Un salto nella storia senza immagini: il record indimenticabile di Sara Simeoni

Un oro è per sempre, al contrario un record del mondo nasce già con una data di scadenza da compilare. Possono passare giorni, mesi, anni, a volte decenni, ma, prima o poi, cadrà. È la natura, o, se si preferisce, l’evoluzione umana, il principio darwiniano applicato allo sport, apprezzabile non dopo milioni di anni, ma in tempi assai più brevi. Eppure, ci sono eventi che sfuggono a questa legge, restano fissati nella memoria collettiva di una generazione e tramandati a quelle successive, anche quando sono statisticamente scaduti. Sara Simeoni è la dimostrazione di questo strano caso. Lo si può provare empiricamente: chiedete a 10 italiani over 50 la prima cosa che viene loro in mente in relazione a una delle atlete simbolo dello sport azzurro: la metà vi citerà l’oro di Mosca, il restante 50% il record del mondo nel salto in alto, i più orientati sottolineeranno che è stata la prima donna a superare quota due metri. Lo stesso risultato che si otterrebbe con il 19.72 sui 200 di Pietro Mennea, con due differenze però. La prima: quel tempo, ottenuto in altura, si pensò potesse davvero durare per sempre. La seconda: le immagini di Città del Messico sono sempre state a disposizione, viste e riviste. Il 2.01 di Sara Simeoni, invece, durato una manciata di stagioni, è stato per trent’anni solo un numero, tutt’al più una foto, un’idea. È la curiosa parabola mediatica di un momento storico dello sport italiano, consumato durante un pomeriggio d’estate a Brescia, in un campo sportivo omologato per ospitare un migliaio di persone, ma che in quell’occasione si attrezza, con tribune posticce, a contenerne circa settemila. Non c’è la percezione che qualcosa di epocale stia per avvenire, ma per quel piccolo impianto di provincia la sola presenza di una delle punte della nazionale azzurra, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Montreal due anni prima e in piena preparazione per gli europei di Praga, è già di per sé un evento straordinario. Sara Simeoni è di Rivoli Veronese, a due passi dal lago di Garda e a un centinaio di chilometri da Brescia: non sembra vero di poter andare a sostenere la figlia, la cugina, l’amica d’infanzia in una gara ufficiale di cui è la star assoluta. Familiari e amici, a cominciare dai genitori, sono lì a contribuire alla moltiplicazione delle tribune, ma per quanto l’entourage sia nutrito, la dilatazione pianificata della capienza è spiegabile solo con la dimensione internazionale che l’atleta ha già raggiunto. Queste persone sono le uniche testimoni oculari di un evento di cui per decenni non ci saranno immagini video. Solo nel 2008, trent’anni più tardi, dagli archivi di TeleNord di Brescia, l’emittente presente, spunterà un servizio di 4 minuti con tutta la sequenza dei salti, ma anche con la registrazione di gesti, sguardi, sorrisi che esprimono quiete, presa di coscienza, fino all’esplosione di gioia e alla celebrazione, un climax di stati d’animo più intimo, perché privo del filtro del grande evento. A inizio filmato Sara scherza con una compagna, è serena perché non sospetta di essere a un crocevia significativo di una carriera ancora tutta da scrivere e poi è in uno stato di forma straordinario: in quella stagione ha già conquistato l’oro a Milano negli Europei indoor, saltando 1.94, poche settimane prima, outdoor, ha superato 1.97, suo nuovo personale. Che sia record italiano è scontato in quanto Sara, per il movimento azzurro del salto in alto, è ormai da anni l’atleta che ha fatto il salto di qualità, aderendo, grazie all’intuizione del suo primo tecnico Bragagnolo, alla svolta rappresentata dalla tecnica del dorsale, con cui Fosbury stupì il mondo dieci anni prima vincendo l’oro alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968. Il vantaggio biomeccanico offerto dalla tecnica Fosbury non è tanto nell’elevazione, grossomodo la stessa in ogni stile, ma il diverso posizionamento del corpo intorno all’asticella, che mette l’atleta in condizione di superare la medesima quota in maniera più agevole e con meno rischi. Per i resilienti del ventrale è addirittura più semplice da imparare da un punto di vista meramente procedurale, ma solo per chi parte da tabula rasa, non per loro, vincolati, mente e corpo, alla tradizione. Sara ha appena sedici anni, pratica la disciplina da una manciata di stagioni e possiede un’elasticità mentale che le consente di abbandonare il “vecchio” e di acquisire il “nuovo”, e da subito le riesce naturale. È una specie di pioniera in Italia, dove la cura della disciplina non è certo all’avanguardia e la maggior parte degli atleti, e soprattutto delle atlete, resterà a lungo ancorata al passato. Ma non solo da noi, ancora nel 1972 a Monaco, nella gara dell’alto femminile, Sara è una delle poche a proporre il fosbury e con lei una sedicenne che sbaraglierà la concorrenza proprio con il dorsale: è Ulrike Meyfarth, la cui apparizione sulla scena ha la forza dirompente vissuta al maschile 4 anni prima. È il nuovo che prende il sopravvento sulla tradizione, l’Occidente sull’Est europeo, ma ancora non è calato il sipario sul ventrale. 