Leonardo David, quarant'anni fa la tragedia che colpì uno dei più grandi talenti dello sci

È il 3 marzo 1979. La neve è già bianchissima e compatta sui monti Adirondack, dove gli Stati Uniti quasi abbracciano la frontiera canadese. Dai quasi seicento metri di altezza si vede benissimo lo specchio d’acqua del lago Mirror e -non molto distante- il lago Placido, che fornisce acqua potabile alla cittadina alla quale dà il nome. L’orchestra di musica da camera ‘Sinfonietta’, orgoglio locale, ha riposto da poche ore gli strumenti nelle custodie, dopo aver concluso una delle tante prove per un evento che presto la vedrà coinvolta. La notte è passata tranquilla. Gli atleti sono pronti a saggiare le storiche piste di sci che -dopo quarantotto anni- undici mesi più tardi torneranno a ospitare i Winter Games. Manca meno di un anno alla grande occasione ma è già tempo di sessioni pre-olimpiche, quasi una prova generale sul palco candido dei futuri Giochi, fissati tra il 13 e il 24 febbraio del 1980 e che si annunciano affollati, con una partecipazione prevista di oltre 1000 atleti. La squadra nazionale di sci alpino fa colazione molto presto e raggiunge assonnata le piste di prova. I tempi della ‘valanga azzurra’ sono lontani. Nello slalom gigante si sa che Pierino Gros, Bruno Noeckler, Mauro Bernardi e Alex Giorgi non potranno coltivare grandi chance di medaglia. Ma sulle Whiteface Mountains potrebbero arrivare liete sorprese dalla discesa libera, grazie a un ragazzino aostano di 19 anni, nato a Gressoney Saint-Jean, nel quale in tanti già vedono l’erede sportivo di Gustavo Thoeni. Bisogna lasciargli solo il tempo di sbocciare, ma Leonardo David è un talento assoluto ed eccelle nelle prove più tecniche. Medaglia d’argento in combinata e di bronzo nella libera ai campionati italiani di due anni prima. Poi subito bronzo nel gigante agli europei juniores di Kranjska Gora, prima di conquistare nel 1978 la Coppa Europa, aggiudicandosi anche la classifica di slalom speciale e piazzandosi secondo assoluto in quella di gigante. Leonardo ha grandi numeri e il futuro è dalla sua parte. In Coppa del Mondo ha centrato l’anno prima il podio nel gigante di Schladming e poco meno di un mese prima della spedizione americana per le pre-olimpiche ha vinto lo speciale di Oslo, davanti a due mostri delle nevi come lo svedese Ingemar Stenmark e lo statunitense Phil Mahre. Insomma, è molto più che una promessa, date le premesse. A Lake Placid però Leonardo non arriva in condizioni ottimali, anzi. Non si è ancora totalmente ripreso da un incidente occorsogli nella libera di Cortina d’Ampezzo il 16 di febbraio, proprio un paio di settimane prima di questa trasferta americana. Una brutta caduta battendo la testa sul ghiaccio. Da quel giorno Leonardo -nonostante gli accertamenti neurologici non abbiano riscontrato nulla- non ha smesso di accusare nausea, vertigini, cefalea e riferisce ai medici di sentirsi ancora come stordito. Il compagno di squadra Paolo De Chiesa gli sta accanto, specie quando allenarsi si fa più difficile per via delle vibrazioni che dagli sci sul ghiaccio gli si trasferiscono direttamente nel cervello. C’è preoccupazione, ma non allarmismo. I medici sono convinti che la cosa si risolverà da sola e che si tratti solo di questione di tempo. Per questo Leonardo è partito per Lake Placid insieme agli altri: vuole testare non solo le sue condizioni, ma anche il tracciato che potrebbe vederlo protagonista l’anno successivo. E il coraggio e la voglia di lottare non gli mancano. Difatti, nonostante qualche capogiro e le tempie che gli pulsano, Leonardo quella mattina indossa la tuta e calza gli sci, pronto a sfidare sé stesso e quel manto bianco che gli precipita ai piedi dal punto di partenza. Quando tocca a lui scendere, Leonardo va giù a modo suo, e tutto