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NBA, la corsa a miglior sesto uomo dell’anno

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Stefano Salerno

Nel secondo episodio dei nostri approfondimenti sui premi della stagione 2016-2017, scopriamo chi sono i candidati per il premio di sesto uomo dell’anno

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Selezionare il miglior giocatore NBA per un determinato aspetto è sempre impresa ardua. In una lega dal così alto tasso competitivo, diventa necessario, per scegliere i candidati più probabili, fare una scrematura: per questo si possono prendere in considerazione ad esempio soltanto quelli che hanno giocato più della metà della loro stagione uscendo dalla panchina e che allo stesso tempo sono riusciti a mettere almeno 10 punti di media a referto. Compiendo questa operazione restano 18 nomi, tra i quali c'è anche quello di Marco Belinelli, positivo e bravo nel rilanciarsi a Charlotte dopo la complessa stagione ai Kings. L'azzurro è sesto per percentuale da tre (36%) in questo gruppo e ottavo per True Shooting (56.6%), dati di tutto rispetto considerando la qualità della concorrenza. Mettere i paletti (numerici per altro) può indurre però in errore, perché bastano ad esempio 19 punti in meno rispetto ai 760 necessari ad avere i "dieci di media", per tenere fuori Patty Mills, straprimo tra i giocatori in uscita dalla panchina per Net Rating con il suo +13.5 e uno che non può non essere preso in considerazione. Per questo ragione merita una menzione speciale anche un altro giocatore, terzo con il suo +10.8, con un impatto enorme nonostante i sette punti scarsi di media: Patrick Patterson, a lungo ago della bilancia delle fortune di un quintetto come quello dei Raptors che da febbraio ha trovato in Serge Ibaka la giusta soluzione tra i titolari a un attacco claustrofobico a livello di spazi. Nelle 55 partite in cui Patterson è uscito dalla panchina, Toronto ha prodotto 112.9 punti su 100 possessi, conquistando 36 vittorie a fronte di 19 sconfitte. Senza di lui, 9-12. Sarà mancato per 21 partite Kyle Lowry, ma l’inizio delle difficoltà dei canadesi sono coincise con l'assenza del numero 54. Soltanto un caso?

Patty Mills, San Antonio Spurs

Il primo dei candidati quindi è Patty Mills.“I punti si pesano e non si contano” (multicit.), e in quanto a valore nessuno ne segna di più rilevanti rispetto al playmaker aborigeno dei texani, la scossa decisiva in uscita dalla panchina, il vero direttore d’orchestra di una squadra che inizia a fare sul serio soltanto quando mette piede in campo lui. Talmente importante che gli Spurs quando non è sul parquet viaggiano “soltanto” a +4.8 di Net Rating, di gran lunga il dato peggiore (sì, è che a San Antonio il segno meno non si vede veramente mai) e ben lontano dal +8.3 medio di squadra. Con Parker e Ginobili sempre più alle prese con gli anni che passano, Mills è diventato implicitamente il playmaker di riferimento della squadra, senza che un vero e proprio passaggio di consegne ne abbia sancito l’incoronazione. In perfetto stile San Antonio Spurs quindi, dove al riconoscimento individuale si preferisce sempre e comunque quello di squadra a fine anno.

Tim Hardaway Jr., Atlanta Hawks

All’interno della stagione in altalena degli Atlanta Hawks, una delle poche costanti è stato il rendimento di Tim Hardaway Jr., sicario pronto a freddare gli avversari a gara in corso. Il ruolo perfetto a cui alle volte coach Budenholtzer ha dovuto rinunciare, costretto a causa degli infortuni a far partire in quintetto il numero 10. Un vero peccato perdere un’arma del genere, come dimostrato da numeri che soltanto in apparenza sembrano premiare l’Hardaway titolare. Il giocatore degli Hawks infatti nelle 27 partite in quintetto è rimasto in campo mediamente per 11 minuti in più rispetto alle sfide in cui è entrato a gara in corso, raccogliendo di conseguenza un maggior numero di punti (17.5 vs. 12.6), di rimbalzi (3.4 vs. 2.4) e di assist (3.1 vs. 1.7). A livello di efficacia però, non c’è paragone e il Net Rating parla chiaro: al +6.8 nelle 49 partite in cui è uscito dalla panchina, fa da contraltare il -2.1 da titolare. Sfruttarlo come killer in corso d’opera sembra essere l’opzione migliore: lui saprà come sfruttare al meglio l’opportunità.

