sugli scatti reiterati e irresistibili di quel satanasso delle salite.
A loro si aggiunge poi Indurain, che li rimonta fiondandosi a tomba aperta giù dal Mortirolo.
Ed è lì che subentra tutta la sapienza tattica di Beppe Martinelli, il rampante direttore sportivo cresciuto alla scuola di Davide Boifava nella Carrera e che il Panta avrà, tranne le ultime due stagioni, anche nei trionfi alla Mercatone Uno.
Il saggio “Martino”, sul falsopiano dopo la discesa, gli consiglia di temporeggiare: «Mangia, bevi e aspetta Indurain». Genialata. Il navarro, in coppia con Rodríguez, ci riesce a ridosso dell’Aprica.
Perché poi, sul Santa Cristina, l’alieno col #34 s’invola e agli umani non resta che prenderne il dorsale.
Lo rivedranno al traguardo, che Pantani taglia forzando fino all’ultimo. Prima di esultare a braccia levate e pugni chiusi dopo quasi sette ore di corsa e in pratica – a forza di scatti e rilanci – più fuori che in sella: 6h 55’ 58. La doppietta Carrera si completa con Chiappucci piazzato a 2’52”. Belli è terzo a 3’27”, Rodríguez e Indurain seguono a 3’30”.
Berzin, sesto a 4’06”, conserva la rosa ma con “solo” 1’18” su Pantani e 3’03” su Indurain, che scavalca Bugno, ottavo a 5’50” all’arrivo e ora quarto a 4’08” nella generale.
Al traguardo tutta la Carrera è in lacrime, dal giemme Boifava al meccanico Michele Gatti, che – parole sue – non piangeva così da tre anni.
Tolta la poi ininfluente cotta di Oropa ’93 contro Piotr Ugrumov, mai re Indurain era stato così nudo. «Ho rischiato l’osso del collo giù dal Mortirolo – confiderà a Gianni Ranieri de la Stampa il sovrano prossimo ad abdicare – ma negli ultimi dieci chilometri ho preso una legnata». Dopo i suoi due anni di dominio al Giro, il cambio generazionale era già in atto. E il navarro, staccato due volte di prepotenza, lo aveva capito forse prima e di sicuro meglio di tutti.
Non per caso, di lì a sei settimane, al Tour saranno Indurain, Ugrumov (col senno del poi un altro “Mr. 60%” di ematocrito come il danese Bjarne Riis) e Pantani, terzo e maglia bianca al debutto, a salire sul podio finale di Parigi.
Quello esploso nella due giorni alpina è infatti un Pantani diverso: nella percezione che ne hanno i media, il gruppo e persino se stesso: nella propria consapevolezza, più ancora che nella mai mancatagli autostima.
«Ora siete in tanti a dire che posso vincere il Giro – dice a Leonardo Coen de la Repubblica – Se lo dice anche Berzin è perché forse, ha un po’ di paura, ha visto come vado in salita. Io non ho niente da perdere, la maglia rosa non ce l’ho».
Guidato dal suo (ormai ex) capitano Moreno Argentin, Grande Vecchio al passo d’addio come Felice Gimondi con Johan De Muynck al Giro ’78, la rosa se la terrà fino alla fine la meteora Berzin. Come il Panta un altro ragazzo del ’70.
Il russo (dunque anche maglia bianca) trionfa con 2’51” sull’italiano e 3’23” sul vincitore uscente Indurain.
Il cerchio aperto fra Merano e Aprica il 4-5 giugno 1994 si chiuderà in un lustro, il 4-5 giugno 1999 a Campiglio. Anche allora con Aprica, Santa Cristina e Mortirolo. Ma in ordine inverso e senza più il Panta.
Da cometa a supernova, e per sempre alieno.
7) Mondiale 1995: Il bronzo «magico» di Duitama
Domenica 8 ottobre, 62ª edizione dei Campionati del mondo
Prova in linea (265,5 km)
Era come se avesse «piovuto per quattro anni, undici mesi e due giorni».
«Il mondo», comprese le strade appositamente appena asfaltate, «era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito».
Grazie, Gabo. Altro che terra, più luna di Macondo.
Mai il campionato del mondo s’era – e s’è più – arrampicato così prossimo al nostro satellite: fino ai 2833 metri in vetta all’Alto del Cogollo (dal versante per “la gruta”, la grotta), e senza mai scendere da quota 2400 di altitudine.
Duitama 1995: il mondiale più duro da Sallanches 1980 e fino a Innsbruck 2018.
