Muhammad Alì vs Antonio Inoki: match o farsa del secolo?

Nel 1959 il Comitato Olimpico Internazionale assegnò al Giappone l’organizzazione della XVIII Olimpiade che si sarebbe svolta nel 1964. Tokyo vinse su Detroit, Bruxelles e Vienna e la nomina venne salutata dalla stampa giapponese come una sorta di 'rivincita' dopo il dirottamento dei Giochi del 1940 a Helsinki a causa dello scoppio della guerra sino-giapponese. In quegli anni il Giappone era una nazione che stava lentamente tornando alla normalità dopo la nefasta eredità lasciata dalla guerra e le gravi ferite lasciate soprattutto dalle bombe atomiche sganciate dagli americani, che avevano distrutto le città di Hiroshima e Nagasaki. I Giochi Olimpici erano la vetrina perfetta per mettere in mostra il coraggio di un popolo antico e orgoglioso, ricco di tradizioni millenarie e di storia perlopiù sconosciute in Occidente, fra le quali le arti marziali, per la prima volta inserite nel programma olimpico attraverso l’apparizione del Judo. In onore dello spirito dei gloriosi Samurai, il comitato organizzatore decise pertanto di costruire un vero e proprio tempio dedicato alle arti marziali -e all’arte del Bushido- cui venne dato nome di Nippon Budokan. Un progetto ideato dall’architetto Mamoru Yamada, formatosi alla prestigiosa Università Imperiale di Tokyo e più avanti fondatore del Japan Secession Group. La costruzione dell’edificio iniziò nel 1961 proprio al centro della capitale. E non venne edificato solo un palazzetto sportivo, ma un vero e proprio centro polifunzionale per poterlo riciclare culturalmente alla fine delle Olimpiadi, oltre a mantenere lo status di centro nevralgico delle arti marziali giapponesi nel quale svolgere le competizioni nazionali di Aikido, Judo, Kendo, Karate e Tiro con l’arco tradizionale . Nacque quindi il Nippon Budokan, con le sue tre sale, la più grande delle quali capace di accogliere 14.000 persone. E così fu e Tokyo si ritrovò negli anni a seguire al centro di una serie di eventi internazionali indimenticabili. Alle ore 3:30 del mattino del 30 giugno del 1966, un aereo della Japan Air Lines con a bordo Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr, atterrò all'Aeroporto Haneda di Tokyo. Il famoso tour asiatico dei Beatles, ad esempio, ebbe luogo proprio al Nippon Budokan, e fu così che i Fab Four furono la prima rock-band a suonare dal vivo in Giappone. E la cosa inaudita fu la registrazione di 44mila ingressi in tre giorni per assistere allo show dal vivo di un "complesso che stava sconvolgendo anche la cultura nipponica", in tre giorni in cui "gli anziani ebbero paura dei Beatles, mentre i Beatles dimostrarono di non aver paura di loro", come riportò la stampa locale. Il Nippon Budokan nel tempo diventò il tempio della musica internazionale. Vi approdarono in seguito per esibirsi, fra un ‘ippon’ e un ‘garami', anche i Cheap Trick, i Deep Purple, Eric Clapton e Bob Dylan. Il frontman canadese dei Dream Theater James LaBrie, per onorare la tradizione delle arti marziali del luogo che ne ospitava la performance ‘progressive metal’ molti anni più tardi aprirà il concerto del suo gruppo addirittura con un perfetto inchino, rispettandone così in pieno la sacralità. Il posto ideale per celebrare eventi indimenticabili. Soprattutto a confitto oramai lontano e una volta stabilito un asse di pace e collaborazione fra Occidente e Giappone. Nel 1975 il pugile americano Cassius Marcellus Clay Jr., dal 27 febbraio 1964 convertitosi alla fede islamica - dopo aver aderito alla Nation Of Islam - adottando dapprima il nome di Cassius X e poi dal marzo 1964 quello di Muhammad Ali, fresco campione del mondo dei pesi massimi a spese del temutissimo Sonny Liston e già medaglia d’oro Olimpica a Roma nel 1960, venne a conoscenza dell’esistenza in Giappone di una New Japan Pro Wrestling League, della quale si vantavano meraviglie di grandi atleti invincibili. E alla stampa affidò il proprio messaggio “C’è qualche coraggioso lottatore orientale pronto a sfidarmi per un milione di dollari?” La NJPW, la New Japan Pro Wrestling League, era stata fondata a Nakano da un lottatore poco meno che trentenne, Kanji Inoki, figlio di una famiglia benestante impoverita dalla seconda guerra mondiale, sesto figlio di undici di un importante uomo politico - Sajirō Inoki - morto prematuramente, cresciuto in Brasile, sin da piccolo appassionato di karate e lotta libera. Kanji era da sempre grande fan del primo vero wrestler nipponico, Mitsuhiro Momota detto Rikidōzan, atleta e attore, padre del ‘puroresu’ il primo esempio di wrestling professionale giapponese, molto più realistico del catch e della lucha libre mexicana. Divenutone allievo, insieme ad altre leggende