'Seven Nation Army': sette note che hanno conquistato il mondo

Senza parole. Più forte e trascinante delle parole. È uno dei cori più utilizzati negli stadi di tutto il mondo, ma il testo non c’è. C’è la ripetizione di una serie di note con la voce. C’è un’irresistibile identità espressiva, talmente immediata da rimanere in testa al primo ascolto. È stato Francesco Totti ad annunciare agli italiani il nuovo fenomeno che veniva dallo Stadio Olimpico, quando giocava la Roma. Lo ha fatto durante il Festival di Sanremo del 2006. Festival presentato da Giorgio Panariello con Victoria Cabello e Ilary Blasi, allora moglie di Totti da 8 mesi. Un Festival iniziato di lunedì, il 27 febbraio, con pausa il mercoledì per lasciare tutto l’audience alla nazionale che giocava una partita amichevole a Firenze contro la Germania. Un trionfo: 4-1 per la squadra di Lippi con reti di Gilardino, Toni, De Rossi e Del Piero. Oracolo e divinazione della semifinale mondiale di Dortmund del 4 luglio contro la Germania e della finale di Berlino del 9 luglio 2006 contro la Francia . Totti era a Sanremo e non a Firenze con la nazionale. Al Festival ci arrivò con le stampelle. Il 19 febbraio si era fratturato il perone durante Roma-Empoli ed era stato immediatamente operato dal Professor Mariani a Villa Stuart. Il suo oracolo è stato “Ai mondiali ci sarò”: si è avverato anche quello, come sappiamo. Una settimana dopo l’infortunio, il 26 febbraio, Totti era a bordocampo durante il derby Lazio-Roma . Disse: “Se vinciamo il derby vado a Sanremo da Ilary e la canto”. E andò a Sanremo. La gag studiata dagli autori del Festival aveva messo Totti seduto accanto ad Ilary in prima fila, e questa era la battuta che ha, diciamo, recitato: “Ho inciso un cd in questo ultimo periodo, fa po po po po po po pooo po, po po po po. La canzone di domenica, allo stadio…”. Risata sua, risate del pubblico. Una serie di note che non c’entrano nulla con l’originale, storpiate dal Capitano, molto più a suo agio con strumenti propri da calciatore che con quelli che si usano per fare musica, voce compresa. Poi l’ha imparato meglio, quel motivetto, e lo ha portato nel ritiro dell’Italia durante il Mondiale di Germania, nell’estate del 2006. È diventato così un patrimonio nazionale. Il coro che tutti conoscono come quello del po-po-po-po, in realtà fa così: pooo-po-po-po-po-pooo-po. È un riff composto da sette note, semplice e geniale, scritto da Jack White per ‘Seven Nation Army’, la canzone che apriva ‘Elephant’, il quarto album in studio dei White Stripes. Dopo essere stato l’inno dei tifosi del Bruges, della Roma, dei tifosi italiani e della nazionale italiana di calcio ai Mondiali vinti nel 2006, oggi starebbe bene durante le partite di Jannick Sinner. Perché fa molto Italia e perché è nato a Melbourne, dove Sinner ha vinto l’Australian Open 2024 e 2025. I White Stripes erano in tour in Australia e Jack White ha composto questa serie di note nella sua camera d’albergo nel gennaio 2002. Gli sembrava buona, l’ha fatta sentire durante un sound check prima di un concerto al Corner Hotel, un club che è un’istituzione per la musica dal vivo a Melbourne. Prima impressione: “Puoi fare di meglio, Jack”. Lo pensava Ben Swank, uno dei collaboratori di White e cofondatore della sua casa discografica Third Man Records. Il chitarrista pensava invece a James Bond. Poteva funzionare come tema principale di un film sul mitico agente segreto 007. Un bel traguardo per un musicista. La colonna sonora dei film di James Bond è sempre iconica, come il film stesso e l’attore che interpreta il personaggio. Poteva funzionare, ma era un pensiero astratto, un sogno espulso al risveglio con il ritorno della concretezza e del pragmatismo. Figurati. Figurati se succede che vengono a chiedermi di fare il tema di Bond. In ‘La morte può attendere’, film uscito proprio nel 2002, la canzone principale era cantata da Madonna . That’s