In Francia, sulla terribile Côte de Domancy, vinse il Bernard Hinault più grande. Con tre “eroici” azzurri – Gibì Baronchelli (2°), Miro Panizza (4°) e Giovanni Battaglin (9°) – nella top 10 e gli unici italiani fra i soli 15 arrivati dei 107 partiti. Un’ecatombe sparpagliata in 268 km, e sette ore e mezza di supplizio, dai 35,554 km/h di media del Tasso. Alla lettera più che mai le Patron, di casa come del peloton.
In Austria, con un Vincenzo Nibali che la bretella di uno pseudo-fotografo, il 19 luglio sull’Alpe d’Huez, ha tirato giù dal Tour (frattura composta alla decima vertebra) e dunque dai favoriti per l’arc-en-ciel –, domina un quartetto di stambecchi: lo spagnolo Alejandro Valverde, il francese Romain Bardet, il canadese Michael Woods e il neerlandese Tom Dumoulin.
Regolati in una volata che l’Imbatido non poteva perdere, a coronamento di una carriera tanto longeva quanto leggendaria. Quinto a 13” il miglior Gianni Moscon poi rivisto solo nella per lui sfortunatissima Roubaix (ottobrina per Covid-19) vinta da Sonny Colbrelli. Altrettanto stoici l’eterno Domenico Pozzovivo 21° a 1’21”, Alessandro De Marchi 40° a 5’05” e lo stesso Nibali 49° a 6’02”, gli altri azzurri meglio piazzati fra i 76 superstiti dei 188 partiti da Kufstein.
Mai visto un mostro come il Gramartboden: 2800 metri all’11,5% medio e punta che, per pochi metri, rasenta il 28%.
Fidatevi, c’eravamo: ultimi 1,7 km infernali, mai sotto il 10,6%, con poco più di 300 metri al 19,7%. Più duro del Muro d’Huy, ecco perché il “Balaverde” – recordman con nel palmarès cinque Freccia Vallone – là non poteva perdere.
Il mondiale colombiano è però molto altro (e alto).
Perché per i pro’ è il terzo (dopo Montreal ’74 e San Cristobal ’77) nel Nuovo Mondo, il secondo sudamericano (in Venezuela, vinse Moser sotto il diluvio) e il primo che si disputa a ottobre.
E per il contesto che nella “perla del Boyacá”, capoluogo e maggior centro urbano della provincia di Tundama, nella regione centro-orientale dell’Alto Chicamocha, ne ospita la ultraselettiva 62ª edizione: dei 98 partiti, sui 106 iscritti, ne arriveranno 20.
La gara in linea, domenica 8, prevede un circuito di 17,7 km da ripetere 15 volte per un totale di 265,5 km. E un unico, grande favorito: Miguel Indurain, fresco dominatore, mercoledì 4, della prova a cronometro con 49” sul connazionale Abraham Olano (annotatevelo) e 2’03” sul tedesco Uwe Peschel. Miglior azzurro Maurizio Fondriest nono a 3’56”, 14° a 4’44” Andrea Chiurato, argento a Catania ’94 dietro il fenomenale britannico Chris Boardman.
Miguelón aveva divorato i 43 km (con 580 metri di dislivello) da Paipa a Tunja a 46,486 km/h di media. Irreale.
In stagione aveva già vinto crono e generale al Delfinato e poi il suo quinto Tour de France. Recordman ogni epoca (con Jacques Anquetil, Eddy Merckx e Hinault) ma l’unico a riuscirci in fila, vista la successiva revoca, per doping, dei sette di Lance Armstrong.
Presa la maglia gialla con la crono-fiume di Seraing (54 km) all’8ª, l’aveva blindata con quella di Lac de Vassivière (46,5 km) alla 19ª, dopo aver lasciato agli altri le briciole contro il tempo (il prologo di Saint-Brieuc a Jacky Durand) e poi controllando il resto da signore del gruppo quale è sempre stato.
Più che ovvio, per di più con una Spagna forse mai così forte, fosse lui l’osservato speciale. Del resto, non aveva nascosto che fosse proprio la doppietta iridata il suo principale obiettivo dell’annata.
Stravinto il Tour, era andato a prepararla in altura, a Fort Collins, in Colorado, con il fratello Prudencio e altri tre compagni della Banesto: i connazionali José María Jiménez e Santiago Blanco e lo statunitense Andrew Hampsten, homeboy di Boulder a far loro da cicerone sulle proprie strade di casa.
