Morto a 88 anni Boris Spassky, il racconto della celebre sfida del secolo contro Fischer

CLICCA QUI PER ASCOLTARE IL PODCAST DI FABIO TAVELLI SU SPREAKER Lo sport è la continuazione della politica con altri mezzi. Basta guardare alla storia dal Novecento in poi. L’intreccio sociopolitico tra lo sport e i libri di storia è continuo. Le olimpiadi di Berlino 1936, quelle di Messico ’68, le due Germanie che si incontrano ai mondiali di calcio del ’74. Argentina ’78 con la dittatura del Generale Videla. Il Sudafrica che vince i mondiali di rugby in casa nel ’96. Muhammad Alì. La diplomazia del ping pong e la visita in Cina di Nixon nel 1972. Ma il vero vertice dell’incontro tra politica e sport fu un altro. E si svolse a Reykjavik, nella remota isola d’Islanda. La stessa capitale dove Ronald Reagan strinse la mano a Michail Gorbaciov nel 1986. Lì ci fu IL confronto-scontro tra due superpotenze. Era il 1972 e il teatro della sfida non fu una Caccia a Ottobre Rosso o una minaccia alla baia dei Porci. Ma una scacchiera. L’Unione Sovietica aveva la scuola di scacchi più forte al mondo. Per affrontarla e sperare di batterla c’erano due possibilità: o avere una scuola altrettanto forte oppure avere un genio. Gli Stati Uniti trovarono un genio. Per una volta a sfidarsi per il titolo di campione del mondo di scacchi non erano due sovietici. In passato era sempre stato così. Prima dell’arrivo sulla scena di Robert, Bobby Fischer. Campione del mondo e indiscusso Grande Maestro di scacchi era Boris Spassky. L’uomo di Leningrado aveva conquistato il titolo contro il connazionale Tigran Petrosjan nel 1969. L’anno in cui gli americani avevano battuto i sovietici nella corsa alla conquista della Luna. Ma se sul satellite era piantata la bandiera a stelle e strisce, sulla scacchiera sventolava sicura quella sovietica. Nel 1971 a vincere il torneo dei candidati a sfidare il campione non fu Petrosjan, che avrebbe voluto la rivincita su Spasskij. Petrosjan fu battuto in finale dallo statunitense Bobby Fischer che nel 1972 avrebbe potuto sfidare il campione del mondo. Era un’occasione più unica che rara per cercare di battere i sovietici nello sport intellettuale per eccellenza. Fischer era un personaggio controverso: snob, spaccone, testardo. Non un campione di patriottismo. Spesso era critico verso gli Stati Uniti e i suoi abitanti, accusati di passare più tempo davanti alla televisione che a leggere libri. Ma Bobby detestava l’Unione Sovietica. Sosteneva che i suoi giocatori di scacchi si mettessero d’accordo durante le prime fasi dei tornei per far passare il turno ai giocatori più forti senza troppe difficoltà. Fischer era soprattutto un fuoriclasse della scacchiera. Giocava esattamente nel modo in cui si comportava nella vita normale: si buttava all’attacco con l’obiettivo dichiarato di distruggere mentalmente l’avversario. Spassky era diverso. Era la punta di diamante del sistema scacchistico sovietico. Un giocatore fortissimo tatticamente, che cercava di anticipare le mosse degli avversari. Fischer era sotto controllo dell’FBI da anni. Il sospetto nei suoi confronti era dato dal fatto che la madre potesse essere comunista probabilmente a causa degli anni trascorsi a Mosca a studiare medicina. Regina Fischer era sotto osservazione sin da quando Bobby era bambino. Regina lo mandò a Mosca nel 1958 per un torneo di scacchi ma secondo l’FBI era un tentativo di indottrinamento. Per i servizi non era concepibile andare a Mosca solo per giocare un torneo di scacchi. Fischer dormiva sempre con una scacchiera su una sedia accanto al letto. Prima di coricarsi la guardava e rifletteva. La posta in gioco era altissima. I sovietici non si risparmiarono alcuno sforzo per ottenere ogni possibile vantaggio. Dopo aver detenuto il titolo mondiale per 34 anni non avevano alcuna intenzione di cederlo ad un americano, per di più “maleducato” come Fischer. Il premio a sei cifre sarebbe stato il più alto mai assegnato per una sfida a due in qualunque sport che non fosse il pugilato. Quando l’Islanda presentò la sua candidatura per ospitare il match Bobby volò nella capitale a ispezionare il sito. Mentre le trattative proseguivano, Boris e Bobby