L'oro dello Zimbabwe nell'hockey su prato che diede dignità a una nazione intera

La recente elezione di Kirsty Coventry come undicesima Presidente del Comitato Olimpico Internazionale , prima donna e prima africana che dal giugno di quest’anno guiderà la più alta carica del mondo sportivo, ha acceso i riflettori sullo Zimbabwe, un Paese dell’Africa meridionale di cui si parla poco ma che, grazie allo sport e ai Giochi Olimpici, ha saputo raccontarsi e autodeterminarsi dopo un passato tormentato e spinoso. La figura di Coventry, vincitrice di sette medaglie di cui due ori nel nuoto tra Atene 2004 e Pechino 2008, è sicuramente quella più importante e riconosciuta, ma oltre due decenni prima di lei un altro gruppo di donne ha saputo porre un Paese appena nato da ceneri incandescenti sulla mappa sportiva conquistando un oro olimpico inatteso nel torneo femminile di hockey su prato a Mosca 1980. La storia e i giochi olimpici Incastonato tra Sudafrica, Mozambico, Botswana e Zambia, senza sbocchi sul mare, la storia dello Zimbabwe si intreccia, inevitabilmente, con quella del proprio passato politico e coloniale. Sul calare dell’XIX secolo Sir Cecil Rhodes, esploratore e uomo d’affari britannico, ottenne dal re della tribù locale la concessione per lo sfruttamento delle risorse minerarie del territorio che ben presto finì nelle mani della British South Africa Company, compagnia di proprietà dello stesso Rhodes, il quale diede il proprio nome a quell’area: Rhodesia. Nel 1923 la Rhodesia divenne colonia britannica a tutti gli effetti e lo rimase fino al 1963, quando la Rhodesia Settentrionale e il Nyasaland dichiararono l’indipendenza dal cuore pulsante dell’impianto colonialista, quello della Rhodesia Meridionale, i confini di quello che oggi è lo Zimbabwe. Due anni più tardi anche la Rhodesia Meridionale dichiarò unilateralmente l’indipendenza dalla Gran Bretagna assumendo il nome di Repubblica di Rhodesia. Sotto la guida del Primo Ministro Ian Smith per quindici anni la neonata Repubblica si trovò a essere una polveriera pronta a esplodere: il Fronte Rhodesiano che controllava il Paese aveva un’impronta fortemente razzista, Smith era infatti convinto che i bianchi avessero il diritto di gestire lo Stato e i neri avrebbero dovuto integrarsi gradualmente, senza sconvolgere la delicata struttura di potere. Harold Wilson, Primo Ministro britannico, si rifiutò di riconoscere l’indipendenza sino a quando non fosse stata introdotta una costituzione democratica che non fosse meritocratica e segregazionista. Una forte condanna giunse anche dalle Nazioni Unite che, per la prima volta nella storia, applicarono delle sanzioni e invitarono gli Stati membri a non riconoscere l’autoproclamata Repubblica. La comunità internazionale condannò fermamente il governo di Smith, eccezion fatta per il Sudafrica – dove vigeva un regime di apartheid molto simile a quello rhodesiano – e il Portogallo di Salazar, che controllava il vicino Mozambico e offrì alla Rhodesia libero accesso ai suoi porti. Ai difficili rapporti con la comunità internazionale si sommarono anche i conflitti interni, con la maggioranza nera che non accettava le politiche razziste di Smith e scoppiò una violenta guerra civile che mise in ginocchio un Paese ormai abbandonato da tutti. Nel 1979, ormai esautorato di ogni potere senza più il supporto portoghese, Smith abbandonò la carica e il 18 aprile 1980 lo Zimbabwe ottenne l’indipendenza riconosciuta a livello internazionale e assunse il nome attuale. I problemi non terminarono e, anzi, i trentasette anni di potere di Robert Mugabe , leader di etnia shona, portarono a ulteriori scontri etnici e una crisi economica da cui il Paese non si è mai realmente ripreso. La complicata storia della Rhodesia e dello Zimbabwe non può che specchiarsi anche in quella sportiva