Non solo: nelle sue sei settimane di preparazione, nulla era stato lasciato al caso. Dopo qualche giorno di acclimatamento, e sempre sotto il controllo del suo fedele doctor Sabino Padilla, Indurain aveva lasciato quota duemila per raggiungere un rifugio ai 2600 metri, per simulare ancora meglio l’altitudine e le condizioni di gara che avrebbe poi trovato a Duitama.
Dopo due settimane, lo aveva raggiunto Miguel Echavarri, suo storico diesse alla Banesto, per rifinire negli ultimi dettagli un programma di avvicinamento ancora più specifico e mirato.
Infine, una volta note le convocazioni da parte del Ct Pep Grande, quattro nazionali – Fernando Escartín, Aitor Garmendia, José Ramón González e Francisco Mauleon erano volati in Colombia con un mese di anticipo per allenarsi in loco.
Eccetto gli escarabajos di casa (su tutti Oliverio Rincón, Israel Ochoa e José Gonzalez e Nelson “Cacaito” Rodriguez), che a quelle altitudini ci sono nati e cresciuti, in pochi sembrano poter insidiare la corazzata spagnola.
L’Italia è al solito “La Squadra”, come ci chiamano all’estero a ogni rassegna internazionale. Ma stavolta forse non così in grande condizione, e soprattutto unita e compatta, come in altre edizioni. I co-capitani designati sono Gianni Bugno, anche se, dopo l’esclusione del ’94 per l’affaire-caffeina è lontano da quello del bis iridato di Stoccarda ’91 e Benidorm ’92; Claudio Chiappucci, perfetto per il tracciato e idolo in Colombia per il secondo posto nel Clásico RCN 1992 (primo podio per uno straniero) e il modo di correre (il suo nick “el Diablo” è nato là); e come terza punta Marco Pantani, capace in salita di fare sconquassi come ha dimostrato al Tour, tre mesi addietro, con la doppietta Alpe d’Huez e Guzet-Neige.
Al loro servizio, il Ct Alfredo Martini ha chiamato Francesco Casagrande (la quarta opzione), Davide Cassani, Stefano Colagè (che la Colombia la conosce dal ’92), Alberto Elli, Gianni Faresin, Ivan Gotti, Paolo Lanfranchi, Oscar Pellicioli e Leonardo Piepoli, neopro’ che nel ’94 ha vinto il Giro Baby e da cui il selezionatore si aspetta «una corsa superba».
La Svizzera, pur con soli quattro corridori al via (ma poi tre nei primi dieci), conta su Mauro Gianetti e Pascal Richard, iridato nel cross ’88 e dato in gran forma dopo aver rivinto, il 16 settembre davanti a Piepoli e con Bugno ritiratosi, il suo secondo Giro del Lazio in tre anni. Alla vigilia si è però beccato l’influenza che fatalmente lo condizionerà. Sia Gianetti sia Richard saranno comunque fra i protagonisti, chiudendo nell’ordine appena giù dal podio.
Subito dopo di loro, lui pure rispettando i pronostici, arriverà Richard Virenque, leader di una Francia con buoni corridori (Pascal Hervé, Laurent Brochard, iridato a sorpresa a San Sebastián ’97, Laurent Madouas) ma priva di stelle.
Tra gli outsider il russo Dmitri Konyshev, discesista spericolato (da lui il Panta ha mutuato la posizione “a uovo” vista in tv al mondiale di Chambéry ’89), il danese Rolf Sørensen, il nederlandese Erik Breukink e lo stesso Hampsten, gli ultimi due rispettivamente vincitore di tappa e nuova maglia rosa nella tregenda del Gavia al Giro ’88, poi vinto dall’americano.
Sulla carta il percorso, come la salita – 4 km al 6,6% medio e 20% massimo – è duro, ma non “impossible”. E invece tale si rivelerà, per la carenza di ossigeno, l’ancor più asfissiante umidità e la pioggia battente che rende le strade appena rifatte ancora più pericolose per via dei rivoli di terriccio che le attraversano.
Pronti-via ed ecco i primi giù per terra, tra questi gli svizzeri Rolf Järmann e Richard, che però se la cavano con poco.
Bugno si stacca subito, rientra ma al quarto giro, dopo 68 km, si ritira per difficoltà respiratorie. Una grande speranza azzurra salta subito, e nel dopo gara il Gianni si sentirà addirittura di chiedere scusa per la sua giornata-no. Il peso della corsa per l’Italia sarà quindi tutto sulle spalle di Claudio Chiappucci, con Pantani primo guastatore.
