In una proiezione pubblica all'American Airlines Arena (il "suo" campo), la Heat Nation ha potuto gustarsi in anteprima il documentario che ESPN ha prodotto per celebrare 38 anni di vita e quasi 20 di carriera di uno degli atleti più forti apparsi recentemente su un campo da basket. Ecco il racconto di una serata speciale
MIAMI — Il cerchio, ovvero la carriera cestistica di Dwyane Wade, si è definitivamente chiuso ieri, domenica 23 febbraio 2020 alle 3.30 pm, dopo due giorni intensi di legacy celebration, in quella che è stata e sarà per sempre casa sua: l’American Airlines Arena.
La chiusura è coincisa con la proiezione in anteprima del documentario dal titolo “Life Unexpected”, che vuole gettare uno sguardo sull’intera vita di D-Wade — dall’infanzia problematica nel ghetto del South Side di Chicago con già in mente Michael Jordan e le sue gesta da emulare, fino al dicembre scorso nella villa di L.A. dove ha affrontato la volontà del suo secondogenito dodicenne Zion di voler cambiare sesso (e anche nome, ora Zaya). L’ex superstar degli Heat ha voluto fare questo ultimo regalo ai suoi fan, alla sua gente, alla popolazione di quella che ormai è diventata a tutti gli effetti la Wade County.
Lo ha fatto grazie alla sapiente mano del regista afroamericano Bob Metelus (che ha avuto il privilegio di poter vivere dietro le quinte un’intera stagione con “Flash” — l’ultima, quella del 2018-2019), presente all’introduzione al documentario assieme a Dwyane Wade stesso in quella che il presentatore del pomeriggio — l’eclettico e istrionico Jason “Jax” Jackson, bordocampista della locale emittente dei Miami Heat — ha definito i tre giorni più estenuati della carriera del numero 3 degli Heat.
Wade ha scelto di raccontarsi apertamente e intimamente con immagini esclusive per far meglio comprendere la sua legacy, che consta di un continuo cambiamento in positivo, di devozione, di gratitudine, di ispirazione. E i fan, accorsi numerosi alla Triple A nonostante il documentario sarebbe poi stato trasmesso su ESPN solo qualche ora dopo in tutto il Paese, hanno gradito come non mai, potendo apprezzare gli aspetti più intimi e sconosciuti della vita di un campione assoluto che va oltre la pallacanestro. Vita che ha dovuto superare innumerevoli ostacoli, tutti documentati, quasi a voler presentare Wade come un role model imperfetto, un eroe che il sud della Florida ha reso tale ma che per farcela ha dovuto vincere mille sfide fuori dal campo, sfide che attingono alla sfera della vita reale, quella di tutti quanti, non importa da dove si provenga o di quanti soldi e fama si abbiano accumulati.
Un documentario probabilmente un po’ troppo lungo (un’ora e mezza) ma incredibilmente intenso e vibrante, impossibile forse da rendere più breve quando si narrano 30 anni di vita — e che vita, pare ne abbia vissute almeno una decina! — di un trentottenne prossimo all’empireo cestistico, un campione dentro ma soprattutto fuori dal campo, figlio magnifico e genitore straordinario, imprenditore di successo e ora anche cantante (dopo la recentissima “Season Ticket Holder”, incisa con l’amico e vicino di casa Rick Ross).
“Life Unexpected” parte dalla fine, ovvero dal risveglio il giorno dopo la sua ultima partita, quella della tripla doppia, giocata il 10 aprile 2019 a Brooklyn contro i Nets, per poi fare un flashback di due giorni raccontando l’attesa della sua ultima partita casalinga contro i Sixers, quella dei tributi, delle lacrime e dei 30 punti segnati. E da lì inizia un viaggio a ritroso, da un’infanzia a dir poco complessa, salvato dalla droga e dalle gang dalla sorella maggiore (dato che la madre entrava e usciva di prigione per problemi analoghi), il trasferimento a casa del padre e della sua nuova moglie con i precedenti figli, fino agli insegnamenti di coach Fitzgerald alla Richard High School, alle difficoltà scolastiche del primo anno a Marquette University, alla precoce paternità (a soli 20 anni) del suo primogenito Zaire e all’esplosione a Marquette grazie all’appoggio e agli incoraggiamenti di coach Tom Crean, con la madre a tifare in tribuna dopo due anni trascorsi in galera. Con la tripla doppia nella finale del regional contro Kentucky e la conseguente Final Four NCAA nasce la consapevolezza di poter diventare un giocatore di assoluto valore NBA — e da qui iniziano gli applausi scroscianti, i brividi e le vere emozioni del pubblico pagante (solo 3 dollari l’ingresso). “With the 5th pick in the 2003 NBA Draft the Miami Heat selects Dwyane Wade”, in quello che viene da alcuni considerato il Draft più forte di sempre. Poi l’arrivo di Shaq, il quarto quarto di gara-3 delle finali NBA 2006 e la conquista del primo anello, che lo proietta tra i primi cinque giocatori della lega.
Miami, i trionfi e poi l'addio (temporaneo)
Da lì tre anni di fama, copertine, apparizioni televisive: Wade diventa un personaggio pubblico ammirato ed emulato, icona sexy e di eleganza, con relazioni sentimentali chiacchierate. Ma anche il cruento divorzio, la battaglia senza esclusione di colpi con l’ex moglie (sua compagna fin dal liceo) per la custodia dei due figli, battaglia che fa passare in secondo piano anche la sua free agency di quell’incredibile estate del 2010. Che fu poi la free agency che portò Lebron James e Chris Bosh a South Beach anche grazie alla rinuncia a qualche milione di dollari nel nuovo contratto da parte di Wade, disposto a tutto pur di tornare a vincere, dopo che col suo compianto agente Henry “Hank” Thomas avevano visitato e parlato con Bulls, Knicks e Nets, tutte squadre pronte a fargli ponti d’oro.
