Tiger Woods e la lezione mancata sull'integrazione

Quando Tiger Woods percorse per la prima volta Magnolia Lane fino all’Augusta National Golf Club, pensò che alla fine non fosse niente di che, davvero non sentiva nulla di speciale. Non gli sembrava un posto così speciale, così curato, così puro e tranquillo come andavano a raccontare in giro tutti i golfisti. I bianchi. Loro dicevano di avvertire la stessa sensazione. Lui no. Lui era deluso, chissà cosa si aspettava, era rimasto sorpreso da quanto fosse breve il tragitto per entrare. Un tratto di strada esiguo eppure così interminabile per quelli come lui. Aveva ragione suo padre Earl. Il golfista medio che va al Masters di Augusta, finisce sbalordito dalla tradizione. Ma un golfista nero come lui non aveva nulla in comune con quella storia, una storia di divieti e di segregazione. Quarantuno anni in tutto. L’accesso al circolo e al torneo erano stati vietati agli afro-americani fino a quando nel 1975 non aveva giocato Lee Elder, nell’anno prima della nascita di Tiger Woods. Per tutti questi motivi, quando Tiger nel 1997 mise la prima giacca verde, simbolo del successo, leggendaria nel golf quanto la maglia gialla al Tour de France, tutti pensammo che qualcosa stava per cambiare, un soffitto di vetro era stato rotto. Serena e Venus Williams stavano facendo un’operazione analoga nel tennis, un altro sport dove la parola tradizione evocava un mondo a una dimensione sola, un mondo bianco. Il primo Slam delle sorelle di Compton sarebbe arrivato nel 1999. Il Novecento dello sport finiva con una rivoluzione e lasciava al Duemila il compito di finire il lavoro, di tradurre l’eccezione in ordinarietà. Un quarto di secolo più tardi, le Williams hanno un’eredità chiara, Tiger Woods rimane un caso isolato. Il potere delle star nel tennis americano si è spostato. Gli USA hanno visto arrivare Frances Tiafoe e Ben Shelton tra gli uomini; Madison Keys, Sloane Stephens, Taylor Townsend, soprattutto Cori Gauff tra le donne, mentre alle spalle premono adolescenti e ventenni come Robin Montgomery, Clervie Ngounoue, Tyra Grant. Un terzo dei migliori 1.500 giovani che ogni anno si alternano sui campi regionali della federazione sono afro-discendenti. Un balzo in avanti significativo, in linea con il processo multiculturale in corso nel tennis di tanti paesi. Secondo gli studi del Physical Activity Council e della Tennis Industry Association, la partecipazione nella comunità nera è cresciuta di oltre il 60 percento dal 2019 al 2023, per arrivare a una rappresentanza quasi piena rispetto alla demografia del paese. Quel 13 percento della popolazione statunitense ha adesso l'11 percento dei tesserati. È il golf che non riesce a cambiare. Era stato Tommy Bennett a portare la borsa a Tiger Woods, quando il ragazzino fece il suo primo giro di allenamento ad Augusta nel 1995, accanto a leggende come Nick Faldo e Greg Norman. Aveva scoperto che lì dentro, nella borsa, aveva solo tre palle. Gli diede qualche dritta e poi restò a bocca spalancata quando lo vide colpire. Bennett era stato il caddie di Raymond Floyd e di JoAnne Carner, di Andy North, Webb Simpson, Jodie Mudd. A Bennett avevano dedicato un murale su un fianco del Sand Hill Grill, un ristorante dove lui e tutti gli altri caddie locali si riunivano a fine giornata. Le case attorno al Grill sono fatte tutte in assi di legno malconce, molte sono ricoperte di vernice scrostata, c’è una rete metallica che le circonda. Eppure, il mondo delle giacche verdi e dei privilegi bianchi si trova a pochi passi. Fu il padre di Tiger a volere che suo figlio vedesse subito quel posto e quel murale, perché si facesse carico di un impegno, oltre che di una rappresentanza. Giocare anche per Tommy Bennett detto Burnt Biscuits perché una volta si era ustionato le gambe arrampicandosi sui fornelli della nonna: giocare per lui e per tutti quelli come lui. Ma quando è cominciato il Masters di Augusta del 2017, un ventennio dopo il primo titolo di Tiger, poco sembrava fosse cambiato, se non che il Sand Hill Grill aveva chiuso e il murale di Bennett, un uomo in tuta bianca, con la borsa a tracolla e le spalle girate, si era sbiadito. Al Masters del 2022 c’erano appena tre afro-discendenti e a quello dell'aprile scorso erano iscritti 89 golfisti con un solo nero. Il solito. Tiger Woods. Lui. Perché si è interrotta la catena che il tennis ha invece saputo portare avanti? Sono passati sessant’anni dal giorno in cui Charlie Sifford veniva definito il Jackie Robinson del golf, il primo membro nero della PGA dopo una lotta durata decenni per entrare a far parte dell'organizzazione che nel suo statuto dichiarava di poter ammettere solo golfisti “di razza caucasica”. Secondo Golf Digest, meno dell'1 percento dei 29.000 membri tuttora non sono bianchi. Il New York Times ha scritto che tocca proprio alla PGA fare di più per guidare e promuovere l'inclusione a ogni livello. Finché i country club privati e le scuole di preparazione d'élite non recluteranno e formeranno attivamente golfisti neri, l'eredità di Sifford rimarrà incompiuta, e anche quella di Tiger Woods. Qualcosa si muove con iniziative isolate. Per la promozione della diversità nel golf, si batte la Charlie Sifford Memorial Exemption, che al Genesis Invitational riserva un posto nel torneo per un golfista non bianco ogni anno. il cestista Stephen Curry ha finanziato la rinascita del programma di golf presso la storica Black Howard University. Secondo Bleacher Report ha avuto un peso anche la definizione che Woods diede di sé all’Oprah Winfrey Show, dove si identificò come ‘Cablinasian’, una persona prevalentemente nera e asiatica, ma anche con discendenza bianca e nativa americana. “Il suo desiderio di essere di tutti - ha scritto Bleacher Report - lo ha reso più appetibile sul mercato”, ma quell’’affermazione ha scavato una distanza con la comunità afro-discendente. Quasi mai Tiger ha replicato in modo duro a commenti razzisti camuffati da spiritosaggini. Le sorelle Williams furono invece irremovibili nel boicottare il torneo di Indian Wells per anni. Anche nei giorni della sollevazione di Black Lives Matter, dopo l’omicidio di George Floyd, la sua voce non si è alzata con la medesima forza di quella di un LeBron James. Il sito di sport e di cultura pop Andscape ha scritto che “non è chiaro come la riluttanza di Woods a essere un eroe per l'America nera abbia preso forma”, ma è esistita. Ha avuto un peso. Il New York Times ha sostenuto che le giovani donne nere ritengono Serena più accessibile e il suo successo più raggiungibile di quanto accada fra gli uomini con Tiger Woods. Secondo uno studio della National Golf Foundation è anche una questione correlata al reddito. Ma secondo molti osservatori americani, la differenza vera fra Tiger e Serena consiste nell’atteggiamento verso l'establishment. Woods è parso più desideroso di essere accettato, di assimilarsi, mentre Serena ha sempre saputo che non sarebbe stata la benvenuta nel club, così si è costruita da sola un establishment alternativo. Le giovani tenniste della sua comunità vogliono essere lei. Anche i giovani golfisti, dice Bleacher Report, vogliono giocare come Tiger. Soprattutto i bianchi.

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