Wimbledon 2018, Djokovic fuori dal purgatorio

Tennis

Federico Principi

Dopo due anni estremamente difficili, Novak Djokovic è tornato a vincere uno Slam e lo ha fatto in quello più prestigioso. È davvero tornato ai suoi livelli?

Chissà se la scelta di Novak Djokovic di allontanare Andre Agassi e Radek Stepanek dal suo box, per richiamare Marian Vajda e il preparatore atletico Gebhard Gritsch dopo un lunghissimo periodo di purgatorio dalle molteplici cause, è stata frutto di una folgorazione improvvisa o di una lunga presa di consapevolezza. «Le decisioni deliberatamente sbagliate sono prese in un luogo oscuro, molto sotto la superficie», scriveva proprio Andre Agassi nella sua celebre autobiografia, Open. Ma forse è proprio lo stato mentale di agitazione che impedisce di avere l’equilibrio corretto per compiere le scelte giuste e che in seguito cambia la percezione del proprio passato, e del tempo e del luogo in cui sono state prese determinate decisioni, allontanandolo dalla prospettiva presente.

Ma c’è un altro passaggio di Open, sempre dove Agassi descrive la sua crisi a cavallo tra il 1997 e il 1998, nel quale Djokovic potrebbe rivedere sé stesso e la sua condizione di qualche mese fa: «Toccare il fondo può essere confortevole perché almeno ti puoi riposare. Sai che non andrai da nessuna parte per un po'».

Il punto più basso della carriera di Djokovic è stato raggiunto probabilmente quest’anno con i due Master 1000 americani di Indian Wells e Miami e le rispettive sconfitte nella prima partita del torneo contro Taro Daniel e Benoit Paire. In quelle tre settimane che lo separavano dal successivo appuntamento nella sua agenda – Montecarlo – Djokovic ha deciso di ricomporre il suo team storico. Nel Principato ha vinto una difficilissima partita contro Borna Coric, ma è arrivato a corto di energie nel finale contro Dominic Thiem. A Barcellona e Madrid, nelle rispettive sconfitte contro Klizan ed Edmund, ha sofferto molto di mancanza di ritmo partita e di abitudine a trovare il giusto equilibrio di tensione e concentrazione nei momenti importanti. In mezzo una partita da Djokovic vero, contro Nishikori a Madrid, ma per certificarne la reale rinascita, anche fisica, si è dovuto aspettare l’ottima semifinale giocata a Roma contro Nadal, tale da metterlo tra i primissimi favoriti al Roland Garros anche in virtù delle sue specifiche caratteristiche, da sempre ideali per contrastare il campione di Maiorca.

Djokovic ha messo in dubbio la sua partecipazione sull’erba dopo la dolorosa sconfitta contro Marco Cecchinato al Roland Garros, avvenuta in realtà più per meriti dell’italiano. In quelle dichiarazioni traboccava però una resa momentanea, una delusione effimera che solo per pochi istanti ha interrotto il travolgente periodo di crescita che lo stava investendo, oltre ogni aspettativa e oltre la rabbia istantanea di quella sconfitta. I risultati sono stati evidenti: in due tornei su erba Djokovic ha perso un solo match, in una combattutissima finale al Queen’s contro un giocatore fortissimo sui prati come Marin Cilic, prima di vincere Wimbledon battendo in semifinale forse il miglior Nadal di sempre sui campi veloci.

Probabilmente la risposta alla questione sul fatto che Djokovic abbia ricomposto il suo vecchio team per una scelta estremamente ponderata o per una decisione di emergenza, di rifugio immediato nelle antiche certezze, non è univoca o chiara. Forse, proprio come diceva Agassi, il fatto che abbia toccato il fondo gli ha permesso di rilassarsi e di arrestare, finalmente, la sua parabola discendente, ritrovando la lucidità e smaltendo finalmente l’isteria. La distanza che aveva sugli altri, prima di iniziare il percorso verso il basso, è stata solo un’agevolazione in più, ma è il punto di partenza necessario attraverso il quale provare a ricostruire se stessi, accettando il mutamento del contesto.

