Salvatore Cristiano Misasi, il Brigante in handbike e il suo viaggio sociale di 545 km

Com'è nato il progetto di questo percorso in Calabria? “Per spiegarlo devo raccontare un po’ della mia storia. Fino ai 19 anni non ero autonomo quasi per niente, poi ho incontrato due fratelli, Alessandro e Federico Villa, che mi hanno cambiato la vita. Con il loro supporto, con la loro maturità e con la loro esperienza di vita, hanno 20 anni più di me, mi hanno indirizzato verso una vita autonoma. Mi hanno aiutato a scegliere altri ausili, un’altra sedia a rotelle, mi hanno insegnato molti metodi pratici e dato tanti consigli. Nessuno prima di loro mi aveva aiutato così, perché nessuno sapeva davvero cosa provassi e come vivessi. Prima di loro nessuno mi aveva dato consigli del genere perché nessuno viveva o aveva vissuto la mia stessa condizione. Così, dai 19 anni in poi ho iniziato a costruire questa mia esistenza autonoma e in 2-3 anni sono riuscito a raggiungere un buon livello di autonomia. Il primo obiettivo importante è stato raggiungere una buona autonomia in casa ma poi volevo spostare la linea del limite più avanti. Nel 2007 Alessandro Villa ha compiuto un viaggio in handbike da Baton Rouge a Memphis, in America, e ha realizzato un documentario del suo percorso. Nei momenti di sconforto mi ritrovavo spesso a guardare questo documentario e ho iniziato a pensare ‘Ma perché non ripercorrere le sue orme?’. Volevo farlo sia per superare i miei limiti, sia per riportare alla luce la sua storia e il suo messaggio. L’idea iniziale era di provare a fare una maratona in handbike e di andare in qualche paese estero, ma poi per caso ho scoperto l’esistenza di questo percorso ciclabile che attraversa la ‘mia’ Calabria e mi sono detto ‘Forse più di andare a conquistare un altro territorio, potrei portare il mio messaggio per il futuro nella mia terra’. Purtroppo, la Calabria non esalta il potenziale di una persona con disabilità, molte persone hanno ancora idee molto radicate nel passato e sono molto chiuse. Provare ad aprire quelle coscienze con il mio passaggio e con la mia fatica era una sfida più grande di andare in qualsiasi altro posto. Così è nata l’idea di questo viaggio. Volevo superare i miei limiti e portare un messaggio sociale molto importante. Volevo far capire che se le barriere venissero abbattute, non ci sarebbe questa differenza sociale tra disabili e normodotati. Questo viaggio è anche per Alessandro e Federico, che ora avendo una malattia degenerativa non possono più fare un percorso del genere. Ho fatto questo viaggio in loro onore”. E il nome ‘il Brigante in handbike’ come nasce? “È nato un po’ per caso. Inizialmente aveva un significato molto superficiale: andando io ad attraversare il territorio in cui un tempo vivevano e operavano i briganti, ho pensato di ispirarmi a questo personaggio legato un po’ alla storia e un po’ alla mitologia. Ma poi mi sono reso conto che aveva molti altri significati dietro. E ho notato come ci fosse qualcosa in comune tra me e i briganti di un tempo. Anche io, come loro, combatto ‘contro la mia terra’ per far nascere una rivoluzione, una ribellione. Anche io voglio raggiungere una libertà maggiore. Voglio vivere in uno stato sociale degno di essere vissuto. C’è poi anche un terzo significato, anche questo nato con il tempo. Chiamandomi ‘il Brigante in handbike’ sono riuscito a creare un personaggio in cui chiunque può riconoscersi. Un ‘personaggio mascherato’ simile a un supereroe ma senza super poteri. Un personaggio la cui maschera può essere comune a tutti per le ferite che porta. Volevo creare un qualcosa di comune, in cui tutti potevano riconoscersi. In futuro qualcuno potrebbe svegliarsi e dire ‘Anch’io voglio essere un brigante, anch’io voglio combattere questa causa’. Se mi fossi chiamato ‘Cristiano in handbike’ non avrebbe avuto lo stesso effetto. La mia maschera può essere il simbolo di una lotta che unisce contro le ingiustizie sociali”. Come è stato prepararsi a questa impresa? Ci sono stati momenti di difficoltà? “L’organizzazione del viaggio e del percorso è stata davvero difficile. Era complicato organizzare la logistica perché c’erano dei punti delicati. Ma soprattutto è stato complicato trovare il giusto equilibrio meccanico tra me e la bike. La mia è una patologia molto invalidante che non permette di svolgere alcune azioni e ho dovuto trovare una combinazione di ausili per poter fare questo percorso in handbike in sicurezza. Dal punto di vista fisico, ho lavorato per due anni per arrivare pronto ad affrontare tutti questi chilometri. Ma l’aspetto fisico non mi preoccupava molto. Era importante lavorare sull’aspetto mentale e sulla razionalità. Ho dovuto imparare a liberarmi delle mie preoccupazioni e dei miei timori. Quando organizzi un’impresa del genere ci sono tante aspettative e tante responsabilità. Molte persone sono state coinvolte nell’organizzazione, hanno speso il loro tempo e il loro lavoro per realizzare questo progetto e sentivo questo peso sulle mie spalle. Ma sono riuscito a razionalizzare il tutto e ad arrivare alla partenza tranquillo. Mi sentivo solido mentalmente e dopo le prime tappe questo mio equilibrio mentale si è rafforzato ancora di più”. Tra tutte le tappe percorse ce ne è una più significativa? “Tutte le tappe sono state importanti. Ma più del percorso sono state importanti le persone incontrate lungo il tragitto. Ogni tappa ha avuto i suoi protagonisti, a partire dalle persone che mi applaudivano quando passavo nei paesi e mi incoraggiavano. In tanti mi hanno chiesto di questo mio viaggio e io mi rendevo conto che fermandomi a parlare con queste persone stavo cambiando la loro mentalità. Ma la tappa che porterò per sempre nel cuore è l'ultima, perché nel tratto finale ho incontrato Alessandro e Federico e abbiamo percorso insieme, come in una parata, il lungomare di Reggio Calabria. È stata un’emozione unica. Come ho detto, ho fatto questo viaggio anche per loro e concludere il percorso con loro è stato molto bello. È stato come un passaggio di testimone. Ho portato avanti il loro messaggio, la loro missione. Loro mi hanno donato una vita migliore e quindi ho fatto questo per loro. E ora spero con tutto il cuore che tra 20 anni ci sarà un altro ragazzo che porterà avanti questa missione. Magari un giorno riceverò una telefonata e un ragazzo mi dirà ‘Cristiano, voglio fare questa avventura: tu cosa mi consigli?’. Spero di essere una scintilla per qualcun altro come Alessandro e Federico lo sono stati per me”. Ma prima di passare il testimone c’è già in programma una nuova impresa da fare? “Il documentarista mi ha detto: ‘Non pensare minimamente che questa sia l'ultima perché devi continuare, devi scrivere il secondo capitolo’. Io amo l’avventura e mi piace condividere quello che faccio perché sono consapevole che solo con la condivisione si può costruire qualcosa e aiutare altre persone. Quindi sì, certamente c’è la voglia di scrivere un secondo capitolo e farò sicuramente un altro viaggio ma ancora non ho la trama . Non so dove andrò, ma di sicuro non è finita qui”.

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