andarono in montagna ad allenarsi. Spassky andò in ritiro nel Caucaso, Fischer sulle Catskills, a oltre 10mila km di distanza. Fischer allenò tanto la mente quanto il corpo con sessioni presso la palestra dell’Albergo, nuotate a ritmo sostenuto in piscina e due partite di tennis ogni giorno e una serie infinita di addominali sulla panca. Alla sera, stanco fisicamente, iniziava a studiare le partite di Spassky. Quest’analisi microscopica proseguiva fino alle prime ore del mattino. Il testo sul quale studiava conteneva 355 partite di Spassky. Questo volume era sempre con Bobby. Conteneva i suoi commenti a matita e tutti suoi punti esclamativi o interrogativi. Quando voleva impressionare qualcuno gli chiedeva di scegliere una partita a caso delle 355 partite e dirgli contro chi Fischer l’avrebbe ripetuta mossa per mossa. Aveva memorizzato alla perfezione più di 14mila mosse! La comunità scacchistica considerava ormai il duello tra Spassky e Fischer come il match più importante mai giocato da un americano. La rivista Time suonò la fanfara geopolitica. Soprannominò la sfida ‘L’orso russo contro il lupo di Brooklyn’. La difesa del titolo da parte di Spassky divenne simbolicamente una vera e propria difesa dell’Unione Sovietica, un fardello piuttosto pesante per il russo. Una battaglia della Guerra Fredda stava per decidersi non con uno scontro a fuoco o un incontro diplomatico ma con una sfida intellettuale basata su trentadue enigmatici pezzi. Il vero vantaggio per Spassky era il regolamento. Che garantiva la vittoria al campione in carica nel caso in cui i contendenti terminassero a pari punti. A Reykjavik, Fischer avrebbe dovuto totalizzare almeno 12 punti e mezzo per riuscire a spodestare l’avversario. L’Islanda è il più occidentale e tra i più piccoli Paesi d’Europa. È in una posizione remota nell’Oceano Atlantico Settentrionale, a ridosso del circolo polare articolo. Una scelta bizzarra per ospitare la finale del campionato del mondo di scacchi. Cosa rendeva Reykjavik il posto ideale? Gli islandesi amano gli scacchi come impresa culturale e intellettuale. Sono un popolo estremamente colto. Leggono libri e tutti sanno giocare a scacchi. Nei mesi invernali, quando le giornate hanno quasi 24 ore consecutive di oscurità gli islandesi combattono contro il gelo atlantico, i venti, le tempeste e le piogge sferzanti anche stando in casa a giocare a scacchi. Gigantografie di Fischer e Spassky campeggiavano in quasi ogni negozio. Fischer non era d’accordo sugli accordi finanziari raggiunti. 78mila dollari sarebbero andati al vincitore, 47 mila allo sconfitto. Inoltre, ciascuno di loro avrebbe incassato il 30% dei diritti televisivi e cinematografici. L’americano voleva però anche il 30% dell’incasso per la vendita dei biglietti. Sosteneva che lui e Spassky ne avrebbero avuto diritto. La Federazione scacchistica islandese scelse come luogo il Laugardalshöll. Tremila posti a sedere, da riempire per una possibile da serie da 24 partite. Partenza prevista di Bobby Fischer per l’Islanda: 25 giugno. La compagnia aerea aveva prenotato un’intera fila di sedili solo per lui e aveva riempito di arance il frigo dell’aereo per permettere all’americano di avere del succo d’arancia spremuto davanti a lui, come da precisa richiesta. Fischer non si presenta al gate e il volo parte senza di lui. Le arance resteranno a terra. Gli avvocati di Fischer continuavano a trattare con gli organizzatori per i diritti sui biglietti. Ma le parti sembravano inamovibili. Nella settimana seguente Fischer prenotò e annullò ogni volo in partenza per Reykjavik. I quotidiani islandesi cominciarono a mettere in dubbio il suo arrivo. Anche i giornali statunitensi cominciarono a perdere la pazienza. Il NY Times titolò: ‘I russi disprezzano Fischer per il suo attaccamento al denaro’. L’agenzia Tass scrisse: “Quando la questione concerne Fischer in primo luogo viene il denaro, mentre le motivazioni sportive restano relegate sullo sfondo”. Bild scrisse: “Fischer ha portato gli scacchi al livello di un incontro di wrestling. Non avevamo mai conosciuto un tale grado di arroganza e snobismo”. Bobby sapeva che più avrebbe atteso e più ricco sarebbe stato il suo premio finale. La cerimonia di apertura era prevista alle 20 di sabato 1 luglio 1972 presso il Teatro Nazionale Islandese. 