Entertainment, caro Jack. L’industria dello Spettacolo. Un pianeta lontano da quello frequentato da Jack White. Meglio usarlo quel riff e metterlo dentro a una canzone. White lo ha fatto per ‘Elephant’, il disco che è stato registrato a Londra nel 2002. Anzi, è proprio l’inizio di quel disco. Era il 17 febbraio del 2003, quando le prime radio hanno cominciato a diffondere la canzone che si caratterizzava soprattutto per le note di quel riff. I WHITE STRIPES, ALTERNATIVI DI SUCCESSO Il duo composto da John Anthony Gillis e Megan Martha White è stato un progetto decisamente originale. Un duo nato a Detroit, innamorato del rock in piena epoca dominata da hip-hop ed elettronica nella patria del vecchio e glorioso soul. Si erano conosciuti al Memphis Smoke, un bar-ristorante dove lei lavorava e dove lui leggeva poesie. Poesie che scriveva anche su bigliettini nascosti dentro i divani che riparava, perché si manteneva lavorando come tappezziere. Almeno finché non ha iniziato a fare musica seriamente, suonando la batteria in gruppi locali che mischiavano il punk con country, folk e blues. Il mix dei generi era già una sua inclinazione. La musica gli ha impedito di entrare in un seminario del Wisconsin dove sarebbe diventato prete. Aveva appena comprato un amplificatore nuovo e non lo poteva portare in seminario. Scelse di non separarsi dall’amplificatore e, di conseguenza, una scuola pubblica. Con i The Go iniziò a suonare la chitarra elettrica, il suo strumento esatto. L’ha suonata con personalità, tecnica e originalità come pochi altri. Nella classifica di Rolling Stone dei 250 migliori chitarristi di sempre, lo potete trovare al numero 32 . Dopo anni di frequentazione, evidentemente anche intima, John e Megan si sposarono nel settembre del 1996 e lui prese il nome della moglie. Suonava meglio. Era nato Jack White. Poco dopo Megan iniziò a suonare la batteria e fu la svolta. Erano nati i White Stripes, che potevano essere i Bazooka, i Soda Powder o i Peppermints, tutti nomi scartati come le caramelle alla menta e le gomme da masticare che piacevano tanto a Megan. Il primo disco uscì nel 1999 e si chiamava semplicemente ‘The White Stripes’ . Solo chitarra e batteria, con Jack al canto. Musica capace di fare parecchio rumore, in tutti i sensi. Qualcosa di nuovo, ma vecchio. Insieme. Nuovo in quegli anni perché era un chiaro richiamo alle origini del rock. Genere? Ecco, il genere potrebbe essere un punk rock-metal-country-blues. E un ritorno al garage rock 30 anni dopo il garage rock, un ritorno al blues rock che è sempre stato e sempre sarà, un ritorno ad atmosfere psichedeliche. Niente elettronica, per carità. Potrebbe andare bene indie rock o alternative rock, che lì dentro ci si può mettere di tutto. Ecco. Look curatissimo, obbligatoriamente in rosso, bianco e nero. Nei live sul palco, sulle copertine degli album, nel merchandising. Tre colori. Un’ossessione, quella per il numero tre. La base erano i tre elementi del rock: chitarra, batteria, voce. Limitare sé stessi all’essenziale, come scelta liberatoria. Ha aperto le loro porte della percezione a livelli di creatività altissimi. Primi dischi registrati in casa, semplici, ruvidi e diretti, con una strumentazione orgogliosamente vintage, quella degli eroi musicali di Jack, come Son House, grande cantante e chitarrista del Delta blues. Poche interviste, mistero sul rapporto della coppia che si presentava spesso come fratello e sorella. Un caos di elementi che potevano creare un certo fascino. Oppure indifferenza, incomprensione. Poi è arrivato il terzo disco, registrato in tre giorni, perché bisognava fare sempre tre in qualche modo: ‘White Blood Cells’ , uscito nel luglio 2001 con l’indipendente Sympathy For the Records. Venne ripubblicato dalla V2, un’etichetta di altro livello e potenzialità, fondata da Richard Branson, quello della Virgin Records. Il disco finì in classifica, arrivò rapidamente