come Giant Baba e Kintaro Ohki, Inoki fuggì dal Giappone dopo la morte violenta del suo maestro, ucciso da un membro della mafia giapponese, la Yakuza, tale Katsushi Murata, per aver rifiutato di perdere un incontro combinato contro Masahiko Kimura. Dopo aver soggiornato per qualche anno negli Stati Uniti, Inoki tornò in patria e cominciò fra alterne fortune a lavorare al proprio progetto, a lungo osteggiato dalla Japan Pro-Wrestling Association e poi dalla All Japan Pro-Wrestling di Giant Baba. Ma Inoki continuò per la sua strada e si impose, affermando la propria sigla, vincendo in Messico e negli Stati Uniti. Negli anni Kanji Inoki decise di cambiare il suo nome di ‘battaglia’ in Antonio, diventando per tutti Antonio Inoki, in omaggio al wrestler italo-argentino Antonino Rocca, nato a Treviso con il nome di Antonino Biasetton e detto ‘Argentina’, ex rugbista e calciatore, trasferitosi oltre oceano prima della seconda guerra mondiale, affermatosi in Texas, poi trasferitosi a New York su spinta del promoter Joe ‘Toots’ Mondt per essere ingaggiato dalla Capitol Wresting Corporation di Vincent J. McMahon e diventare uno dei lottatori principali della federazione, poi attore e ottimo amico di Arturo Toscanini. E affascinando per ultimo il nostro Inoki. Al messaggio-sfida di Muhammad Ali, dunque rispose per questo proprio Antonio Inoki, che da qualche tempo cercava di accreditarsi come assoluto nr.1 dei World Martial Arts Championships, sfidando e spesso battendo campioni di discipline diverse. Al pugile americano giunse dunque un invito-convocazione per un match che avrebbe avuto il sapore dell’incontro del secolo, presso il prestigioso Nippon Budokan di Tokyo, fissato per il 16 giugno 1976, che sarebbe stato arbitrato dal lottatore e judoka americano Gene LeBell, noto wrestler e stuntman, in futuro poi all’angolo dell’ex judoka Ronda Rousey, prima donna ammessa nel 2018 nella Hall of Fame UFC. Ci volle qualche mese per disbrigare le pratiche e mettere a punto ogni clausola dell’impegnativo contratto che vincolava il match. Ma ormai le basi dell’evento erano state gettate e la grande serata al Kitanomaru Park Chiyoda-ku era stata programmata. Il fiume di denaro che scorreva intorno all’operazione lasciò molti dubbi su una non impossibile supervisione della Yakuza, che non aveva perso mai di vista Inoki e la possibilità di lucrare sui suoi affari, ma non sarebbe mai emerso nulla in merito neppure negli anni a venire. Solo voci, oppure un ottimo lavoro della gokudō o del bōryokudan, la divisione locale, che se ne occupò. I due rispettivi clan si incontrarono più volte per definire i colpi ammessi e quelli proibiti. Chiaro che a Inoki fossero vietate alcune possibilità, la vasta gamma di opportunità creava una evidente disparità fra i due. L’importante era che non venisse diffusa la lista delle limitazioni all’esterno. Inoki accettò di porre dei freni, Ali fu ben contento di una borsa da sei milioni di dollari per interpretare una parte già scritta. E accettò di non tirare calci al giapponese a terra, a patto che Inoki ne tirasse ma tenendo un ginocchio a terra. L’avvicinamento al match seguì gli schemi classici della sfida a distanza. Ali urlò "Non ci sarà stata un’altra Pearl Harbour", deridendo Inoki per via di quel mento così sporgente che in Giappone lo caratterizzava invece nei manga e nel cartone animato ‘L’uomo tigre' a lui ispirato, e per le sue grandi cravatte rosse. L’americano si pavoneggiò davanti alle telecamere degli inviati come solo lui sapeva fare, altro che quel "pellicano giapponese". Inoki si limitò a fargli suggerire di procurarsi dei buoni guantoni, capaci di evitargli ferite ai pugni proprio su quel mento, ricordandogli che “in giapponese Ali significa piccolo insetto”. A buon intenditor… La sera dell’incontro ben 37 Paesi si collegarono televisivamente con il Nippon Budokan di Tokyo per trasmettere in tv il match. A passare da 'match del secolo' a 'farsa del secolo' o a 'furto del secolo' ci volle poco, secondo le cronache del tempo . Le regole permisero che Ali si comportasse da ‘pugile’, mentre a Inoki fu concesso di scegliere una tattica ‘molto alternativa’, che gli permise di guadagnare tempo e rendere il tutto davvero molto poco avvincente, con il lottatore giapponese per 15 round più a terra che in piedi a cercare di colpire Ali. Nel dettaglio, il primo round trascorse con Ali a saltellare e Inoki indifferente, rannicchiato in terra, quasi indietreggiante. Poi fulminea ecco la scivolata e il calcio alla gamba del pugile, che per tutto il tempo rimase interdetto a urlargli inutilmente di alzarsi e combattere da uomo. Inoki aveva promesso un incontro vero, poiché si erano stabilite delle