24 ore prima della prima partita in calendario. Molti giornalisti e moltissimi spettatori stavano già chiedendo informazioni sui voli di rientro visto che Fischer era ancora a New York. Tutti i giornali americani assediavano i luoghi di residenza di Bobby e tutti i titoli erano per lui. Le altre notizie erano destinate a finire nelle brevi. L’estrazione per i colori degli scacchi della prima partita non ebbe luogo durante la cerimonia di apertura, che non potè quindi procedere secondo il programma stabilito. Spassky era in prima fila vestito con un elegante completo a scacchi grigi. Un altro posto in prima fila era vistosamente vuoto. Gli spettatori allungavano il collo in direzione dell’ingresso aspettando, o sperando, che da un momento all’altro Fischer facesse la sua grande comparsa. Ma non accadde. La sedia in prima fila rimase vuota. Il direttore della sfida concesse a Fischer un ritardo di due giorni ma aggiunse: “Se non si presenta entro martedì a mezzogiorno per l’estrazione dei colori per la prima partita perde tutti i diritti come sfidante”. Fischer era inamovibile. O il 30% dei diritti sui biglietti o non sarebbe partito. La federazione sovietica chiese di squalificarlo. Ma due telefonate salvarono il match. La prima la fece il finanziere britannico James Derrick Slater. Era disposto a donare 125mila dollari e quindi a raddoppiare l’ingaggio di Fischer se avesse accettato di giocare. Disse Slater: “Amo gli scacchi, voglio vedere questa sfida e togliere a Fischer il pensiero dei soldi. Vediamo se ha altri problemi”. La seconda telefonata la fece Henry Kissinger in persona. Era consigliere per la sicurezza nazionale, sarebbe diventato Segretario di Stato del presidente Richard Nixon. Con voce e bassa e forte accento tedesco, Kissinger esordì così: “Questo è il peggior giocatore di scacchi del mondo che chiama il migliore giocatore di scacchi del mondo”. Aggiunse che Bobby avrebbe dovuto prendere il primo volo per l’Islanda e battere i russi nel loro gioco nazionale. “Il governo degli Stati Uniti d’America ti augura il meglio e io personalmente faccio lo stesso”, così si chiuse la telefonata. Bobby chiuse la valigia un minuto dopo e andando verso l’aeroporto disse che si considerava non solo un giocatore di scacchi ma un combattente della Guerra Fredda pronto a difendere il suo Paese. L’estrazione per l’assegnazione dei colori, prevista per mezzogiorno, attrasse centinaia di giornalisti, funzionari della Federazione islandese e sostenitori russi e americani. Al suo arrivo, Spassky fu informato che Fischer stava ancora dormendo e aveva mandato un'altra persona a rappresentarlo. La cosa irritò moltissimo Spassky, che abbandonò l’albergo in segno di protesta e dettò una dichiarazione nella quale si diceva fortemente indignato per il comportamento di Fischer. “Egli”, scrisse Spassky, “ha perso il diritto morale di giocare il match. Affinché ci sia qualche speranza di effettuare la sfida Fischer deve essere soggetto a una adeguata penalità. Solo in seguito a ciò potrò tornare a chiedermi se sia possibile proseguire il match”. La penalità chiesta da Spassky e dai sovietici era l’assegnazione a tavolino della prima partita. Fischer avrebbe dovuto perdere il match nel momento in cui aveva mancato di presentarsi alla cerimonia di apertura. Che il match fosse ancora in corso lo si doveva unicamente alla loro benevolenza. La mossa successiva toccava a Fischer. La stessa notte, l’americano redasse un’elegante lettera di scuse a Spassky. Il 6 luglio mattina si fece portare al Saga Hotel, dove alloggiava il rivale, e si fece accompagnare dal fattorino fino alla sua stanza perché voleva vederlo infilare la lettera sotto la porta. Nel testo Fischer scrive: “Caro Boris, ti prego di accettare le mie più sentite scuse per la mancanza di rispetto dimostrata non presentandomi alla cerimonia di apertura”. Nel corso della lettera però Fischer si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Quando, ad esempio, scrive: “Vengo a sapere che la Federazione scacchistica russa chiede che la