a 500 mila copie . Entusiasmi critici, soprattutto in Inghilterra. In America le cose cambiarono in meglio dopo la partecipazione al Late Show di David Letterman. Il video del singolo ‘Fell in Love with a Girl’ fu parecchio premiato agli MTV Music Awards. Insomma, all’inizio degli anni 2000, i White Stripes erano un gruppo di discreto successo. Jack e Meg si erano separati, il matrimonio era finito, ma la collaborazione artistica continuava a convergere verso l’eccellenza. L’uscita di ‘Elephant’ era attesa, tutti aspettavano una conferma. Il successo diventò più grande, primo album a entrare nella Top 10, a diventare disco di platino sia in Inghilterra che negli USA. La nuova musica con tanto gusto vintage dei White Stripes aveva guadagnato spazio e notorietà. Anche e soprattutto in ‘Elephant’, l’ambiente sonoro ideale era assicurato dall’utilizzo di strumentazione antica, da anni 50-60. ‘Seven Nation Army’ era il singolo di punta, voluto da Jack White contro le prime scelte dei discografici, e aveva colpito per quel riff così riconoscibile. Il riff è una serie di note, una frase di chitarra, a volte di basso, ripetuta più volte e orecchiabile. Una frase che definisce una canzone. Esempi celebri ce ne sono parecchi, i riff sono fondamentali nella musica rock. ‘ Satisfaction’, ‘Smoke on The Water’, ‘Aqualung’, ‘Rebel Rebel’, ‘Back in Black’, ‘Smells Like Teen Spirit’, ‘Black Dog’, ‘Layla’, ‘Walk This Way’, ‘Sweet Child O’ Mine’… tantissimi altri. Nell’elenco dei celebri metteteci ‘Seven Nation Army’. Un titolo per gioco. Da bambino Jack White sentiva parlare del Salvation Army, l’Esercito della Salvezza, ma lui capiva Seven Nation Army. Ha voluto dare subito un nome a quelle note e lo ha fatto usando un ricordo. E poi lo ha fatto perché… indovinate? Esatto. Suonava bene. Tutto nella vita di Jack White deve rispettare questo suo gusto. Il titolo è rimasto anche quando la canzone ha avuto un senso e un testo. Parla di pettegolezzi e bugie, forse invidie, che possono rovinare le amicizie. Di come reagiscono le persone che subiscono tutto questo. Ma non è il testo che si ricorda di questa canzone. Per un musicista, era una sfida. Non ha un ritornello. White voleva vedere se era in grado di scrivere una canzone così potente da poterne fare a meno. La frase musicale creata da Jack White è inconfondibilmente il tema principale del brano. Sembrava un basso, ma non lo era. Il suono era ottenuto da una chitarra semi-acustica Kay Hollowbody anni 50 e da un effetto generato da un pedale Whammy per abbassare la tonalità di un’ottava . La chitarra era un regalo del fratello, acquistata in un negozio di articoli usati della S. Vincent de Paul a Detroit, un’associazione che si occupa di beneficenza e assistenza ai poveri vendendo merce di seconda mano. Un regalo in cambio dell’aiuto per trasportare un frigorifero. Il pezzo era sostenuto dalla batteria minimalista e carica di energia di Meg, elemento portante della musica dei White Stripes. Le opinioni sulla tecnica e sulla mancanza di tecnica di Meg White hanno sempre formato un ossimoro, un accostamento di opposti. Producono iperboli, ancora oggi. Genio o nullità. Meg era primitiva, basica. Le sue bacchette si muovevano con semplicità. Forse non era una batterista autentica, ma era la batterista giusta per dare il tempo e il ritmo alla chitarra di Jack. Suonava con ispirazione. E questo è stato sempre il cuore della musica dei White Stripes. Essere ispirati. Dare e togliere, nessuna esigenza di riempire. Grancassa e timpano per dare corpo e tenere il tempo, si aggiungeva il rullante, sempre colpi secchi, netti. Le esplosioni avvenivano scatenando i piatti. Pause. Ripartenze. Tutto qua. Con Jack creava una chimica speciale, c’era una connessione evidente, coglieva ogni segnale sonoro o visivo. Un’intesa perfetta e necessaria, suonavano sul palco improvvisando, senza una scaletta, passavano da un pezzo all’altro