regole, i calci da terra erano rimasti e facevano male, i pugni Ali li poteva dare ma non a un avversario sdraiato a terra. La cosa si fece forse più complessa del previsto. E nei due round successivi se ne ebbe la prova. Lo staff di Ali si innervosì, Inoki e i suoi erano tesi: nel match avevano investito dei soldi. Il giapponese non ci teneva a finire in rovina, ma neppure a perdere l’onore. Ali aveva posto le regole, ma adesso ne rimaneva vittima, faticando a far partire cazzotti ma prendendo comunque calci nelle gambe e alle caviglie. Nel quinto round Ali andò addirittura al tappeto, scivolando afferrò una delle corde e schivò un sinistro al volto. Ma fu l’unico sobbalzo del match. Nella ripresa successiva Ali provò ad afferrare al volo il piede di Inoki, ma il wrestler ne approfittò per effettuare una rotazione e colpire, sederglisi addosso e abbozzare una morsa. Ali afferrò una corda richiedendo l’intervento arbitrale e l’azione terminò. Una quindicina di calci a segno nel settimo round fecero sanguinare le gambe di Ali e furono il solo segno di ‘veridicità’ dell’incontro, costringendo l’arbitro chiedere l’intervento dall’angolo. Qualcuno accusò Inoki di avere qualcosa di acuminato e tagliente negli stivaletti. In effetti le calzature che avrebbe dovuto indossare Inoki erano cucite con fili di acciaio, ma il giapponese proprio prima del match le aveva sostituite con scarpini normali per non ricevere accuse. In ogni caso si decise di passare del nastro adesivo intorno. E anche nel decimo round Inoki continuò a scalciare la zona posteriore del ginocchio sinistro di Ali. Finalmente all’americano riuscì di mettere a segno il secondo pugno dell’incontro, centrando al capo Inoki e frastornandolo. Ma la sua gamba sinistra era visibilmente gonfia, impedendogli di continuare a saltellare come avrebbe voluto per dare intendere di non soffrire i colpi del wrestler. Al dodicesimo round Inoki centrò Ali con una sequenza di dieci calci, ai quali Ali replicò solo verbalmente in modo strafottente, poi abboccando a una finta subendo un corpo a corpo dal giapponese, al quale Alì riuscì a sottrarsi ancora grazie all’arbitro e alle corde, mettendo poi a segno tre colpi consecutivi al corpo di Inoki. Al suono del gong Ali si distese con la gamba sinistra fuori dalle corde del ring, distesa a cercare sollievo. Nulla più fino al sedicesimo round, quando Inoki visibilmente mostrò il proprio sdegno per le troppe limitazioni che gli avevano impedito di combattere come sapeva. Fu in quel momento che Ali lo abbracciò sussurrandogli qualcosa all’orecchio e sorridendo. Non era scorso il sangue, non c’era stato alcun massacro, al massimo una gamba gonfia e qualche cazzotto. Il pubblico si inferocì e prese a lanciare di tutto sul ring, dimenticando l’educazione e il rispetto che tutti conosciamo propri della cultura orientale. Con il giudizio pari, Inoki e il suo staff salvarono i propri soldi. Ali non scagliò più di cinque, forse sei pugni all’indirizzo del giapponese, che invece martoriò le gambe del peso massimo con sessantaquattro calci a segno, riportando qualche microfrattura al proprio piede destro. Ma anche Ali non ne uscì benissimo. Mantenne gli impegni presi per una tournée tra Filippine e Corea del Sud ma - una volta tornato negli Stati Uniti - dovette contrastare le infezioni che si erano manifestate all’arto inferiore sinistro, nel quale a Los Angeles gli vennero diagnosticati due trombi. Roba da rischiare la gamba. Per anni dovette continuare a tenere sotto controllo la situazione. Non gli era bastato girare intorno a Inoki e temporeggiare. Fra lo sconcerto del pubblico e dei commentatori il match era andato avanti in modo grottesco e noioso fino all’ultimo gong e quando LeBell aveva decretato il verdetto di parità fu chiaro per tutti che il wrestling giapponese aveva guadagnato una grande promozione, mentre il campione americano aveva scritto suo malgrado una pagina trascurabile della sua straordinaria carriera. E dopo quello spettacolo agrodolce l’ape avrebbe forse ancora punto, ma la libellula avrebbe smesso di volare. I due rimasero molto amici. Inoki ne guadagnò in popolarità, Ali rimediò qualche malanno e lo spettacolo e l’attesa naufragarono nel dimenticatoio insieme a quell’incontro. Qualcuno disse che ci fosse anche un altro copione già scritto, che prevedeva che a un certo punto dello show sarebbe finito ko l’arbitro e che Inoki avrebbe mandato al tappeto Ali, già distratto nell’aiutare LeBell a rialzarsi. Ma forse così sarebbe stato davvero eccessivo. Solo chiacchiere da izakaya, i bar giapponesi dove ci si affida a una geisha paziente e compassionevole per dimenticare lo stress e i brutti pensieri prima di tornare a casa.