Zach Randolph, Memphis Grizzlies

L’intuizione di coach Fizdale, in parte diventata anche necessità in una lega in cui puoi permetterti sempre meno di schierare due lunghi contemporaneamente in campo, ha pagato alla grande i suoi dividendi. Zach Randolph è il perno attorno al quale ruotano le seconde linee dei Grizzlies, l’àncora a cui aggrapparsi quando Marc Gasol e Mike Conley tirano il fiato. Miglior rimbalzista per distacco tra tutti i non titolari della NBA (8.3 a partita), il numero 50 a questo somma 14.2 punti, frutto del suo primo posto alla voce “canestri realizzati”.Il suo in realtà è un finto ruolo da comprimario, visto che dopo Vince Carter, sono proprio i due All-Star di Memphis a essere quelli che più spesso condividono il parquet con Randolph (882 minuti con Conley, 719 con Gasol, rispettivamente il 50% e il 41% del tempo trascorso sul parquet), spesso e volentieri nelle fasi cruciali di partita. Quando si decide il match, Memphis sa di potersi affidare ancora a lui.

James Johnson, Miami Heat

La proporzione tra chili persi e efficacia guadagnata è tanto ovvia quanto impressionante per un giocatore che sembrava destinato a non trovare mai una dimensione ideale. E non perché il girovita fosse più da sollevatore di hamburger che di pesi, ma perché l’approdo in una squadra giunta a metà stagione con il non invidiabile record di 11-30 sembrava l’ennesimo fallimento di una carriera mai pronta a sbocciare. E invece Johnson con il passare delle settimane è sempre più diventato il James (nel senso di LeBron) della second-unit degli Heat, spesso e volentieri in campo quando il match si decide per davvero. Ironia vuole che dopo 77 partite, il numero 16 abbia giocato la sua prima gara da titolare nell'ultima decisiva sfida vinta contro Charlotte, eguagliando il suo massimo in stagione a quota 26 punti, tirando 10/12 dal campo e 6/7 da tre. Una prestazione eccellente, ma che non deve trarre in inganno: l’impatto di Johnson&Johnson in uscita dalla panchina per Miami ha davvero pochi eguali in tutta la lega. Talmente rilevante da meritare un premio.

Eric Gordon, Houston Rockets

Tante ipotesi, anche molta filosofia. Ma il maggiore indiziato a ricevere il premio di miglior sesto uomo dell’anno non può che essere Eric Gordon, quarto per numero di triple totali realizzate e già recordman da settimane per bersagli dall’arco entrando a gara in corso. In sostanza, nessuna squadra nella storia NBA ha mai avuto a disposizione un giocatore che, uscendo dalla panchina, abbia messo a referto 238 triple (and counting…), tentandone nove a partita e realizzandole con quasi il 38%. Di conseguenza i suoi 16.4 punti sono secondi soltanto a quelli del neo compagno di squadra Lou Williams (di cui parleremo dopo), inseriti in una panchina che è di gran lunga quella con il miglior rating offensivo (110) di tutta la NBA. La settima scelta del draft 2008, scommessa da 53 milioni di dollari in quattro anni fatta in estate dalla dirigenza dei Rockets, è praticamente già vinta. Bisognerà soltanto passare all’incasso, sperando di raccogliere più vittorie possibile ai playoff. E magari il riconoscimento come miglior sesto uomo.

Lou Williams, Los Angeles Lakers/Houston Rockets

E visto che a Houston hanno pensato bene di voler portare a casa a tutti i costi il premio, a febbraio hanno deciso di aggiungere alla corte di coach Mike D’Antoni anche Lou Williams, uno che lo è già stato nel 2015 e che sembra(va) intenzionato a conquistarlo di nuovo. Il cambio d’aria e di sistema ne hanno modificato soltanto in parte il rendimento, calato da 18.6 a 15.2 punti, ma che al tempo stesso lo hanno fatto passare da -1.3 a +3.4 di Net Rating: giocare in una squadra finalmente competitiva certamente aiuta, anche perché il ruolo che gli è stato affidato sembra davvero calzargli a pennello. Attaccare, generare punti veloci e tirare ogni volta che ne ha la possibilità sembra essere il Nirvana per un giocatore del genere. Due anni fa Williams tirava con percentuali peggiori, realizzando meno punti nonostante il maggiore impiego. Adesso se possibile il numero 12 è diventato ancora più funzionale, chissà se abbastanza da meritare nuovamente il premio.

Andre Iguodala, Golden State Warriors

Dopo aver viaggiato in sordina per quasi tutta la regular season, dalla pausa per l’All-Star Game in poi Andre Iguodala è tornato prepotentemente in corsa per il premio che non ha ancora vinto in carriera, nonostante sia stato fondamentale per il successo dei Golden State Warriors nelle ultime tre stagioni. Da metà febbraio in poi, complice soprattutto l’infortunio di Kevin Durant, Iguodala ha spinto sull’acceleratore viaggiando a 10.6 punti di media (contro i 6.4 prima della pausa), tirando col 10% meglio rispetto a prima (da 49.6% a 59.2%), è stato più attivo in difesa (1.3 recuperi e 0.7 stoppate contro 0.9 e 0.4 prima della pausa) e attaccando di più il ferro, tirando il doppio dei tiri liberi con un incremento nel minutaggio di due minuti e mezzo. Uno sprint che, unito alla forma straordinaria degli Warriors nell’ultimo periodo, potrebbe portarlo a rimontare tutti gli altri proprio sul rettilineo finale.