Un nuovo Slam

Nel percorso di redenzione di un campione come Novak Djokovic, il quarto trionfo a Wimbledon passa perfino in secondo piano a livello statistico di fronte a cosa può realmente significare per gli equilibri attuali, futuri e storici del tennis il ritorno ingombrante di Djokovic in una delle migliori versioni di sé. Eppure anche in questo Wimbledon, e soprattutto nelle ultime due partite, il serbo ha dato nuovamente prova della sua competitività non solo dal punto di vista fisico, dopo il problema al gomito e il lungo stop, ma anche nelle esecuzioni tecniche e finalmente nella continuità mentale, espressa sotto forma non solo di concentrazione e riduzione all’osso dei passaggi a vuoto, soprattutto nei momenti cruciali, ma anche nelle scelte tattiche.

Nella partita di ieri Djokovic ha effettuato tre aggiustamenti principali rispetto alla sfida contro Nadal, conclusa meno di 24 ore prima, che di conseguenza sono stati preparati in pochissimo tempo. Innanzitutto fin dal primo game si è visto come Djokovic abbia spesso e volentieri utilizzato il back per spezzare il ritmo e far piegare un giocatore alto più di 2 metri come Anderson. A un certo punto una grafica suggeriva che il rovescio in top di Djokovic aveva un’altezza media di poco più di un metro – quindi a livello del bacino di Anderson, in condizioni ideali di impatto – mentre il rovescio tagliato veleggiava a poco più di 50 centimetri da terra dopo il rimbalzo, costringendo quindi Anderson a colpire la palla praticamente a livello delle ginocchia. Rispetto alla semifinale contro Nadal, Djokovic a inizio secondo set stava giocando in back quasi la metà dei colpi di rovescio (45%) mentre contro lo spagnolo avveniva solo nel 7% dei casi, principalmente per recuperi in allungo di emergenza.

Oltre a questo, Djokovic è stato bravo a variare il servizio. Di solito le sue traiettorie preferite sono quelle verso la propria destra, quindi al centro da destra ed esterno da sinistra, ma con il nuovo servizio implementato a inizio anno per limitare le rotazioni del gomito – facendo salire subito la testa della racchetta in caricamento – Djokovic era stato costretto a migliorare i tagli interni perché faceva fatica a usare il kick. Ecco quindi che contro i suoi ultimi due avversari a Wimbledon ha privilegiato entrambi i servizi a seconda del contesto tattico: contro Nadal ha sfruttato la maggiore apertura di dritto e il minore anticipo della risposta da quel lato dello spagnolo, mentre anche contro Anderson il serbo ha preferito evitare la solidissima risposta di rovescio bimane, ma essendo il sudafricano destrorso Djokovic ovviamente doveva cambiare lato.

La direzione delle prime di servizio di Djokovic a confronto nelle ultime due partite. Molto più pronunciato il servizio centrale da destra contro Nadal, mentre anche il rapporto tra servizio esterno e interno da sinistra è più sbilanciato contro lo spagnolo, sempre per cercargli il dritto.

In aggiunta a questo, Djokovic ha utilizzato molto di più il dritto lungolinea rispetto a quello in diagonale, che aveva invece privilegiato contro Nadal per stanarlo più possibile sul rovescio, un colpo che Djokovic legge bene in anticipo anche perché la postura dello spagnolo nella preparazione del colpo di solito è piuttosto diversa tra rovescio diagonale e lungolinea. La scelta di giocare il dritto lungolinea contro Anderson, invece, rispondeva all’esigenza di evitare anche e soprattutto il dritto lungolinea del sudafricano, che insieme al servizio avrebbe dovuto rappresentare la chiave attraverso cui Anderson avrebbe provato a costruire un minimo di possibilità di vincere la partita, e che invece è mancato praticamente per gli interi primi due set.

In più, Anderson solo nel terzo set è riuscito a vincere più dell’84% di punti fino a 3 colpi sul suo servizio, e solo nel terzo parziale è riuscito a ottenere più del 50% di punti con la sua seconda: 64%, contro i miseri 36% del primo set e 44% del secondo. La sua percentuale di prime in campo non è stata alta come avrebbe dovuto (61%) e solo un calo mentale di Djokovic, un’inevitabile disabitudine a ritrovare la massima concentrazione dopo due set dominati, ha permesso al sudafricano di ottenere sei palle break alla fine del terzo set, senza tuttavia convertire le sue chance.

Buona parte del match di Djokovic in questo scambio. In difesa gioca con il dritto lungolinea anziché con il diagonale come avrebbe fatto Nadal. Successivamente però gioca incrociato e dà infatti ad Anderson la possibilità di accelerare con il dritto lungolinea, prendendo campo. Con il back, tuttavia, Djokovic mette nuovamente Anderson in difficoltà e lo costringe a scendere a rete, passandolo facilmente.