come veniva, ogni concerto era un esemplare unico. Certo, poi era la chitarra di Jack a dare volume, variazioni e atmosfera, con i suoi power chords, le accordature open, le distorsioni anni 60 e lo slide , gli assoli improvvisi e lancinanti. Nel 2003 ‘Seven Nation Army’ è stato uno dei singoli di maggior successo, ed era spesso passato dalle radio in molti paesi. L’Italia, ad esempio. IN PRINCIPIO FU IL BLUE ARMY, POI FURONO I TIFOSI DELLA ROMA E proprio da una radio ascoltata in un bar, il riff di ‘Seven Nation Army’ catturò i tifosi del Club Brugge, il Blue Army, come sono chiamati i fan della squadra di Bruges. Su quelle note partì un coro spontaneo. Suonava bene . Era perfetto per dei tifosi eccitati. Era semplice, non c’erano parole da ricordare, era incalzante e trasmetteva una carica pazzesca. Il coro fu portato nelle strade di Milano e poi all’interno dello stadio. Era il 22 ottobre 2003, a San Siro era in programma una partita di Champions League tra Milan e Brugge. Il nuovo coro celebrò il gol del peruviano Andres Mendoza, ‘El Condor’, con cui il Bruges passò in vantaggio in contropiede al 33’ del primo tempo. Un clamoroso diagonale di esterno sinistro appena dentro l’area, tutto spostato sulla sinistra, con Nesta e Cafu in ritardo e il portiere Dida che poté solo ammirare la traiettoria verso l’angolo alto. Un colpo da mancino, il piede destro per ‘El Condor’ era un terminale estraneo, altro da lui, un sostegno buono solo per correre. Fu il gol decisivo, il Brugge vinse, i tifosi del Blue Army festeggiarono cantando ancora più forte e tornarono a casa con una vittoria e un nuovo inno. Lo hanno esercitato in esclusiva per oltre due anni . Il 15 febbraio del 2006, il Brugge ospitò la gara di andata dei sedicesimi di finale di Coppa Uefa contro la Roma. Giallorossi in vantaggio nel primo tempo. Il Brugge pareggiò con un gol di Javier Portillo al 61’. Il gol che fu la sorgente della nostra storia, il movente per il furto. Come era abitudine, partirono le note di ‘Seven Nation Army’, accolte da uno popolo in coro. Una festa sonora. Impressionante. Non solo il Blue Army, era tutto il Jan Breydel Stadion a partecipare al rito e a renderlo spettacolare. Ad ascoltare bene, era un coro di oh-oh-oh-oh, quindi il po-po-po-po è stata una variazione italica sul tema più riuscita . Quel modo di festeggiare, comunque, non era sfuggito ai tifosi romanisti. Al 73’ la Roma segnò l’1-2 vincente con Simone Perrotta. Tra i soliti ‘Roma Alé, Roma Alé, Roma Alé’, ecco che si alzò il po-po-po-po. Adesso tocca a noi. Ve lo rifacciamo. Per rivincita, per un gusto un po’ canzonatorio, per semplice imitazione. A fine partita il po-po-po-po si era impossessato dello spicchio di tribuna occupato dai tifosi romanisti. Che cantarono ancora più forte e tornarono a casa con una vittoria e un nuovo inno. Subito adottato dalla Curva Sud dello Stadio Olimpico. Nella seconda metà della stagione 2005-2006 il coro di ‘Seven Nation Army’ aveva invaso i campi della serie A. È poi entrato nel ritiro della nazionale di Lippi che preparava il Mondiale, canticchiato dai giocatori. È stato il rito dei tifosi italiani in tutto il torneo, cantato durante e dopo ogni vittoria con sempre più convinzione. Chi amava il mistero, la coincidenza che diventa profezia, poteva notare che il testo della canzone iniziava così: “I'm gonna fight 'em off A seven nation army couldn't hold me back…” “Li scaccerò, Un esercito di sette nazioni non mi fermerà…” L’Italia ha dovuto vincere sette partite per conquistare il Mondiale. Le sette nazioni sono state Ghana, USA, Repubblica Ceca, Australia, Ucraina, Germania e Francia. Nessuna ha fermato gli azzurri. Dopo la finale del 9 luglio contro la Francia, i tifosi italiani ci hanno messo anche le parole in quel coro: Siamo-Campioni-del Mondo Siamo-Campioni-del Mondo Suona bene, vero? Il riff di Jack White è immediato, si può dividere facilmente in sillabe