La fuga di Giordano Cottur per Trieste italiana

Quando eravamo bambini il negozio dei sogni di Trieste, quello dove si poteva metter piede solo dopo una pagella oltremodo generosa, era ‘Cicli Cottur’: biciclette di tutti i tipi e per tutti i gusti, dalla Graziella alle Bianchi, con un focus speciale dedicato all’attività agonistica. Da Cottur ci si andava rigorosamente col papà, tenuti per mano quando si acquistava la bici con le ruotine e poi via via più emancipati, discutendo con ostentata sicurezza di cambi, pedali e doppie volantine. All’epoca il titolare del negozio di via Crispi - spoiler: esiste ancora! - era l’anziano e burbero Giovanni, ma l’attrazione quasi sempre presente era suo figlio Giordano, un uomo gentile e magrissimo, dal sorriso quasi etereo. Papà lo sbirciava mentre io provavo le bici, e immancabilmente si commuoveva. Un giorno me ne spiegò il motivo. La conclusione della Seconda Guerra Mondiale lasciò Trieste e la penisola dell’Istria in bilico fra Italia e Jugoslavia. Per 40 giorni, tra maggio e giugno del 1945, Trieste venne occupata dall’esercito jugoslavo, che si macchiò di gravi crimini - tra i 5 e i 10mila italiani vennero uccisi e gettati nelle foibe, le profonde cavità naturali del Carso - in parte come reazione alle violenze fasciste degli anni precedenti, in parte per contrastare il deciso irredentismo della gente triestina . Dopo il ritiro degli jugoslavi i territori contesi passarono sotto l’amministrazione del Governo Militare Alleato , che li divisero in due zone: Trieste era la A, l’Istria la B. Il 26 ottobre 1954, la data che in questi giorni viene festeggiata in città, la zona A tornò sotto amministrazione italiana . Nel 1975 il trattato di Osimo ufficializzò anche de iure la spartizione stabilita de facto nel 1954. Gli anni fra il ‘45 e il ‘54 furono molto pesanti a Trieste, perché da entrambe le parti c’era chi tirava per ‘vincere’ l’intera posta e annettersi le due zone. Fra gli episodi più caldi del periodo ci fu la conclusione della tappa del Giro d’Italia del 30 giugno 1946, originariamente disegnata da Rovigo a Trieste. Ma quel giorno a Pieris, al confine d’ingresso della zona A, un gruppo filo-slavo bloccò la corsa incendiando alcune barricate in mezzo alla strada e sparando ad altezza uomo con la conseguenza di ferire un poliziotto. La direzione del Giro dichiarò conclusa la tappa, disponendo il trasferimento della carovana a Udine, da dove sarebbe ripartita il giorno dopo: una scelta basata sulla sicurezza, ma nella quale non si riconobbero 17 corridori, capitanati dal triestino Giordano Cottur, che con l’aiuto della polizia si fecero portare a Grignano, ben dentro la zona A, e da lì ripartirono per l’ippodromo di Montebello, il traguardo triestino originario, tra due ali di folla entusiasta per tutti i 10 chilometri del tragitto. Mio padre era a bordo strada quel giorno, un ventenne che si rendeva conto della potenza del messaggio politico implicito in quella corsa riattivata, per il solo fatto di chiamarsi Giro d’Italia e di attraversare una città che con l’Italia voleva assolutamente ricongiungersi. Cottur vinse la tappa a braccia alzate, e del resto era un campione: nel suo palmares ci sono tre terzi posti al Giro, dietro a Coppi, Bartali e Magni. Ma quel giorno Cottur - con i suoi 16 coraggiosi compagni di ‘fuga’ - aveva vinto molto più di una gara, presente peraltro negli archivi della politica ma non in quelli ufficiali dello sport, visto che la tappa era stata annullata. Per questo era diventato l’eroe di mio padre e di altre decine di migliaia di triestini. Per questo, e per sempre. Bruno Roghi, mitica firma del ciclismo dell’epoca , scrisse quel giorno un editoriale sulla Gazzetta dello Sport intitolato “La promessa mantenuta”. Anche lui aveva forzato il blocco per assistere a una pagina di storia, e così l’aveva raccontata: “I giardini di Trieste non hanno più fiori, le campane di Trieste non hanno più suoni. Le bandiere di Trieste non hanno più palpiti. Le labbra di Trieste non hanno più baci. I fiori, i suoni, i palpiti e i baci sono stati donati al Giro d’Italia”. La risoluzione di quella che gli storici hanno ribattezzato ‘la Questione di Trieste’ portò grande gioia e sollievo in città, ma anche disperazione negli italiani dell’Istria e di Fiume, in gran parte fuggiti dopo la fine della guerra - stiamo parlando di un numero valutato fra le 250 e le 350 mila persone: l’esodo giuliano-dalmata - e che a quel punto si rassegnarono a non tornare più a vivere nei luoghi d’origine. Molti i campioni dello sport compresi nell’elenco dei profughi. Ne ricordiamo due per tutti: il marciatore fiumano Abdon Pamich, medaglia d’oro nella 50 chilometri alle Olimpiadi di Tokyo 1964, e il pugile Nino Benvenuti, nativo di Isola d’Istria, medaglia d’oro nei pesi welter alle Olimpiadi di Roma 1960 e in seguito campione del mondo dei superwelter e dei pesi medi. Considerato il miglior pugile mai espresso dalla boxe italiana, Benvenuti fu protagonista di uno straordinario trittico di incontri con l’americano Emile Griffith alla fine degli anni 60. I match non vennero trasmessi in diretta dalla Rai perché in orario troppo notturno: all’epoca si evitava di incentivare la gente a restare sveglia, temendo ripercussioni sulle presenze al lavoro del giorno successivo. Era l’Italia del boom. Il ricordo da bambino sono le grida di giubilo, in casa mia e dalle altre finestre del condominio, quando la radio per prima diede notizia delle vittorie di Benvenuti . Erano anche anni in cui c’era un fortissimo collegamento sportivo fra Trieste e Milano, esemplificato da due allenatori irripetibili: Cesare Rubini, deus ex machina del Simmenthal, come allora si chiamava l’Olimpia, e Nereo Rocco, tecnico del Milan, vincitore delle prime due coppe dei Campioni del club rossonero. Nella prima occasione - era il 1963 - il capitano che alzò la coppa fu Cesare Maldini, triestino di nascita, che avrebbe dato vita a una dinastia milanista e adesso anche azzurra col figlio Paolo e il nipote Daniel. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

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