La grandezza di Novak Djokovic

È stato però nella semifinale contro Nadal, giocata tra venerdì e sabato, che Djokovic ha compiuto il suo vero capolavoro di rinascita. In quella che per la seconda volta, dopo il Roland Garros 2013, è stata la vera e propria finale anticipata di uno Slam tra i due, Djokovic ha finalmente mostrato la sua versione di sé stesso dei vecchi tempi, senza picchi ma con estrema costanza, ritrovando di continuo l’equilibrio mentale che più volte Nadal ha provato a spezzare in ogni modo, anche e soprattutto variando il gioco e ottenendo punti vincenti con qualsiasi colpo possibile.

Probabilmente la semifinale di Wimbledon 2018 verrà ricordata come la migliore sfida tra i due. Forse Djokovic non ha e non avrà più la condizione fisica di annate come il 2011 e il 2015, ma nel complesso ha offerto un rendimento in linea con i suoi periodi migliori, soprattutto con la terribile risposta in anticipo, mentre Nadal ha dimostrato una maturità tecnica e un’adattabilità ai campi veloci – migliorando rovescio in anticipo e lungolinea, smorzate, attacchi e volée in controtempo, risposta in anticipo vicino al campo – mai vista prima.

Buona parte della sfida tra Nadal e Djokovic in questo punto: recuperi miracolosi di Djokovic, rovesci straordinari di Nadal con l’attacco in controtempo finale, sul quale Djokovic aveva perfino recuperato la posizione prima di commettere uno dei suoi pochissimi errori di tutta la partita.

È proprio dal dualismo con Nadal e dalla brutalità di certe sfide nelle quali ciascuno dei due ha spinto il proprio limite sempre più avanti, che nasce la gran parte della grandezza di Novak Djokovic, e non può essere un caso che la sua definitiva catarsi avvenga proprio in un match contro questo Nadal che, pur essendo disputato sull’erba e con il tetto chiuso, rappresentava forse la sfida più difficile possibile considerato il sorprendente livello di gioco mostrato dallo spagnolo – per quanto possa ancora sorprendere.

Ma dalle loro sfide del passato e soprattutto attraverso di esse, Djokovic aveva elevato i concetti di dominio, invincibilità e soprattutto di quella preparazione ossessiva che non è altro che la base attraverso cui si costruiscono le leggende. È bastato un click mentale, un cambio di team, per trasformare in pochi mesi un giocatore che faceva fatica a stare in piedi nei match lunghi in uno che riesce a piegare tecnicamente e mentalmente alla lunga distanza il miglior Nadal di sempre su un campo veloce. Soltanto i grandi campioni, le icone che immediatamente rimandano a un’immagine nel momento in cui viene tirata in ballo l’idea di supremazia, ce la possono fare. E Djokovic è uno di quelli a cui, tra qualche anno, verrà intitolata una determinata epoca, come per tutte le leggende.

L’apprezzamento del pubblico verso Djokovic negli anni è stato singhiozzante, diffidente e sicuramente indegno della qualità mostrata, incapace di cogliere fino in fondo la bellezza di un tipo di tennis molto più completo di quanto appaia. Come troppo spesso accade, la portata storica di certi avvenimenti è stata compresa a pieno soltanto con una messa a fuoco da lontano, dal punto di vista temporale. Improvvisamente Djokovic, che negli ultimi due anni ha mostrato delle oggettive e fisiologhe difficoltà di burnout, perfettamente comprensibili nella dimensione umana, è diventato più simpatico, apprezzato al punto tale che un suo successo Slam diventa una grande storia da raccontare e non più l’ennesima noiosa foto con il trofeo in mano e uno Slam vinto praticamente già negli spogliatoi.

Così, mentre Nadal e Federer nel frattempo hanno riaperto e riscritto i libri dei record di questo sport, a ribadire ulteriormente la straordinarietà di questo scorcio di storia del tennis ci ha pensato il terzo dominatore, perfettamente legittimato a sedersi allo stesso tavolo dei primi due. La straordinaria e velocissima redenzione di Novak Djokovic è forse l’ultimo suggello alla definitiva consacrazione nella leggenda di questo campione. Forse è proprio questo il tipo di narrativa di cui abbiamo bisogno in questo momento: non tanto che arrivino nuovi personaggi, ma che siano le vecchie leggende a rinnovarsi, a stupire e ad ampliare ogni volta i confini di ciò che viene considerato possibile fare su un campo da tennis.