prima partita ti sia assegnata a tavolino. Se questa richiesta fosse accolta mi porrebbe in terribile svantaggio. Già senza un simile handicap tu avresti il vantaggio di necessitare di dodici punti su ventiquattro per mantenere il titolo mentre io avrei bisogno di dodici punti e mezzo per conquistarlo. Se la richiesta fosse accolta tu avresti quindi bisogno di soli 11 punti su 23 mentre io necessiterei di 12 punti e mezzo su 23. In altre parole dovrei vincere tre partite senza sconfitte per raggiungere la tua posizione di partenza. Non credo che il campione del mondo necessiti di un simile vantaggio per scontrarsi con me. […] So che sei uno sportivo e un gentiluomo”, chiude la sua missiva Fischer, “e spero presto potremo giocare assieme delle entusiasmanti partite a scacchi. Cordialmente, Bobby Fischer”. Ora toccava ai sovietici. Il ministro Pavlov aveva già mandato un telegramma a Spassky invitandolo energicamente a rientrare in Patria. Normalmente una simile ‘raccomandazione’ equivale a un ordine ma Spassky scelse di non rispettarlo. Scrisse al ministro che avrebbe disputato il match nonostante lo scandaloso comportamento di Fischer. Si trattava di un gesto coraggioso, segno di particolare nobiltà e forza d’animo da parte sua. Tutto era pronto. Fischer arrivò con 20 minuti di ritardo all’estrazione dei colori. I due si incontrarono dietro le quinte. Dopo essersi stretti la mano, Spassky controllò i bicipiti di Fischer come fosse un pugile. I due iniziarono a discutere il calendario degli incontri. Il russo voleva un breve rinvio per il primo incontro, l’americano acconsentì a patto che l’avversario rinunciasse a chiedere l’assegnazione a tavolino della prima partita. Trovato l’accordo i due salirono sul palco, applauditi da giornalisti e sostenitori che tanto avevano atteso. Dopo aver adocchiato la scacchiera sul tavolo, Fischer andò a controllare il peso della Regina. Poi, con una mano in tasca, valutò il peso di tutti gli altri pezzi bianchi. Infine si sedette allungando le gambe sotto il tavolo in mogano di fattura scandinava. A quel punto anche Spassky si sedette. L’arbitro Lothar Schmid diede a ciascun giocatore una busta bianca. Spassky scelse quella che gli assegnava il ruolo di tenere i pezzi. Il russo nascose quindi un pedone bianco e uno nero dietro la schiena e come da tradizione porse i polsi all’avversario. Fischer toccò la mano destra di Spassky, che aprì il pugno rivelando il pedone: nero. Fischer rimase impassibile. A notte fonda, prima di far rientro in albergo, Bobby volle andare ancora una volta a controllare le condizioni del salone dove era previsto si svolgesse il match. Lo ispezionò per altri 80 minuti. Ecco i problemi che riscontrò: la luce doveva essere più forte, i pezzi erano troppo piccoli per le caselle della scacchiera . La stessa scacchiera non andava bene perché era in pietra e lui preferiva il legno. Riteneva infine che le due telecamere nascoste nelle torrette coperte da un telo potessero distrarlo durante la partita. Gli organizzatori si diedero da fare per risolvere i problemi segnalati. La prima partita 11 luglio 1972: il giorno della prima partita. Fischer si svegliò nervosissimo. Aspettava quel giorno da una vita, per due mesi il Laugardalshöll sarebbe stato il suo universo. Era uno stadio con la volta a cupola e una copertura di pannelli acustici bianchi. Il primo piano era ricoperto di moquette per attutire i rumori prodotti dagli spettatori e i sedili pieghevoli erano stati sostituiti da sedie imbottite silenziosissime. Come richiesto da Fischer la luminosità era stata aumentata e le torrette con le telecamere spinte più indietro. Fischer si era portato la sedia dagli Stati Uniti. Era girevole ed era la stessa che aveva usato per giocare contro Petrosian. 