sembra procedere bene. Agli occhi di chi lo osserva sembra un fulmine e non pare risentire di particolari disturbi. E invece, nei pressi del punto d’arrivo, la postura cambia di colpo, Leonardo perde la sua fluidità, l’assetto e -proprio come a Cortina- cade ancora. E nuovamente batte violentemente il capo sulla neve gelata. Ma si rialza. La tragedia Le belle speranze di recuperarlo e vederlo tornare a brillare affonderanno poco dopo nella neve insieme al corpo esanime del ragazzo. Eppure non era sembrato un incidente così grave. I soccorsi -per primo un medico canadese- impiegano quasi un quarto d’ora ad arrivare. In ospedale Leo giunge in ‘coma vigile’. I medici non capiscono se il coma possa dipendere dalla caduta o -piuttosto- se durante la sua prova Leonardo sia stato verosimilmente colto da un malore che lo ha destabilizzato, sbilanciato e infine proiettato a terra. Poco importerà da quel momento in poi capire esattamente la dinamica dell’accaduto. Perché da quel coma il ragazzo non verrà più fuori. È il 3 marzo 1979. La neve è già bianchissima e un po’ meno compatta ora sui monti Adirondack, dove Leonardo David ha lasciato la sua carriera e la sua coscienza. Ha lo sguardo perso nel vuoto, è privo di riflessi e non risponde agli stimoli esterni. È come un rigoglioso vegetale destinato ad appassire e ripiegarsi su sé stesso. Inerte, immobile, assente, perso in un mondo che la scienza ancora oggi non sa indagare. Leonardo torna in Italia su una lettiga, inizia il suo lungo peregrinare fra cliniche e ospedali in cerca di un miracolo, mai abbandonato neppure per un attimo dai genitori. Nulla potranno negli Stati Uniti, meno ancora in Europa, dove a Innsbruck -centro d’eccellenza per le riabilitazioni neurologiche- ogni sogno di rivederlo tornare da questa parte del mondo, a interagire con gli affetti e il circostante, crolla definitivamente. Dopo tanti anni non importa più neppure che l’incidente e i naturali conseguenti strascichi giudiziari che lo seguirono, siano stati classificati come ‘fatto accidentale’. Quel che conta è invece ricordare, oggi, la lunga via crucis della famiglia David fra cliniche e tribunali, con al centro della vita quel corpo inanimato dagli occhi perduti nell’infinito. Un infinito tutto suo, nel quale nessuno riuscì mai a entrare ma dal quale non tornò più indietro. Il ragazzo sorridente e predestinato al successo, trasformato dopo l’incidente in un involucro vuoto, triste, fonte di dolore per chiunque lo ami. Lo scomparso Alfredo Pigna, grande giornalista sportivo e cantore delle imprese della valanga azzurra, educato e dai toni sempre rispettosi, esempio di un modo di raccontare lo sport che si è perso nella rincorsa ubriaca alla frenesia, all’esaltazione, alla tecnologia, riuscì un giorno a farsi aprire le porte di casa David e a fare entrare le telecamere in quel mondo fatto di silenziosa disperazione. Io ero un adolescente che già trafficava fra radio private e tv locali e che intanto ‘rubava’ il mestiere ai migliori, pur essendo al di qua dello schermo, sognando di poterlo poi esercitare ‘da adulto’. Di quel documento ho ancora memoria. Per la delicatezza con la quale Pigna affrontò il tema, la dignità e l’amore che quella famiglia seppe trasmettere. Ma soprattutto per un momento specifico del ‘servizio tv’, lontanissimo dai toni dello scandalo e dello ‘scoop’, ma di una sensibilità e di una grazia che erano pura poesia, nonostante la drammaticità del racconto. Un’altra televisione, un altro giornalismo, più vicino alle mie corde. Ebbene, non mi svaniranno mai dalla mente e dal cuore le immagini riguardose e garbate di un Leonardo David seduto su una carrozzina, sospinto dai genitori fino alle soglie di una finestra. Lui immobile, gli occhi assenti, lontano da tutto e da tutti. Loro premurosi, affettuosi, forse