e del Comitato Olimpico Nazionale. Dopo una prima apparizione ai Giochi di Amsterdam 1924 come Rhodesia Meridionale, la Rhodesia tornò sulla scena olimpica a Roma nel 1960 come ‘Federazione di Rhodesia e Nyasaland’ e, a Tokyo 1964, nuovamente come Rhodesia Meridionale. In tutte e tre le occasioni non arrivarono medaglie, con l’onorevole quarto posto conquistato da David Butler e Christopher Bevan nel dinghy durante i Giochi nipponici come miglior piazzamento. Nelle tre edizioni successive la Repubblica di Rhodesia fu bandita dai Giochi: a Città del Messico 1968 il governo messicano onorò la decisione dell’ONU di non accettare il passaporto rhodesiano per entrare nel Paese. Per Monaco di Baviera 1972 in un primo momento, durante la 71ª seduta del CIO tenuta in Lussemburgo nel 1971, sembrò esserci un’apertura verso gli atleti della Rhodesia a patto che gareggiassero con uniformi, bandiera e inno britannico, ma a pochi giorni dal via dei Giochi gli Stati africani minacciarono un boicottaggio di massa se fosse stato permesso alla Rhodesia di partecipare, poiché gli atleti erano entrati nella Repubblica Federale Tedesca non con il passaporto britannico ma con la carta d’identità olimpica, rendendo quindi più foschi i contorni della propria rappresentanza a Monaco. Due giorni prima della cerimonia d’apertura si tenne una votazione d’emergenza con cui, per 36 voti contro 31, si decise di non far gareggiare gli atleti rhodesiani. Infine, nel 1975, in piena guerra civile, tre membri del CIO ispezionarono gli impianti sportivi in Rhodesia e giunsero alla conclusione che non c’erano gli estremi per permettere al Comitato Olimpico Rhodesiano di partecipare ai Giochi Olimpici di Montréal 1976. I Giochi Olimpici di Mosca 1980, la cui cerimonia d’apertura si tenne appena tre mesi dopo l’indipendenza ufficiale dello Zimbabwe, furono dunque un’occasione enorme per consentire a un Paese dilaniato da scontri interni e a lungo malvisto dalla comunità internazionale di riconquistare la propria legittima dignità come Stato. La vicinanza tra l’Unione Nazionale Africana Zimbabwe , il partito di Mugabe ora al potere e l’Unione Sovietica non mise mai realmente il dubbio di una possibile adesione al boicottaggio successivo all’invasione sovietica in Afghanistan, e così una delegazione composta da 42 atleti poté sfilare all’interno dello Stadio Lenin per penultima, una peculiarità che a lungo ha accompagnato l’ultimo in ordine alfabetico dei 193 Paesi membri dell’ONU. La sola possibilità di partecipare, con una delegazione composta per gran parte da atleti bianchi discendenti degli anglosassoni, fu di per sé un assoluto successo per coloro che per anni si erano trovati impotenti a dover sottostare a decisioni indipendenti dalla propria volontà. Inevitabilmente i risultati furono modesti: il nuotatore Guy Goosen riuscì a superare le batterie dei 100 farfalla, ma fu l’unico sussulto proveniente dagli sport individuali, mentre la musica cambiò decisamente nell’unico sport di squadra a cui lo Zimbabwe era iscritto, ovvero il torneo femminile di hockey su prato. Una squadra particolare Per la prima volta si era aperto il torneo di hockey su prato anche al femminile, dopo che per anni era stato ad appannaggio unicamente maschile e molto spesso teatro di scontri, figurati e reali, tra le due superpotenze India e Pakistan. Per il torneo erano qualificati Paesi Bassi, Germania Ovest, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Gran Bretagna, ma il boicottaggio sconvolse i piani degli organizzatori che, a pochi mesi dall’evento, si trovarono con la sola Unione Sovietica iscritta al torneo in qualità di padrona di casa. In fretta e furia vennero chiamate la Cecoslovacchia, l’India, l’Austria e la Polonia per partecipare al torneo e venne invitato, solamente 35 giorni prima dell’inizio