e adattare a nomi di giocatori, a frasi e slogan. Le tifoserie di tutto il mondo si sono divertite a comporre su queste note in libertà. Poche altre canzoni sono state e sono ancora così popolari negli stadi, poche sanno creare connessioni così viscerali e sanno arrivare a tutti, senza limiti e confini. Perché è successo? La spiegazione d’autore l’ha data proprio Jack White: “Sono onorato che i tifosi italiani abbiano adottato questa canzone e fatta propria. È meraviglioso quando la gente accoglie una melodia e le permette di entrare nel pantheon della musica popolare. Come musicista è qualcosa di impossibile da pianificare, soprattutto in epoca moderna. Adoro il fatto che i tifosi che la stanno cantando non abbiano idea di che canzone sia, da dove provenga. È questa la musica popolare”. E sempre per citare Jack White, le arene e gli stadi sono le nuove chiese, dove le tradizioni canore popolari sono nate e venivano condivise da molte persone. La musica ha il potere di unificare. UN FENOMENO MONDIALE Il 2006 è stato un anno speciale, ogni vittoria italiana era diventata il canto di ‘Seven Nation Army’. Non poteva mancare per i trionfi di Valentino Rossi o della Ferrari di Michael Schumacher. Il coro si è sentito anche dopo il Gran Premio d’Italia a Monza del 4 settembre 2016, eppure sul podio c’era il vincitore Nico Rosberg su Mercedes e il compagno di squadra Lewis Hamilton, secondo, con il ferrarista Sebastian Vettel solo al terzo posto. Fischi, tanti fischi, verso i piloti della Mercedes da parte del popolo della Ferrari dopo la rituale invasione della pista per assistere alla premiazione. Rosberg ha risolto l’imbarazzo parlando il suo ottimo italiano e conquistando i tifosi. “Siete i migliori del mondo, è troppo bello. Incredibile”. Poi ha aggiunto, a sorpresa: “Proviamolo”. Ed è partito cantando le note famose, una sua personalissima versione fatta di taaa-ra-ra-ta-ta-taaa-ta. Nuova variazione sul tema. I tifosi lo hanno seguito, cantando rigorosamente la ‘nostra’ versione, quella del po-po-po-po. Nonostante lo sport italiano sia sentimentalmente legato a ‘Seven Nation Army’, il successo della canzone non ha conosciuto davvero limiti e confini. Ogni Campionato Europeo di calcio l’ha utilizzata dall’edizione 2008 in poi. Durante il Mondiale del 2018 era la canzone che veniva diffusa prima dell’inizio di ogni partita. La usano diverse squadre NFL. Per i Buffalo Bills era la kick off song, la canzone che carica il pubblico e precede il calcio con cui inizia il match. I Baltimore Ravens ne hanno fatto la loro canzone ufficiale nella stagione 2011 e i tifosi hanno continuato a usarla anche quando è stata ufficialmente sostituita. Nel 2012 i Ravens hanno vinto il Super Bowl contro i San Francisco 49ers. Durante il terzo quarto ci fu un blackout di 34 minuti al Superdome di New Orleans e i loro tifosi hanno riempito l’attesa con il coro del riff di Jack White. Ma è tutto lo sport di Baltimora che ha creato un link speciale con ‘Seven Nation Army’. Si sente sempre durante le partite degli Orioles del baseball MLB a Camden Park. Diversi college l’hanno inserita nel repertorio delle loro marching bands che accompagnano le partite, Penn State, Boston College e University of Southern California in particolare, ma si fa prima a fare l’elenco di chi non l’ha mai suonata. Tra le squadre dell’hockey NHL, non può mancare alle partite dei New Jersey Devils, ma non c’è palazzetto per l’hockey ghiaccio che non faccia partire queste note prima di qualche ingaggio. Il pugile Anthony Joshua l’ha usata come walk off song, la canzone che accompagna il suo ingresso nell’arena verso il ring. Anche Pat McAfee, ex giocatore del football NFL, si faceva annunciare così nella sua seconda carriera da wrestler, prima di dedicarsi solo al commento e all’analisi per ESPN. I Miami Heat della NBA hanno presentato spesso il quintetto iniziale prima delle partite con le note e