anche ancora speranzosi nel ripetere quello che dichiarano essere un rito quotidiano. Avvicinare Leo alla finestra spalancata, coprirlo per bene e infine amorevolmente posizionarlo di fronte ai suoi monti. Quelli che amava e dai quali era partito per conquistare un mondo e una realtà troppo crudeli per i suoi sogni. Quelle immagini -che oggi probabilmente il modernismo finto rispettoso e un’ignorante e dilagante assenza di tenera raffinatezza censurerebbero- invece ancora oggi le porto nel cuore e nella mente. Mi aprirono a un cambio della prospettiva nel racconto: stando dalla parte dell’emozione, sfuggendo al pietismo. Tecnica nella quale Pigna era maestro. Ecco, io se chiudo gli occhi adesso, rivedo ancora quei fotogrammi. Il volto già scavato di un Leonardo David distante da tutti e da tutto e quello sguardo assente, spalancato dinanzi alla bellezza del Monte Rosa, padrone silenzioso di quel paradiso che tanto amava la Regina Margherita. Pensai allora, e ancora lo penso quando mi imbatto in conseguenze traumatiche simili, che forse quel messaggio d’amore che partiva dalle sue montagne ogni mattina, in qualche modo Leonardo potesse percepirlo. In un rapporto segreto -e a noi tutti incomprensibile- fra la sua forzata serenità e la maestosità paterna e amorosa del massiccio. Un rapporto, in una lingua a noi sconosciuta, di tenera e muta protezione. Almeno fino a quel 26 febbraio del 1985 in cui purtroppo Leonardo ci lasciò. Papà Davide avrebbe continuato a ricordarlo fino alla morte, iniziando tutti i discorsi con la stessa frase… “quel mio ragazzo…” e concludendoli con “io e la mia Mariuccia”, la mamma di Leo, Maria Follis, madre anche di Daniela, sorella dello sfortunato campione. In mezzo a quelle due frasi, sempre lo stesso racconto fatto di gioie immense travolte da un dolore profondo, che si era portato via le lacrime per i successi e le nostalgie per un figlio piccolo e pieno di energia che rientrava da scuola con il sorriso sulle labbra, gettava in terra la cartella per addentare una fetta di pane e marmellata e poi correva in cameretta a cambiarsi, calzando pantaloni pesanti e scarponi per andare ad abbracciare la neve a Punta Jolanda, l’ombelico del Monte Rosa che stava per diventare l’ombelico del mondo intero. Leonardo, partito verso Cortina, dove l’allora presidente della FISI Arrigo Gattai non avrebbe voluto andasse, per una ricognizione intelligente di discesa. Ma che fu il primo atto di una tragedia in due tempi. In mezzo -fra la prima e la seconda caduta- le visite mediche a Lecco e il volo per gli Stati Uniti. Fino a quel maledetto schuss finale, al banale dosso che immette al traguardo. È lì che Leonardo si stacca dal salto in modo scomposto, si apre, si gira di schiena e cade malamente in terra mentre il casco rotola via. Qualcuno dirà che fra la prima e la seconda caduta Leo avesse sbattuto anche con la macchina a Gressoney, ma la cosa non sarà mai accertata. La famiglia chiederà inutilmente 10 miliardi di lire di risarcimento, finirà con il pagare invece cento milioni di spese legali. Quel 3 marzo 1979 Leo, appena caduto, si rialza e chiede “com’è il mio tempo finale?”. Non si è reso conto di nulla. Ma un attimo dopo appoggia la testa su una spalla del tecnico Erich Demetz e crolla ai piedi del fotografo Armando Trovati, perdendo conoscenza. Gli occhi all’insù cercano un cielo invisibile. Il tempo passa nel tentativo di rianimarlo, finché arriva una slitta d’assi sulla quale adagiarlo per correre al pronto soccorso. Quindi l’ingresso all’ospedale di Burlington, dall’altra parte del lago, mentre respira incosciente. È qui che la luce si spegne. E dopo altri sei anni vissuti da vegetale, Leo ci lascia. Era il 26 febbraio 1985. Quarant’anni fa.

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Lucio Rizzica