dei Giochi, anche il Comitato Olimpico dello Zimbabwe a prendere parte sia al torneo maschile sia a quello femminile. Il Paese africano accettò di partecipare al torneo femminile con una squadra composta interamente da atlete bianche che giocavano nel Paese e che sarebbero dovute andare, negli stessi giorni del torneo olimpico, in Sudafrica per l’annuale torneo interprovinciale. La squadra fu affidata alla 35enne Anthea Stewart, madre del tuffatore Evan Stewart oro nel trampolino da un metro ai Mondiali di Roma 1994, nel ruolo di giocatrice-allenatrice, mentre il grado di capitano fu affidato ad Ann Grant, che nella vita di tutti i giorni faceva la contabile. Le sedici giocatrici erano infatti tutte non professioniste e svolgevano altri lavori: contabile, bancaria, impiegata amministrativa, insegnante di ginnastica o impiegata presso l’Aeronautica Militare come nel caso del portiere di riserva e più giovane della spedizione, la diciottenne Arlene Boxall. La squadra affrontò un viaggio tra Zimbabwe, Zambie e Angola prima di imbarcarsi e arrivare a Mosca appena a dieci giorni dall’inizio del torneo a bordo di un aereo adoperato per il trasporto della carne. Una volta giunte in Unione Sovietica le atlete si trovarono ad affrontare il primo grande ostacolo, i campi in erba sintetica su cui non avevano mai giocato prima. “Il viaggio fu terribile – ricorda Grant – non c’erano sedili. Sedevamo per terra dirette verso l’ignoto, senza nemmeno le scarpe giuste per giocare sul campo sintetico”. Ebbero giusto il tempo di disputare qualche allenamento e qualche amichevole per poi tuffarsi immediatamente nel torneo olimpico. Il formato era un semplice girone all’italiana: tutte contro tutte, due punti per la vittoria, uno per il pareggio, zero per la sconfitta e alla fine fa fede la classifica del girone, senza semifinali e finale. L’esordio dello Zimbabwe avvenne il 25 luglio alle undici di mattina contro la Polonia, squadra materasso del torneo , un 4-0 tondo che diede la giusta carica alla nazionale africana. Nella seconda giornata lo Zimbabwe pareggiò con la Cecoslovacchia con i gol di Liz Chase e Pat McKillop, le due attaccanti più prolifiche, trovandosi spalle al muro per la partita del giorno successivo contro le padrone di casa. Il tardo pomeriggio di lunedì 28 luglio, chiamate a rispondere alla vittoria cecoslovacca sull’India, le atlete dello Zimbabwe sconfissero per 2-0 l’Unione Sovietica grazie alle parate di Sarah English e alla doppietta di Pat McKillop, una casalinga proveniente dal Matabeleland, madre di Michael McKillop e Matthew Williams, entrambi futuri capitani della Nazionale maschile di hockey su prato, e Sean Williams, capitano della Nazionale di cricket del Paese. La svolta La vittoria sull’Unione Sovietica fu il momento di svolta per le ragazze di Stewart, consce di poter conquistare non solo la prima medaglia per il proprio Paese, ma addirittura l’oro. Due giorni più tardi l’1-1 contro l’India rimise però in discussione tutto. A una giornata dal termine la classifica recitava Zimbabwe 6, India, 5, Cecoslovacchia 5, Unione Sovietica 4, Austria 4, Polonia 0. La giornata finale del torneo, il 31 luglio, si aprì con la vittoria di misura della Cecoslovacchia contro la Polonia e a questo punto era ufficiale: lo Zimbabwe doveva battere l’Austria per poter portare a casa la medaglia d’oro. Glen Byrom, inviato del The Herald, uno dei principali quotidiani del Paese, definì “visibilmente nervose” le giocatrici zimbabwane a inizio gara, con diverse occasioni sprecate dall’Austria per portarsi in vantaggio. Sandra Chick segnò il primo gol della partita, ma l’Austria pareggiò un paio di minuti più tardi portando la partita in pareggio all’intervallo. Nel secondo tempo però la musica fu completamente diversa: molto più propositivo, lo Zimbabwe