Al terzo giro la prima vera azione, il francese Laurent Roux – a caccia di un contratto per la stagione successiva – guadagna fino a 5’ e resta in fuga per cento km, fino al nono giro.
È là, ai -100 km che parte il Chiappa con l’altro azzurro Faresin e gli spagnoli José Ramón González (quasi omonimo del colombiano José Jaime González) e Francisco Javier Mauleon, non a caso scudieri di Indurain volati con lui in Colorado.
Chiappucci però scivola due volte in discesa e a tre giri dalla fine si ritira.
Errore forse esiziale, il suo come di Piepoli e altri tra cui Pantani (che a ogni scatto sente partire la ruota posteriore), di farsi montare i copertoncini a mescola differenziata nero-arancio (adatti a percorsi asciutti) anziché morbida o i tubolari, dopo l’acquazzone che nell’arco di dieci ore ha allagato, e stravolto, il circuito. E siccome piove sempre sul bagnato, già da come gli inservienti in aeroporto ne avevano maltrattato la bici (tubo orizzontale ammaccato) si poteva presagire che quello nella “sua” Colombia non sarebbe stato il mondiale del Diablo.
Altra azione destinata a fallire quella promossa dallo svizzero Felice Puttini (poi decimo) e tamponata dallo spagnolo Escartín, che guadagnano non più di trenta secondi.
Gli italiani restano in quattro: col Panta, sin lì guardingo, i generosissimi Lanfranchi (poi 17°), Casagrande (12°), dato fra i più forma dei suoi, e Pellicioli (16°). Via via, infatti, si ritirano Cassani (poi sul palco con Adriano De Zan a commentare per la RAI il finale), Colagè, Elli, Gianni Faresin, Gotti e Piepoli.
La corsa esplode sull’ascesa finale. Ai -20 km lo spagnolo Olano infila tutti di sorpresa.
Alla campana dell’ultimo giro ha 20” di vantaggio, che ai piedi della salita schizza a 46”.
Pantani, che in buona probabilità ha sbagliato ad attaccare a quattro giri dalla fine, ha una gran gamba ma è da solo. Col senno del poi, con ancora i tre compagni superstiti al fianco, forse sarebbe potuta andare diversamente. Ma è un forse grosso così, e la controprova – nel ciclismo come nella vita, figuriamoci nel Paese del «realismo magico» – non c’è.
Dietro, con lui e Gianetti, c’è Indurain – che ci aveva provato nella spianata sotto lo striscione d’arrivo – che però ormai non “può” più attaccare perché in fuga c’è un suo compagno.
Davanti, ai -800 metri el golpe de efecto come solo nella terra di Macondo: Olano fora il tubolare posteriore.
Il sosia, quasi lombrosiano, del suo capitano però non fa un plissé, e sotto l’acqua spinge a tutta fino al traguardo cercando solo di non sbandare e di non dilapidare i 16” di vantaggio.
Il basco Abraham Olano Manzano – nato a San Sebastián il 22 gennaio 1970, nove giorni dopo il Panta – oltre che primo spagnolo iridato nella prova in linea è il primo campione del mondo a ottobre.
Chiude ai 37,054 km orari di media dopo 7h 09’55 di corsa. A metà tra le sette ore e mezza di Hinault a Sallanches ’80 e le sei ore e tre quarti di Valverde a Innsbruck 2018.
A 35” (Olano ha persino guadagnato), nella volatona a quattro, resta giù dal podio Gianetti (oggi pezzo grosso nello staff alla UAE Emirates di Tadej Pogačar), e Miguelón con un colpo di reni da finisseur brucia il Panta per l’argento.
«È andata abbastanza bene, ma io penso che poteva andar meglio», dirà sconsolato il miglior azzurro al traguardo.
Quinto a 53” Richard, sesto Virenque a 1’31”, a 1’53” il gruppo con Konychev, Rincón, Sörensen e Felice Puttini, il terzo su quattro svizzeri in gara a finire nella top 10. Ultimo, a 37’55” col messicano Miguel Arroyo, proprio Hampsten. Quello della tormenta sul Gavia e il cicerone di Indurain negli USA.
Tutto torna nel Paese del realismo magico. Ma solo per chi, con la malicia indígena, c’è nato.
Sul podio, il Pirata sfoggia una medaglia che neanche all’inno lo fa sorridere. Quasi avvertisse un drammatico presagio.
Dieci giorni dopo, il 18 ottobre, l’incidente contro un suv alla Milano-Torino.
Il suo perenne calvario è appena – e solo – (ri)cominciato. Dalla luna di Macondo all’inferno in terra.