Nine Eleven: come lo sport può rendere omaggio alle vittime

Pensate a una data scolpita nelle memorie collettive. Una data che coincida con un evento che è stato magnificato da un clima di forte coinvolgimento emotivo e da un numero sterminato di testimonianze multimediali. Se state leggendo questa pagina, non è da escludere che a una descrizione del genere vi venga naturale associare un evento sportivo di particolare rilevanza. Un evento, come si suol dire, memorabile. È ancora più facile, però, che alla suddetta descrizione possiate associare quanto ebbe luogo l’11 settembre, o Nine Eleven. Quel giorno del 2001 è infatti una data periodizzante della storia, nel senso che segna la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro. Nello specifico, segna la prima occasione in cui l’aggettivo ‘globale’ fu correttamente accostato a un fenomeno come il terrorismo. Laddove, fino a quell’11 settembre 2001, solo le guerre del ‘900, le Guerre Mondiali, avevano giustificato tale accostamento. La premessa serve a fissare la portata di quanto successe ventitré anni fa. Un momento che io ricordo come il primo momento in cui ho avuto non solo l’impressione, come per una finale dei Mondiali o la cerimonia di apertura delle Olimpiadi, ma la certezza di essere insieme a tutti gli altri abitanti del mondo davanti allo stesso spettacolo. Partendo dalla seconda, le due parole in corsivo meritano un approfondimento. Quando infatti si parla di ‘spettacolo’ rispetto a una tragedia è normale, e auspicabile, che qualcuno si allarmi. L’uso del vocabolo rimanda però qui a un fatto oggettivo: chi ha orchestrato quegli attentati ha eseguito una ‘messa in scena’, nel senso letterale del termine. Non perché ci fosse un palcoscenico e una finzione in forma d’arte, ma nel senso che quell’episodio fu frutto, citando lo storico Angelo Ventrone, di “un’accorta e premeditata strategia costruita ad arte”, come ad arte sono costruiti i copioni. Quella strategia, come i copioni, aveva l’obiettivo di impressionare gli spettatori. In quel caso, tutti noi, insieme. Insieme nel senso che per chi aveva l’età della ragione, quel giorno l’attentato alle Twin Towers fu l’unico argomento di conversazione. Fu così anche per Vincenzo Montella, giocatore della Roma di Fabio Capello che venne mandato in campo quella sera contro Il Real Madrid dalla UEFA. “Eravamo basiti, incollati allo schermo, come tutti” - ha raccontato l’attuale CT della Turchia – “e furono momenti di sgomento; noi dovevamo pensare al Real, ma arrivammo allo stadio discutendo solo delle notizie che provenivano da New York”. La differenza rispetto al passato, quella che produsse uno spiazzamento in Montella e in tutti coloro che furono costretti a concentrarsi su qualcos’altro, è che il mondo era connesso. Pensare a qualcos’altro, pensare di interrompere le immagini che la CNN diffondeva in tutto il pianeta, era semplicemente impossibile. Oggi sono molte le occasioni in cui siamo tutti connessi insieme a guardare con spasmodica attenzione uno spettacolo. Vale, certamente, per alcuni avvenimenti sportivi: se pensiamo alle Olimpiadi e alle Paralimpiadi, alla finale di Champions League, a quella di Wimbledon o degli US Open o dell’NBA, è sempre di meno una questione di audience e sempre di più una questione di quanti guardano, anche solo in senso lato, a quello spettacolo. Ventitré anni fa, gli attentatori di Al Qaeda hanno realizzato un atto, terribile, di enorme valenza simbolica, rivolto a una platea globale. Un evento sportivo non ha una platea del genere e non deve avere una simile portata. La sua valenza simbolica, però, è sempre più rilevante, attraversando campi e territori che travalicano lo sport. Confondere l’importanza di un Superbowl o della finale olimpica dei 100 metri con gli eventi periodizzanti della storia non è una buona pratica. Oggi però lo sport è sempre più globale e sempre più simbolico: impegnarsi per costruire, e non per abbattere, qualcosa, sarebbe un bel modo di rendere omaggio ai caduti dell’11 settembre.