Cento anni a raccontare, cento anni da raccontare

Quando alle nove di sera del 6 ottobre 1924, Ines Viviani Donarelli lesse il primo annuncio nella storia della radio italiana, all’estero avevano già scoperto da qualche tempo che quello strano oggetto fatto di suoni e di manopole era perfetto per raccontare lo sport. “A tutti coloro che sono in ascolto, il nostro saluto e il nostro buonasera”, così cominciarono in Italia le trasmissioni, da un appartamento del rione Prati a Roma. La leggenda racconta che la stanza avesse le pareti e il soffitto ricoperte da certe tende enormi per soffocare i rumori della strada. In America avevano alle spalle una dozzina d’anni di esperimenti. Nel 1911 avevano mandato in onda dal Kansas una cronaca preregistrata di una partita di football. Era un semplice sottofondo alla riproduzione virtuale delle azioni, ricostruite meccanicamente su un grande modello del campo di gioco. Più di mille persone si presentarono nel centro di Lawrence, per assistere e ascoltare. Un telegrafo Western Union era stato a Columbia, nel Missouri. I presenti applaudirono come se stessero guardando davvero la partita in diretta. Bizzarro, ma evidentemente dovette lasciare un bel ricordo. La tecnologia era quella che era. Solo otto anni più tardi, nel Giorno del Ringraziamento 1919, gli americani ascoltarono i suoni di una partita di football universitario, e non la riproduzione del punto a punto, ma la prima trasmissione di un evento con un commento si tenne l'11 aprile 1921, quando la stazione Westinghouse KDKA di Pittsburgh, in Pennsylvania, trasmise un match di pugilato da 10 round tra Johnny Dundee e Johnny Ray, dal Motor Square Garden. L’uomo al microfono si chiamava Florent Gibson, un giornalista del Pittsburgh Star, il primo telecronista sportivo al mondo. Da un anno circa la stazione WWJ di Detroit aveva iniziato a riferire i risultati delle World Series di baseball a fine partita, così il pubblico americano scoprì che non bastava, voleva di più, voleva sapere cosa stava succedendo non solo il risultato. Ecco perché fecero quell’esperimento con il pugilato, prima di mandare in diretta in estate le partite di baseball. Johnny Ray era un boxeur che sarebbe arrivato a 138 combattimenti in carriera. Il suo vero nome era Harold Pitler. Suo fratello Jake, membro della Jewish Sports Hall of Fame, giocava a baseball e poi sarebbe diventato allenatore dei Brooklyn Dodgers. Anche il nome del suo avversario era mezzo fasullo. Johnny Dundee in realtà si chiamava Giuseppe Corrara, era nato a Sciacca, in Sicilia, figlio di un pescatore emigrato in America nel 1909 e cresciuto nel West Side di Manhattan. Prima di quel famoso match alla radio, gli era stata data l’occasione di battersi per il titolo mondiale dei pesi piuma. Nella storia ci sarebbe comunque entrato due anni dopo, quando affrontò Joe Welling nel primo match che si teneva a New York con la legge Walker, quella che fissava in quindici il numero massimo di round tra i professionisti. Dundee esagerò, o forse esagerarono quelli che gli stavano attorno. Gli sono stati attribuiti 321 match in carriera. Nel marzo del 1915, dopo aver battuto Frankie Callahan, si presentò da un giudice per divorziare da sua moglie. Giurò di essere stato picchiato da lei quasi ogni giorno dal 1° febbraio. Non era vero. Quello che picchiava era lui. In fondo anche questo dettaglio dice qualcosa. A lungo la storia dello sport alla radio è stata anche la storia di piccole menzogne a fin di bene. Non erano molti i testimoni degli eventi in diretta, chi raccontava poteva prendersi qualche libertà, lavorare di fantasia, inventare qualcosa e più di qualcosa, ma senza ingannare. Quelle voci avrebbero avuto presto il potere di rendere popolari i campioni, o addirittura di crearli. Per avere lo sport alla radio, gli italiani dovettero attendere quattro anni da quel famoso primo annuncio. Il 25 marzo del ‘28, qualche minuto dopo le tre del pomeriggio, per la prima partita che la Nazionale di calcio giocava nella sua storia a Roma, sotto la pioggia si presentarono allo stadio del partito fascista tutti i gerarchi più in vista. Al microfono misero un giovane giornalista della Gazzetta, seduto sul gradino più alto della tribuna. Il microfono era stato agganciato a uno sgabello. L’Italia avrebbe battuto l’Ungheria per 4-3 rimontando dallo 0-2 del primo tempo dopo l’intervallo, e chissà se andarono a prendere un té caldo. Di certo con quella partita nacque il bisogno di avere una lingua nuova, un lessico nuovo. Il giovane giornalista si chiamava Giuseppe Sabelli Fioretti e adottò per la sua cronaca un metodo inventato l’anno prima dalla Bbc per la diretta di Arsenal-Sheffield. La radiocronaca era stata proposta come una battaglia navale. Alcuni giornali inglesi avevano pubblicato la mappa del campo divisa in più settori e alla radio si sentiva dire che la palla era passata dalla zona A1 alla B4. Nel 1933 sarebbe arrivato al microfono Niccolò Carosio, urlando ogni tanto “gol” per animare la gente all’ascolto, e poi correggendosi con “quasi gol”, quando magari la palla era uscita di quattro o cinque metri. In La vita è un pallone rotondo, Vladimir Dimitrijević ha scritto che l’organo dell’immaginazione è l’orecchio. Cent’anni dopo, la radio ha cambiato strumenti e mezzi di trasmissione, può far viaggiare le sue storie lungo binari digitali anziché attraverso l’aria, può prendersi meno libertà perché tutti abbiamo occhi ovunque, tutti siamo diventati cantori sulle nostre bacheche social e non più solo spettatori. Ma resta l’antico fascino di una voce che accende la fantasia, mette delle parole in sottofondo e quel che manca dobbiamo aggiungerlo noi. Certe volte, senza vederle, ci sono partite che ci guadagnano, diventano più belle.