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Niente quintetto All-NBA: cosa cambia per Gordon Hayward e Paul George

NBA

Dario Vismara

L’esclusione dai primi tre quintetti non permetterà a Utah e Indiana di offrire il “super contratto” alle loro stelle: ecco perché ora un loro addio è più probabile

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Come ben sapete, da quest’anno la NBA ha deciso di rivelare i vincitori dei vari premi stagionali in uno speciale televisivo trasmetto da TNT. L’appuntamento è per il 26 giugno a New York, il gran maestro delle cerimonie sarà nientemeno che Drake e i riflettori saranni tutti puntati su una delle corse per il premio di MVP più incerte di sempre. C’è solo un premio, però, che è già stato reso pubblico, quello delle nomine per i tre migliori quintetti della regular season 2016-17. E il motivo è uno solo: da quelle votazioni dipende un particolare tipo di contratto, chiamato Designated Veteran Player Extension, che è stato inserito nell’ultimo contratto collettivo con un obiettivo ben preciso – quello di permettere alle squadre di trattenere le proprie superstar offrendo molti più soldi di quanti possono fare già normalmente. Una reazione a quanto successo la scorsa estate con Kevin Durant, che esattamente come successo nel 2010 per LeBron James ha “spaventato” i proprietari NBA – perché per una franchigia di un piccolo mercato come sono Cleveland e Oklahoma City perdere un giocatore di quel calibro è un colpo tecnico, economico e sociale di proporzioni catastrofiche, e la lega ha tutto l’interesse a favorire la stabilità di certi giocatori in certi mercati.

Come funziona la DVPE

Per capire perché questi tipi di contratti sono così importanti conviene fare un breve ripassino di come funzionano gli accordi dei giocatori all’interno del salary cap. Nella NBA esistono tre tipi di contratti al massimo salariale – cioè il limite massimo di soldi che le franchigie possono offrire ai giocatori – e sono direttamente legati agli anni passati nella lega: per un giocatore da 0 a 6 anni disputati in NBA, il massimo salariale ottenibile al primo anno di contratto è uguale al 25% del salary cap (quest’anno stimato attorno a quota 102 milioni); per un giocatore dai 7 ai 9 anni, è pari al 30% del cap; per uno con 10 o più anni di esperienza, il top assoluto è pari al 35% del cap. Nel contratto collettivo firmato nel 2011 era stata istituita la Designated Player Exception, poi definita anche “Derrick Rose Rule”, che permetteva ai giocatori della prima fascia di “salire” alla seconda se avessero avuto certi pre-requisiti (come vincere il premio di MVP); allo stesso modo, la Designated Veteran Player Extension permette ai giocatori nella seconda “fascia” di max salariale di salire alla terza anche non avendo gli anni di esperienza necessari, a patto di avere questi pre-requisiti:

1)      Può firmare questo contratto solo con la squadra che lo ha scelto al Draft (o a cui è stato scambiato durante il suo contratto da rookie, cioè nei primi 4 anni);

2)     Ha vinto il premio di MVP o di Difensore dell’Anno nella stagione appena conclusa;

3)     È stato votato per uno dei quintetti All-NBA o è stato Difensore dell’Anno in due dei precedenti tre anni o è stato MVP in uno dei precedenti tre anni.

Non sono moltissimi i giocatori che possono raggiungere questi pre-requisiti: stiamo parlando del top assoluto della NBA, giocatori-franchigia per definizione – e proprio per questo il contratto è così ambito dalle stelle, perché la differenza può essere anche di 30 milioni di dollari (da 177 a 207 milioni in cinque anni, come da stime per questa estate). Una differenza in grado di convincere un giocatore a rifirmare con la propria squadra oppure trasferirsi da un’altra parte – provocando un terremoto in giro per la NBA.

