Tomba e Sinner sono più simili di quello che si pensa

Ogni epoca ha i campioni che si merita. Non solo per quello che vincono, ma per come lo fanno. Alberto Tomba e Jannik Sinner, separati da quarant’anni e un mondo intero nel mezzo, sono due fotografie nitide di due Italie profondamente diverse. Eppure, ironia della sorte, raccontano la stessa storia: quella di uno sport che, grazie a un campione, diventa linguaggio nazionale. Gli anni Ottanta furono il decennio dell’eccesso legittimato. Più forte, più veloce, più rumoroso. Tomba arrivò esattamente lì, nel punto giusto del tempo. Uno che scendeva in pista come se avesse un appuntamento con la leggenda e un altro con la telecamera. Vinceva, esultava, prometteva di rivincere e manteneva la parola. In un’Italia che stava scoprendo il successo come spettacolo, Tomba fu l’epigono perfetto: talento smisurato, nessuna modestia di facciata, naturale predisposizione a occupare la scena anche quando non gareggiava. Non chiedeva di essere amato, lo dava per scontato. E infatti lo era. Oltre ogni limite. Tomba per noi non era un modello: era un evento. Non ci insegnava come diventare come lui, ci faceva capire che lui non sarebbe mai stato come tutti gli altri. Ed era proprio questo il punto. Negli Ottanta si poteva essere eccezionali senza spiegare. Bastava esserlo. Quarant’anni dopo, Jannik Sinner emerge in un mondo opposto. Gli anni Venti sono il tempo del metodo, della finta socialità dei social, della vulnerabilità controllata. Un’epoca che ha paura del genio puro e chiede di vedere il lavoro. Sinner non invade lo spazio mediatico, lo conquista per sottrazione. Parla poco, lavora molto, non promette nulla che non sia disposto a rifare il giorno dopo. Vince. Per questo produce un effetto culturale enorme: rende il tennis possibile. Come Tomba, Sinner trasforma il suo sport in un fenomeno sociale ed economico. Crescono i tesserati, le scuole, i campi, le vendite, le televisioni. Cresce la cultura, l’idea che si possa arrivare in alto senza diventare un personaggio più grande di sé. Tomba faceva fermare l’Italia davanti alla tv, Sinner la rimette in movimento: verso i circoli, verso la pratica, verso l’emulazione. Le analogie sono più profonde di quanto sembri. Entrambi rendono popolare uno sport percepito come elitario. Creano esperti e opinionisti improvvisati e improvvidi. Entrambi superano i confini della loro disciplina. Entrambi sono – a modo loro – rassicuranti: Tomba perché vinceva sempre quando contava, Sinner perché sembra non perdere mai il controllo. Le differenze, però, sono gigantesche. Tomba era figlio di un’Italia che aveva bisogno di esagerare per sentirsi nuova. Sinner è figlio di un Paese urlante che cerca stabilità, esempi credibili, silenzi affidabili. Uno era più grande del contesto, l’altro è perfettamente dentro il suo tempo. Uno bruciava, l’altro costruisce. È questo il punto definitivo. Tomba ci ha insegnato che si può essere straordinari. Sinner ci sta insegnando che si può esserlo ogni giorno, senza alzare la voce. Negli anni Ottanta bastava un campione. Negli anni Venti serve soprattutto un esempio.

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Tomba e Sinner sono più simili di quello che si pensa

Stefano Meloccaro