trovò la rete del 2-1 al 50° con McKillop, il 3-1 poco dopo con Gillian Cowley e il definitivo 4-1 di McKillop che con quel gol si portò a casa anche il titolo di miglior marcatrice del torneo. La festa al fischio finale fu descritta da Byrom come “Scene incredibili di festa sfrenata. Le zimbabwiane, con le lacrime agli occhi, ballavano in campo abbracciandosi e baciandosi”. Al momento della premiazione venne per errore suonato l’Inno alla Gioia di Beethoven, ovvero la melodia dell’inno della Repubblica della Rhodesia, un incidente diplomatico che avrebbe potuto acuire le tensioni tra la maggioranza nera dello Zimbabwe e la ‘bolla bianca’ che conquistò quell’incredibile primo oro olimpico nella storia di un Paese nato solamente tre mesi prima, ma così non fu. Le ‘ragazze d’oro dello Zimbabwe’ vennero accolte all’aeroporto di Harare, nuovo nome della capitale al posto del precedente Sainsbury, con tutti i meritati onori per l’impresa compiuta. “Fu incredibile la risposta della gente”, raccontò anni più tardi alla BBC Liz Chase, scomparsa nel 2018 a causa di un tumore. “All’aeroporto c’erano centinaia di migliaia di bambini, majorette, bande musicali, tv e radio. Non potevamo muoverci in mezzo a quel bagno di folla. Eravamo diventate le ‘ragazze d’oro’ ed era come se il Paese si fosse fermato solo per accoglierci al nostro ritorno”. Robert Mugabe, le cui politiche di ritorsione verso la minoranza bianca di origine anglosassone nel Paese stavano portando tanti ad abbandonare lo Zimbabwe, inviò un telegramma al momento della vittoria destinandolo alle “Figlie dello Zimbabwe” e invitò tutta la squadra a un barbecue con i ministri del nuovo governo, una sorta di ricompensa al posto di regalare a ciascuna di loro un bue come inizialmente promesso durante il torneo. Cosa è successo dopo L’exploit della squadra femminile di hockey su prato a Mosca 1980 non fu più ripetuto in campo: a oggi quella rimane l’unica apparizione olimpica per lo Zimbabwe, capace di vincere le Coppa delle Nazioni africane disputata in casa nel 1990 come unico altro successo di prestigio. Anche fuori dal campo i problemi di convivenza tra la maggioranza nera e la minoranza bianca non si risolsero, come detto le politiche di Mugabe tolsero tutto il potere dalle mani dell’élite di origine britannica e moltissimi zimbabwiani bianchi, additati come nemici dalla nuova classe politica, lasciarono un Paese in grandissima difficoltà economica con un tasso d’inflazione alle stelle . Dall’ultimo censimento, effettuato nel 2022, risulta che attualmente lo 0.16% della popolazione è composta da bianchi, quando la Repubblica di Rhodesia ne contava 300.000 nel 1975. Nonostante una storia tormentata che non va mai dimenticata, lo sport e i Giochi Olimpici hanno più volte dimostrato il proprio valore da collante sociale nel Paese. È impossibile non notare come la totalità delle medaglie conquistate dallo Zimbabwe ai Giochi Olimpici provenga da atlete della minoranza bianca . Le ragazze d’oro e Kirsty Coventry sono state e sono tuttora però esempio di come le imprese sportive siano in grado di unire un intero popolo ed essere celebrate superando le differenze, ma questo non deve essere un punto di arrivo bensì uno stimolo per ripartire permettendo a tutte e tutti di poter avere l’occasione di sognare. Ancora oggi le atlete di quella nazionale di hockey su prato organizzano un torneo celebrativo ogni luglio per ispirare le nuove generazioni e la maggior parte di esse continua a vivere in Zimbabwe. Perché se è vero che lo sport da solo non può guarire le ferite di un Paese, può però indicare la via verso una convivenza possibile, verso una pace costruita sul rispetto e sull’orgoglio di sentirsi parte di un’unica squadra: quella dello Zimbabwe.

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Nicolò Gatti