4 anni più tardi a Montreal a vincere sarà Rosemarie Ackermann, tedesca dell’est, con lo straddle, il canto del cigno di uno stile che, un anno dopo, nel 1977, uno prima del 4 agosto bresciano, le consentirà di stabilire con due metri netti il nuovo primato mondiale. È il limite definitivo di questa tecnica e il fatto che si tratti di cifra tonda, secondo il sistema metrico, ha un valore simbolico di enorme suggestione: più in alto dei due metri, saltando così, l’universo femminile non può spingersi. Torniamo al Morosini di Brescia, a quel 4 agosto 1978. La gara di Sara Simeoni inizia a 1.89, una misura che fino a un paio di anni prima sarebbe stata per lei già ragguardevole, mentre ora è semplicemente scontata, un salto di avvio, per rompere il ghiaccio e nulla più. Nel 1976 l’argento di Montreal arrivò grazie a un 1.91, il suo personale dell’epoca, ma adesso questa misura è troppo bassa: si passa quindi direttamente a 1.93, superato con un margine enorme. Qui Sara capisce che c’è qualcosa nell’aria, il giudice di gara coi baffi le dice qualcosa che può far pensare a un complimento, lei si volta verso l’altro giudice, chiede la nuova misura e quello annuisce convinto, come se già se lo aspettasse: si sale a 1.98, il suo nuovo personale. Sbaglia il primo tentativo, ma vola sopra l’asticella immobile al secondo: per Erminio Azzaro, altista bronzo europeo nel ’69, suo compagno da Monaco 1972, da allora anche allenatore e successivamente anche marito, sarà questo il miglior salto della carriera di Sara Simeoni, un salto potenzialmente da 2.03/04 che non potrà mai essere misurato in maniera oggettiva. 1.98 è dunque il nuovo limite italiano, il passo successivo è scontato: 2.01, un centimetro in più di Rosemarie Ackermann. Un’ora prima sarebbe stato impensabile, ma quell’1.98, saltato in quel modo, ha cambiato completamente la prospettiva: si può fare. Primo tentativo. Nel video si sente un tappetino musicale anni settanta che copre un silenzio comunque percepibile, e così la canicola agostana, la cappa, l’attesa. Sara parte con la sua rincorsa, un ritmo crescente, progressivo, un saltello al quinto passo e poi la curva e lo stacco e la spinta e la fase di volo, sinuosa, l’asticella sfiorata col bacino, immediato il richiamo delle gambe. Oscilla, quell’asticella, ma è evidente che non cadrà. Nessuno lo capisce prima della saltatrice che, rimbalzando dopo l’atterraggio, già esulta, facendo scattare in piedi simultaneamente tutta la tribuna. È record del mondo, uno di quei record che consentono una formula immortale: “la prima donna che…” nel suo caso “…riesce a superare quota 2 metri”. La sua amica Ackermann, che a Brescia ovviamente non c’è, verrà informata che il suo primato è durato appena un anno e che la sua disciplina, forse, ha voltato pagina definitivamente, dieci anni dopo l’irruzione di Fosbury. Nemmeno un mese più tardi potrà vederlo coi suoi occhi agli Europei di Praga, quando la collega italiana si ripeterà a 2.01 e lei si fermerà a 1.99. A Mosca, l’apoteosi di Sara con l’oro olimpico, la tedesca dell’est scenderà dal podio, sarà solo quarta. Per 30 anni sarà questo il salto da 2.01 visibile, quello del passaggio di consegne, simbolicamente rappresentato dall’abbraccio tra le due rivali. I mezzi televisivi di un grande evento come quello di Praga ci consentono di apprezzare il salto che eguaglia il record di Brescia da due differenti inquadrature e di analizzarlo nei dettagli: l’asticella non oscilla, ma il bacino passa comunque a un millimetro, non c’è margine, e infatti più su Sara non riuscirà a salire: verrà superata da Meyfarth nel 1982, che volerà fino a 2.03 l’anno successivo, fino all’oro olimpico bissato a Los Angeles, con Simeoni splendido argento a 31 anni e 2 metri superati. La progressione del record femminile innescata dal fosbury è cominciata e si arresterà solo nel 1987, alla quota monstre di 2.09 stabilita da Stefka Kostadinova e superata solo 37 anni dopo da Yaroslava Mahuchikh, storia contemporanea. A Brescia la telecamera fantasma è una sola e il filmato, perduto e riapparso, dopo l’abbraccio tra Sara ed Erminio va “a nero”, pudicamente, come volesse rispettare la privacy della coppia. Prosegue invece, per qualche secondo, la voce del narratore, Sandro Calvesi, allenatore bresciano di ostacolisti e tecnico federale, suocero di Eddy Ottoz e nonno di Laurent, a lui verrà intitolato il Morosini dopo la scomparsa. Per 30 anni nemmeno un fotogramma di quell’impresa, esisteva solo il 2.01 bis, quello più scintillante, con standard televisivo internazionale, ma pur sempre il secondo, non l’originale. Come una prova generale, a cui si invitano i parenti e gli amici. Oggi amici e parenti vedrebbero tutto attraverso un display per non correre il rischio di non possedere testimonianza visiva di quanto avvenuto. L’ansia di perdere l’attimo, perché se l’attimo non viene registrato semplicemente non esiste, non è mai avvenuto, è perso, irrimediabilmente. Quel pomeriggio bresciano per anni è stato tramandato solo oralmente, come la rivalità Binda-Guerra e i gol di Piola e Meazza, eppure tutta una generazione l’ha comunque immaginato, condiviso, senza la minima consapevolezza di non averlo mai realmente visto. Tutt’al più lo si sovrapponeva inconsciamente alle immagini di Praga, senza farsi troppe domande. Oggi, l’averlo ritrovato, non aggiunge valore a quel giorno, ma solo dolcezza. Come le foto ingiallite o i video scattosi dei compleanni di tanti anni fa.

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