il ritmo incalzante del pezzo dei White Stripes, fin dalla ‘Big Three’ era con LeBron James, Dwayne Wade e Chris Bosh. Effetto garantito e giocatori saltellanti, per l’impossibilità di stare fermi e per l’adrenalina che comincia a scorrere. Tutto lo sport di Detroit ha un legame di sangue con ‘Seven Nation Army’. Jack White è di Detroit, è soprattutto un grande tifoso dei Tigers del baseball MLB e ha donato 170 mila dollari per ristrutturare un campo da baseball a Clark Park, nella zona sud ovest della città. University of Michigan offre l’esecuzione più maestosa del coro, nel suo stadio per il college football da più di 100 mila persone. Ma viene cantata con orgoglio anche durante le partite dei Lions, dei Tigers e dei Pistons e la potete sentire in ogni gara di ogni sport dalla middle school in poi in tutto il Michigan. Una delle celebrazioni più suggestive riguarda i Melbourne Victory della A-League, la lega australiana di calcio professionistico. Il pezzo parte dopo ogni gol, il pubblico che canta è all’interno del Melbourne Rectangular Stadium. Si trova a 700 metri dal Corner Hotel, dove Jack White ha suonato le note del riff per la prima volta in quel sound check del 2002. Sono le vibrazioni più vicine all’epicentro artistico, il luogo che le ha generate. NELLA STORIA DELLA MUSICA E DELLO SPORT I White Stripes hanno concluso la loro carriera come gruppo nel 2011. L’annuncio arrivò nel mese di febbraio, un mese che si ripete nella loro storia. Una divisione arrivata per preservare quello che di bello e speciale c’è stato nella loro vita artistica e personale. Jack White aveva già avuto e avrà ancora esperienze con altre band, Raconteurs e The Dead Weather. Ha poi continuato una produttiva carriera solista. I suoi concerti live si chiudono con ‘Seven Nation Army’, la canzone che l’ha fatto conoscere e a cui deve molto. Forse non ha guadagnato una fama consolidata, c’è sicuramente qualcuno che non ricorda bene il titolo e l’autore di quelle note che si sentono sempre negli stadi. Ma, come dice Jack White, questo è il destino delle canzoni che diventano musica popolare. Non ti appartengono più, perché appartengono a tutti. White ha accettato il fatto che parte della sua musica sia fuori dal suo controllo. Anzi, ne è gratificato. Più l’autore è anonimo, più un musicista deve sentirsi realizzato. È un pensiero che gli appartiene, sconosciuto all’ego di molti altri artisti. Ma la sua creazione ha un valore assoluto, che bisogna riconoscere a ‘Seven Nation Army’. Nella classifica delle 500 canzoni più belle di tutti i tempi della rivista Rolling Stone, ‘Seven Nation Army’ occupa il numero 36. Una delle canzoni più belle di sempre. Non è il tema di un film di James Bond, ma questo capolavoro è stato il motivo per cui hanno chiesto a Jack White di scriverlo. Era arrivato il momento. L’industria dello spettacolo poteva contare su un autore come Jack White. Nel 2008 ha ricevuto l’incarico di scrivere la canzone principale di ‘Quantum of Solace’, il seguito di ‘Casino Royale’. Da un paio d’anni aveva in programma una collaborazione con Alicia Keys e questa divenne l’occasione perfetta. ‘Another Way To Die’ fu il primo duetto della storia per un film di 007. Alicia Keys al pianoforte, White alla chitarra e anche alla batteria, un ritorno all’inizio della carriera. È una delle versioni più alternative. Potente e un po’ distante dalle tante canzoni classiche che hanno introdotto questi film. Jack White ha sempre espresso uno stile proprio, innovativo, senza compromessi. Ha scritto oltre 200 canzoni in 30 anni di carriera, ha vinto 12 Grammy e ha ricevuto 35 nomination. È diventato un discografico con la sia etichetta Third Man Records, un editore con la Third Man Books. Sempre alla ricerca di una diversa maestria nell’artigianato musicale e poetico. Alla ricerca di qualcosa che suona bene.

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Danilo Freri