2300 spettatori applaudirono l’ingresso, frettoloso, di Bobby Fischer. Alle 5 in punto Boris Spassky, con i bianchi, fece la sua prima mossa. E nello stesso istante l’arbitro Schmid fece partire il cronometro per il suo avversario. Fischer era vestito con camicia bianca e completo blu scuro. L’americano ci pensò per 95 secondi. Poi mosse il cavallo di re dinanzi al pedone d’alfiere. Un americano di Brooklyn aveva scagliato contro l’egemonia sovietica di sempre l’unica pietra a sua disposizione: l’intelligenza. Durante la partita Fischer abbandonò due volte il palco. In una si lamentò per il fatto che il succo d’arancia nel suo camerino non fosse abbastanza fresco. Fu trovato del ghiaccio. La seconda volta chiese un piatto di skyr, un dolce islandese a base di yogurt. La caffetteria dello stadio non lo aveva, per fortuna il dolce fu trovato in una pasticceria nei dintorni. Ogni mossa veniva simultaneamente mostrata su 40 monitor a circuito chiuso in tutti gli angoli dello stadio. Nel salone dello stadio regnava il silenzio. Interrotto solo dalla voce di Lothar Schmid quando sentiva il bisogno di ricordare a tutti: Silence, in inglese, e Thogn, in islandese. Con il progredire della partita la maggior parte degli esperti era orientata a predire una patta. Ventinovesima mossa, situazione di totale equilibrio, Fischer si avventura in uno dei più rischiosi gambetti della sua carriera. Senza consumare troppo tempo sull’orologio, Fischer decise di sacrificare l’alfiere per due pedoni. Una mossa che elettrizzò la platea e fece inarcare le spalle a Spassky. Per molti quella mossa sembrava un errore da ragazzino inesperto. Uno dei grandi Maestri presenti disse che non poteva credere che Fischer fosse capace di un tale errore. Fischer si lamentò ancora con l’arbitro Schmid sostenendo che il rumore prodotto da una delle due telecamere lo stava infastidendo. Ma Schmid non intervenne. Alla quarantunesima mossa Spassky decise di aggiornare la partita al giorno successivo. Voleva pensarci su tutta la notte. Aveva tre pedoni e un alfiere contro i cinque pedoni di Fischer. Sigillò la sua mossa e consegnò una grande busta marrone a Schmid. Fischer studiò tutta la notte e si presentò il giorno dopo stanco e preoccupato. Arrivò al tavolo solo due minuti prima che Schmid aprisse la busta sigillata. Come da tradizione l’arbitro effettuò per conto di Spassky la mossa sulla scacchiera e mostrò a Fisher il formulario affinché ne verificasse la corrispondenza e poi attivò l’orologio dell’americano. Che rispose in pochi secondi. Poi seguì un rapido scambio di mosse. A quel punto Fischer si girò verso la telecamera di cui si era lamentato il giorno prima e abbandonò improvvisamente il tavolo mentre il suo orologio continuava ad avanzare. Dietro le quinte si lamentò furiosamente della telecamera. Ne pretendeva l’eliminazione prima di tornare a giocare. Il proprietario dei diritti cinematografici e televisivi dell’evento fu informato e acconsentì a rimuovere la telecamera. Quando Fischer rientrò sul palco erano già passati 35 minuti sul suo orologio. Tutti attendevano la sua mossa, ovviamente Spassky più di ognuno. L’americano era in difficoltà, iniziò a battersi per andare a patta. Ma le mosse di Spassky erano un capolavoro di precisione e la sua posizione era sempre più forte. Era chiaro che il sovietico sarebbe andato a regina con un pedone. Cinquanteseiesima mossa. Tocca a Fischer. Che invece di muovere fermò l’orologio e porse la mano a Spassky in segno di resa. Il russo evitò di guardarlo negli occhi mentre porgeva la sua mano, intento com’era a osservare la posizione. Fischer firmò il formulario scuotendo la testa e abbandonò il palco. Non era difficile intuire quanto si sentisse frustrato ed in difficoltà. Altre volte in passato chi aveva perso la prima partita era riuscito a recuperare e poi a vincere. Ma non c’era dubbio che questo inizio in salita fosse per Fischer una catastrofe emotivamente difficile da gestire. Non solo aveva perso. Non era ancora riuscito a dimostrare a sé stesso in primis e poi al mondo di poter battere Spassky. Fino a quel momento si erano incontrati nelle loro carriere sei volte. Quattro vittorie per il russo e due patte. Per Fischer mai un successo. O non ancora. Tormentato da mille pensieri, reagì in modo razionale e non emotivo. Sapeva che non c’erano difetti gravi nel suo pensiero. Dentro di sé, si sentiva ancora il più forte e la colpa della sconfitta era nel ronzio della telecamera… I colpi di scena non erano finiti. Il giorno dopo, giovedì 13 luglio, la delegazione americana annunciò che Fischer non