A proposito di quella free agency, la telecamera di Meletus svela anche la cena per discutere della famigerata “The Decision” di LeBron James organizzata al Prime One Twelve (steakhouse d’ordinanza a South Beach) e la conseguente esultanza all’annuncio televisivo di “King” James: perché i futuri “Big Three” erano sì d’accordo sul da farsi ma Wade e Bosh temevano che il terzo potesse aver cambiato idea, per non averlo più sentito per alcuni giorni.
Quel che segue fa dell’American Airlines Arena il posto più glamour della lega soppiantando Los Angeles e la prima fila alle partite dei Lakers. Si inseriscono a questo la relazione sempre più importante con l’attrice Gabrielle Union, un certo status symbol ormai raggiunto, la delusione per la sconfitta in finale contro i Mavs nel 2011, le vacanze con James alle Bahamas coltivando sete di successo e di rivincita e i seguenti due titoli NBA consecutivi, intervallati dalla rottura con la Union e della paternità di un nuovo figlio avuto con un’altra donna.
Non è finita: ci sono ancora da testimoniare la sconfitta contro gli Spurs alla quarta finale NBA consecutiva (quella del 2014) e la fine di un ciclo, col ritorno di LeBron nell’Ohio e il rinnovo contrattuale di Bosh seguito dal suo susseguente stop per problemi di salute. Con la fine coincide però un nuovo inizio per Wade, col ritorno di Gabrielle e il conseguente matrimonio a Miami: l’ovazione alla AAA ora è assordante, anche se poi cala un velo di malinconia per quella maledetta free agency del 2016 dove qualche incomprensione di troppo con Pat Riley (e 20 milioni di distanza tra le parti) lo fanno decidere per un ritorno nella natìa Chicago, rinunciando di fatto a essere un “lifer” (un Heat per sempre). La cessione di Jimmy Butler da parte dei Bulls l’estate seguente lo spinge poi a trasferirsi — in pessime condizioni psicofisiche — ai Cavs proprio di LeBron. E qui, intuendone il momento di difficoltà, ecco tutta la genialità e la voglia di farsi perdonare di Pat Riley, che lo riporta a casa. Le immagine del suo sbarco dal jet privato all’aeroporto di Miami insieme alla moglie Gabrielle Union genera un altro boato tra il suo pubblico, che diventa standing ovation quando si sfocia nel sociale e nella sua presa di posizione agli ESPYs Awards assieme agli amici fraterni Carmelo Anthony, Chris Paul e LeBron James a favore del movimento “Enough is enough” contro l’eccessiva violenza e l’uso fuori controllo delle armi da parte della polizia contro gli afroamericani.
La vita di Wade sembra un film e le emozioni non accennano a diminuire: ecco la nascita dell’ultimogenita Kaavia, finalmente concepita con la moglie Gabrielle (anche se in maternità surrogata) e la vita da imprenditore di successo, insieme alla sfida ultima e più coraggiosa: l’apertura mentale di un padre per poter permettere ai propri figli di essere tutto ciò che vogliono essere nella propria vita, sfida finita sotto i riflettori per il cambio di genere del figlio Zion, appena dodicenne.
Da Riley a Shaq fino a LeBron: non manca nessuno
Con la (notevole) eccezione dell’esperienza con USA Basketball culminata nella medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008 con il “Redeem Team”, in “Life Unexpected” scorrono tutti i momenti e tutte le persone chiave della vita di Dwyane Wade: dalla madre alle due sorelle fino al padre, ma anche coach Crean, Pat Riley, Shaq, coach Spoelstra, Chris Paul, Carmelo Anthony, LeBron James e Gabrielle Union. Non poteva ovviamente mancare neppure “UD”, al secolo Udonis Haslem, il ragazzo di casa, il fratello assieme al quale Wade ha costituito l’anima, la cultura e la vera essenza degli Heat. Senza Udonis non ci sarebbero stati questi Heat, non ci sarebbero stati i successi: senza Udonis — questo il messaggio — non ci sarebbe stato Dwyane. E soprattutto poi ci sono loro, i bambini, i figli della superstar di Miami: Zaire, Zion e e il nipote Davheon Morris, figlio di sua sorella Deanna, praticamente adottato da Dwyane e cresciuto coi suoi figli. Sta proprio in questo sguardo alla dimensione familiare molta della forza di questo documentario, perché è la famiglia di Wade a essere il suo vero clan, la sua vera posse. Il brevissimo omaggio a Kobe Bryant nel finale è un richiamo anche a questo: due giocatori, due campioni, due uomini molto simili fra loro non solo nella purezza dei loro fondamentali, nella spettacolarità delle giocate, nella mentalità vincente, nella furbizia e nell’intelligenza in campo o nel successo imprenditoriale fuori, ma anche e soprattutto nella loro devozione, nel loro supporto verso i propri figli e nell’importanza del concetto di famiglia. Un aspetto che li rende speciali come modello di ispirazione per milioni di persone e per tante generazioni a venire.
La proiezione del documentario è stata una sorta di ultima partita — anche se non disputata su un campo da basket — del Dwyane Wade giocatore, la degna conclusione di tre giorni di festeggiamenti e celebrazioni con un’intera organizzazione, un’intera comunità e un’intera contea completamente ai suoi piedi. Da oggi, lunedì 24 febbraio, “Flash” — all’eta’ di 38 anni e un mese — ha definitivamente chiuso quello che è stato il capitolo più importante della sua vita. Finora.