La lezione (parallela) di Julio e Ratko

Uno aveva un nome dolce come un'onda, tre vocali e in mezzo una consonante liquida. Un nome che pareva uscito dall'acqua, Julio, ma con l'acqua ci lavorava l'altro che aveva invece suoni duri, Ratko, aspro come una schiacciata. Quattro anni d'età di differenza, 12mila km di distanza tra le culle in cui erano nati, tutt'e due arrivati in Italia stanchi della violenza che gli aveva riempito gli occhi. Velasco aveva un padre peruviano, una madre per metà inglese e per metà italiana, era cresciuto a Buenos Aires con un nonno contadino e una nonna di Camogli. Aveva iniziato a giocare a pallavolo e poi l’aveva lasciata, per aver scoperto all’università una passione più estrema, la politica nell’Argentina fine Anni '70, un paese retto dalla giunta militare del generale Videla, dove i giovani che avevano idee sgradite al regime potevano essere inghiottiti da qualche auto mentre passeggiavano di notte, e sparire così, per sempre. Rudic era invece figlio di un colonnello dell’esercito jugoslavo, da ragazzo era stato a lungo indeciso se iscriversi ad Architettura oppure a Belle Arti. Aveva passato il test d’ammissione alla prima facoltà, ma studiare tutto il giorno non si conciliava con l'altro amore, la pallanuoto, almeno non con il livello a cui voleva giocarla. Certe vite piegano così, quasi impercettibilmente, da una parte o dall'altra. Julio arrivò in Italia quando il trauma della guerra alle Malvinas si era sommato ai centri di detenzione della Escuela de Mecánica de la Armada e del Garage Olimpo. Da Jesi gli avevano offerto un lavoro in Serie A2. Avevano un allenatore che lavorava in ferrovia, così ogni tanto restavano con la panchina vuota. Velasco vendette la macchina e con i tremila dollari ricavati partì. Un farmacista gli offrì un appartamento in cambio di una consulenza nel settore giovanile della squadra del paese. Julio si mise a studiare l’italiano guardando la televisione di notte e ne imparò le sfumature con le canzoni di Lucio Dalla. Anche Ratko a quel tempo allenava i ragazzini di casa sua, poi gli diedero la Nazionale maggiore, finché la Nazionale non ci fu più perché non c'era più la sua nazione, lasciò la sua terra mentre i Balcani stavano per andare in fiamme, lui croato nato a Belgrado. Certe vite allora non solo piegano così, per caso, da una parte o dall'altra: ma finiscono pure per coincidere. Coincisero quelle di Velasco e Rudic quando il primo aveva 42 anni e l'altro 46, nella magnifica fine estate-inizio autunno del '94. Un mese nel quale l’uno e l’altro portarono le loro Italie al titolo mondiale. Qualche mese prima, Baggio aveva sbagliato il suo rigore a Pasadena. La pallavolo italiana, prima di Julio, si tramandava il ricordo di una finale Mondiale giocata nel ‘78 e di un bronzo olimpico: ma erano stati due lampi nel deserto. La pallanuoto italiana, prima di Rudic, aveva conosciuto certo la gloria, ma era ormai una gloria lontana: l’ultima Olimpiade nel ‘60, l’ultimo Mondiale nel ‘78, l’ultimo Europeo nel ‘47. Due Mondiali arrivati con due maniere diverse di abitare uno spogliatoio. Quando a Ratko diedero la panchina in piscina, disse che gli jugoslavi erano sempre contenti d’incontrare l’Italia in un grande torneo. Ci offendemmo ma era vero. L’Italia era forte se difendeva a zona, ma evitava lo scontro fisico. Rudic portò il senso della battaglia, che è prima disposizione alla lotta e solo dopo una questione di centimetri e chili. La squadra non era abituata. In più Rudic era cresciuto in un ambiente e in una famiglia dove la guida porta i gradi sul braccio, alza la voce, si impone. Ebbe dei problemi. Capì in tempo cosa stesse succedendo. Una sera convocò una riunione e si fece dire da tutti cosa non andasse. Nessuno convinse gli altri, ma uscirono dalla stanza con un accordo: i giocatori avrebbero fatto tutto quel che lui voleva in acqua, in cambio di un regime di vita meno severo. Rudic dice che l’Italia gli ha insegnato il dialogo. Il presidente Scalfaro gli avrebbe dato la cittadinanza per meriti sportivi. Non era una squadra di amici, la Nazionale di pallanuoto anni Novanta. Viveva su due blocchi, i liguri da una parte, i napoletani dall’altra, in mezzo Sandro Campagna, siciliano che giocava a Roma, oggi cittì senza aver mai fatto parte di nessuno dei due poli che sono il traino del settore. “Non serve mangiare la pizza insieme per vincere. I giocatori mi devono odiare” ha detto una volta Rudic spiegando alla perfezione la filosofia con cui ha fatto il cittì. Anche Velasco pensava e pensa che una squadra non sia una confraternita di buoni sentimenti, l’ha detto prima di andare a prendersi l’oro a Parigi con la Nazionale femminile. Insieme lavorarono sui nostri difetti, insieme trent’anni fa vinsero. Rudic tolse dalla testa di noi italiani l’idea che la pallanuoto fosse solo bellezza, solo eleganza, solo il gesto dolce della palombella. Julio Velasco lavorava dentro i palazzetti su un altro equivoco, sull’idea che i colpevoli di una sconfitta fossero sempre da cercare altrove, fuori di sé, c’era sempre un alibi che spiegava il cattivo risultato. Hanno rifondato due scuole e due sport. Hanno insegnato e hanno imparato. Vennero a dimostrarci che mescolando le culture spunta sempre fuori qualcosa di buono.

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