avrebbe giocato la partita successiva se non fossero state rimosse tutte le telecamere presenti in sala. L’arbitro Schimd fissò per le 17 del pomeriggio l’orario d’inizio della seconda partita. Se Fischer non si fosse presentato avrebbe perso a tavolino. Tutto rischiava di saltare. I sovietici fecero sapere all’arbitro che se Fischer non si fosse presentato avrebbero richiamato Spassky immediatamente in patria. E questa volta senza chiedere un parere al campione in carica. Ore 16.58. Uno scrosciante applauso accoglie l’arrivo di Boris Spassky al tavolo. Mancavano solo due minuti all’inizio della seconda partita. Fischer? Non c’è. 17 in punto, Schmid apre ufficialmente l’incontro facendo partire l’orologio dello statunitense, che ha i bianchi e quindi può, o per meglio dire ‘dovrebbe’, muovere per primo. Ma la sua sedia è ancora vuota. In albergo è un via vai dalla stanza di Fischer di funzionari della Federazione americana per convincerlo a giocare. Un’auto della polizia staziona sotto con il motore acceso pronta a fiondarsi verso lo stadio nel caso lo sfidante cambiasse idea. Ore 17.30, il titolare dei diritti cinematografici e televisivo del match, con l’orologio ancora in funzione, acconsente a rimuovere entrambe le telecamere. Ma solo per questa partita, in attesa di ulteriori accordi. Informato della decisione, a Fischer non basta ancora: chiede anche di azzerare l’orologio. Schimd dice di no. Bobby Fisher è ancora in mutande, letteralmente, nella sua stanza. Ha chiuso a chiave la porta e staccato il telefono interno. La sua posizione è ferma: se chiedo qualcosa e non me lo danno, non gioco. Gli spettatori, ignari della commedia umana che si stava svolgendo, fissavano come ipnotizzati le due sedie. Era vuota anche quella di Spassky, che nel frattempo era andato in camerino. C’erano un arbitro, due sedie vuote, una scacchiera e 32 pezzi intonsi. L’unica cosa che si muoveva era la lancetta dell’orologio di Fischer. Ore 18 in punto. L’arbitro Schmid ferma l’orologio dell’americano e annuncia la prima assegnazione a tavolino nella storia del campionato del mondo di scacchi. “Signore e signori”, dice Schmid, “in accordo con l’articolo 5 del regolamento, non essendosi presentato entro il tempo stabilito, Robert Fischer ha perso la partita”. A Spassky fu tributata una standing ovation. Qualche fischio invece fu indirizzato all’avversario. Gli americani presentarono immediato ricorso. Bocciato. La prima reazione di Fischer fu di prenotare il primo volo per tornare immediatamente a casa. Il presidente della federazione internazionale scrisse all’arbitro Schmid dicendogli che in caso di forfait anche alla quarta partita avrebbe dovuto proclamare Spassky nuovamente campione del mondo. Informato dei fatti, Henry Kissinger alzò di nuovo il telefono per contattare Fischer e fare appello al suo senso patriottico. Il New York Times pubblicò addirittura un appello per convincerlo a giocare. Anche il presidente Richard Nixon, informato da Kissinger, inoltrò un invito a Fischer a giocare e a recarsi alla Casa Bianca, qualunque fosse stato il risultato, per incontrarlo. Nixon dichiarò che Bobby Fischer gli piaceva perché era un guerriero. L’arbitro Schmid, seriamente preoccupato di non vedere altri confronti tra i due, ricordò a entrambi che il regolamento prevedeva la possibilità che i giocatoti disputassero i loro incontri in una stanza nel retro. Schmid parlò riservatamente con Spassky, si appellò alla sua sportività affinché acconsentisse a continuare il match. Spassky oltre che un grandissimo giocatore era prima di tutto un gentiluomo. E acconsentì alle richieste di Fischer, che nel frattempo aveva un sedile prenotato su tutti e tre i voli in partenza per New York. Si prese alcune ore di riflessione e poi disse che era disposto a giocare se gli fosse stata assicurata la privacy assoluta e l’assenza di telecamere. Perché Fischer si convinse ancora a giocare? Per molte ragioni. Patriottismo, fiducia nella possibilità di ribaltare lo svantaggio di due partite, desiderio di incassare i soldi del premio anche se avesse perso, l’impetuosa voglia di fare quel che aveva sempre voluto sin da bambino: ovvero dimostrare di