La situazione di Gordon Hayward

Gli occhi di tutti ieri sera erano puntati non tanto sul primo quintetto ma di più sul terzo, perché se Gordon Hayward degli Utah Jazz e Paul George degli Indiana Pacers fossero stati nominati, le loro squadre avrebbero potuto offrire loro la preziosissima DVPE. E visto che il primo sarà free agent quest’estate e il secondo lo sarà nella prossima, la mancata convocazione per il terzo quintetto è un colpo durissimo per le loro squadre, che ora guardano con preoccupazione alla riapertura del mercato prevista per il 1 luglio. La situazione di Hayward, in particolare, si è fatta complicatissima per Utah: con la DPVE avrebbero potuto offrire 207 milioni, mentre ora il massimo che possono proporre al loro giocatore-franchigia sono 177 milioni in cinque anni. Un accordo che rimane comunque superiore a quanto possono offrire le altre 29 franchigie (131 milioni in quattro anni), ma che si fa più risicata quando si prendono in considerazioni altre strutturazioni di contratti. Hayward potrebbe scegliere di firmare un 1+1 con Utah (un anno garantito e un secondo con opzione a suo favore) e riprovarci il prossimo anno, anche se la concorrenza nel ruolo – da James a Durant, da Leonard a Antetokounmpo, da Butler a Green fino a George, Towns, Millsap, Aldridge e Griffin, solo per rimanere a quelli che hanno ricevuto voti quest’anno – è agguerritissima e non è destinata a diminuire. Oppure Hayward potrebbe decidere di firmare un 3+1 e ripresentarsi sul mercato dei free agent nel 2020, quando avrà già 10 anni di esperienza nella lega (in modo da salire nella terza fascia da 35%) e il cap sarà attorno ai 120 milioni (anche se è solo una stima e potrebbe variare): in questo modo la differenza tra i prossimi otto anni con i Jazz o con una qualsiasi altra squadra sarebbe risibile, meno di tre milioni di dollari totali su quasi 340 totali. Ecco perché la DPVE oggi è così importante per le parti in causa, e perché nello Utah dovrebbero essere molto preoccupati dal più che probabile assalto dei Boston Celtics in estate.

La situazione di Paul George

Quella della stella degli Indiana Pacers, invece, è una situazione un po’ diversa. Innanzitutto George non è free agent quest’estate ma lo sarà solo nel 2018, dopo una stagione da 19.5 milioni di dollari. Questo dà al nuovo capo-franchigia Kevin Pritchard (dopo l’addio di Larry Bird) un po’ più di tempo per ragionare, tenere duro e provare a migliorare la squadra sperando che George venga nominato per uno dei quintetti il prossimo anno, in modo da poter fare la classica “offerta che non si può rifiutare” (più della estensione classica che possono offrire quest’anno, ma che non è così allettante per George) e legarlo praticamente a vita all’Indiana. La dirigenza dei Pacers deve però anche prepararsi un piano B, perché le voci di un George intenzionato a lasciare Indianapolis e tornare nella natìa Los Angeles (sponda Lakers) nell’estate del 2018 per risollevare le sorti dei gialloviola si rincorrono ormai da mesi. Inutile dire che i Pacers non possono permettersi di perdere uno come George senza ricevere nulla in cambio e che per questo dovrebbero ascoltare le offerte che già hanno iniziato ad arrivare al loro telefono (pare che gli Hawks abbiano offerto fino a quatto prime scelte al Draft) da qui alla prossima deadline del mercato nel febbraio 2018. La frustrazione di “PG13”, poi, potrebbe portarlo a lasciare l’Indiana anche in caso di “qualificazione” per la DPVE – perché, come ha dimostrato Durant nella scorsa estate, la prospettiva di giocare per una contender potrebbe essere più allettante di guadagnare decine di milioni in più. Dipende sempre dalle motivazioni dei singoli, ovviamente.

Chi ce l’ha fatta: James Harden e John Wall

Le inclusioni nel primo e nel terzo quintetto, invece, hanno permesso a James Harden e John Wall di unirsi a Stephen Curry e Russell Westbrook nel ristrettissimo circolo di giocatori che quest’estate possono firmare con le proprie squadre al 35% del cap, rinnovando oppure estendendo i loro accordi. Harden e Wall, infatti, potranno aggiungere circa 160 milioni per ulteriori quattro ai loro contratti, by-passando di fatto la free agency del 2019 e legandosi fino al 2024 con Houston e Washington. Stessa cosa per le stelle di Golden State e Oklahoma City, con Curry che può firmare per circa 207 milioni fino al 2023 e Westbrook per la stessa cifra fino al 2024, avendo già raggiunto due quintetti All-NBA nei tre anni precedenti alla firma. Cosa che invece non possono fare né DeMarcus Cousins (scambiato dai “suoi” Kings prima e perdendo quindi lo status) né Kevin Durant (che cambiando squadra non è più eleggibile per questo tipo di contratto). Chissà se con la sua scelta della scorsa estate “KD” avrebbe mai pensato di provocare tutto questo.