essere il più forte giocatore di scacchi del pianeta. Tutto era pronto per la quarta partita. Spassky arrivò per primo nel retro del palco. Fischer, pallido in volto, arrivò 8 minuti in ritardo. I due si diedero la mano. A Spassky toccavano i bianchi. Il sovietico mosse. Fischer fece lo stesso. Ma, all’improvviso, nel silenzio più totale Fischer indicò la presenza di una telecamera e si mise a urlare. Spassky si alzò in piedi dichiarando di volersene andare e che avrebbe continuato la partita solo sul palco davanti a tutti. Schmid non sapeva più cosa fare. Per prima cosa, infrangendo il regolamento, fermò l’orologio di Spassky. Poi andò ad abbracciare il sovietico. “Boris, mi avevi promesso avresti giocato la partita qui nel retro”, disse al campione. Poi si rivolse a Fischer: “Bobby, per favore, stai calmo”. Una scena mia vista, né ora né mai più in una finale del mondiale di scacchi. Spassky rimase a bocca aperta una decina di secondi, poi decise di sedersi. A Fischer fu spiegato che quella che aveva visto era sì una telecamera ma di quelle silenziose a circuito chiuso che serviva a proiettare le immagini su uno schermo sul palco. Altrimenti il pubblico non avrebbe visto nulla. Fischer comprese che non poteva andare oltre. Quello era il limite. Si scusò per la reazione avventata e si sedette per riprendere quella che sarà una delle più belle partite della serie. Alla settima mossa l’americano uscì per qualche minuto dalla stanza e a detta dell’arbitro sembrava scuro in volto, molto preoccupato ma straordinariamente motivato. Alla quarantacinquesima mossa la posizione di Fischer era di netta supremazia. La partita fu aggiornata al giorno successivo e, euforico per il vantaggio, l’americano acconsentì a giocare nuovamente sul palco. Alla ripresa del gioco aveva la strada spianata. Appena l’arbitro diede il via alla ripresa, il sovietico arrestò il suo orologio e dichiarò la resa. La cosa clamorosa è che tutto questo accadde senza Fischer, che al suo solito era in ritardo e quando arrivò trafelato 15 minuti dopo la resa di Spassky e con il fiatone dovette chiedere cosa fosse accaduto. “Il signor Spassky ha dichiarato la resa”, proferì solennemente il signor Schmid. Fischer firmò il suo formulario senza dire una parola ma poi uscendo si abbandonò a un radioso sorriso. La partita era cambiata, il vento ora soffiava per lui. Quello fu il segnale che Fischer aspettava. Lo sfidante aveva provato a sé stesso di potercela fare. Una patta non avrebbe avuto lo stesso significato emotivo. In passato Fischer era già riuscito a pattare Spassky. Ma mai a batterlo. Vincendo quella partita, non solo si assicurò di aver spillato una prima goccia di sangue al suo rivale ma anche che quella ferita rimanesse aperta a lungo. A New York era Fischermania. Nei grandi schermi a Times Square venivano proiettati i momenti più entusiasmanti delle partite. Ogni giorno in tv i talk show più seguiti parlavano della sfida di Reykjavik. In alcuni bar della Grande Mela gli scacchi avevano sostituito il baseball nelle trasmissioni proiettate sui teleschermi. Addirittura la convention del partito Democratico fu oscurata dalla sfida tra Bobby Fischer e Boris Spassky. La gente a casa voleva sapere come sarebbe andata a finire la lotta tra un americano e un sovietico e poco gli importava dei programmi degli sfidanti per la Casa Bianca. Spasskiy ora era in condizione di stress alla quale forse non era abituato. Nella partita successiva, la quinta, commise un gravissimo errore. Il più grave di tutta la sua carriera. Dichiarò subito la resa in quella che fu la partita più breve nel campionato del mondo di scacchi. La sesta fu paragonata dai Grandi Maestri presenti in sala a una sinfonia di Mozart. Fischer si inventò un attacco devastante tessendo intorno a Spassky una ragnatela letale che lo costrinse a un’altra resa. Fisher dirà in seguito che quella fu la sua più bella partita di sempre e per molti osservatori fu un tale capolavoro da costituire il punto di svolta dell’intero match. L’americano era trasformato: da irascibile e sospettoso di qualsiasi cosa e di chiunque era diventato conviviale e azzardava anche delle battute umoristiche. Sosteneva nei suoi colloqui riservati che in due settimane avrebbe sistemato la questione. Sua madre, Regina, si fece fare una parrucca bionda su misura e si camuffò per non essere riconosciuta. Voleva andare a trovare il suo Bobby in albergo per incoraggiarlo ma non voleva essere vista da nessun altro. Dormì nella suite del figlio e non andò allo stadio a vedere l’incontro il giorno successivo. Se ne tornò in fretta in Inghilterra dove risiedeva. La partita numero 13 fu indicata da molti come il vero punto di svolta. Fu una maratona di 9 ore e mezza. Fischer aveva un pedone di vantaggio ma andò improvvisamente in difficoltà quando i due erano vicini alla pausa prima dell’aggiornamento al giorno dopo. Ci pensò su tutta la notte ma non riusciva a trovare una soluzione e rischiava al massimo di dover giocare per una patta. Ma alla sessantanovesima mossa ecco la svolta. Evidentemente esausto, Spassky commise un altro errore madornale. Quando se ne rese conto non volle più guardare la scacchiera e cominciò a scuotere il capo in segno di umiliazione e frustrazione. Incassato l’insperato dono dal sovietico, Fischer si rilassò e squadrò l’avversario con un ghigno. C’era anche un po' di compassione nello suo sguardo. Spassky era spacciato e Fischer aspettava solo di dargli il colpo decisivo. Il sovietico, pur in difficoltà, rimaneva un grande giocatore e riuscì ad allungare la partita fino alla settantaquattresima mossa. E lì dichiarò la sua resa. Ora Fischer poteva giocare senza prendersi troppi rischi, la serie era saldamente nelle sue mani. Le successive sette partite, dalla quattordicesima alla ventesima, finirono tutte patta. Alla ventiseiesima partita questo era il punteggio: Fischer 11 e mezzo, Spassky 8 e mezzo. A Fischer bastavano due patte o una vittoria nelle successive quattro partite per strappare il titolo a Spassky. La delegazione sovietica, di fronte al disastro di un titolo a un americano dopo decenni di dominio, accusò Fischer di influenzare il rendimento di Spassky attraverso sostanze chimiche o dispositivi elettronici. Furono talmente convincenti che la polizia islandese e il dipartimento scientifico smontarono la sedia di Spassky e la sottoposero a radiografia, furono prelevati diversi campioni ambientali e fu fatto addirittura un’analisi dell’aria. I sovietici vollero la rimozione di una copertura di una lampada sopra il palco per controllare che non ci fosse nascosto un dispositivo elettronico in grado di influenzare il gioco del loro campione. In effetti in quella copertura i poliziotti trovarono qualcosa di molto sospetto: due mosche morte… Con non poco imbarazzo il caso fu considerato chiuso. Con grande spirito gli inglesi del Times di Londra dipinsero così il momento: “Il tutto è cominciato come una farsa alla Becket, tipo Aspettando Godot. Poi si è trasformato in una tragedia kafkiana”. Ventunesima partita, 31 agosto. Fischer con i neri amministrò saggiamente la partita. L’avesse vinta avrebbe chiuso definitivamente i conti. Spassky era ormai convinto di aver perso il titolo, lo disse chiaramente al suo entourage quando la partita fu aggiornata al giorno dopo. “È una competizione sportiva e io ho perso. Bobby è il nuovo campione”, ammise Spassky davanti ai suoi. Alle 14.47 del 1 settembre 1972 Fisher arrivò al Laugardalshöll per firmare il suo formulario e riprendere la partita. L’arbitro Schmid prese la parola e annunciò: “Signore e signori. Il signor Spassky ha dichiarato la sua resa oggi per telefono alle ore 12.50. La modalità è conforme alle regole. Il signor Fischer ha vinto questa partita, la numero 21, ed è quindi il vincitore del match”. Gli spettatori andarono in delirio, Schmid strinse la mano a Fischer. Bobby abbozzò un sorriso un po' imbarazzato. Scomparve immediatamente dietro le quinte e abbandonò subito l’edificio. Solo quando entrò in auto e si dileguò tra un nugolo di reporter con telecamere e macchine fotografiche si abbandonò a un momento di gioia ed esplose la sua felicità: Bobby Fischer era il nuovo campione del mondo di scacchi.

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Morto a 88 anni Boris Spassky, il racconto della celebre sfida del secolo contro Fischer