Perché abbiamo così tanto bisogno della nostalgia?

Quest’anno sono 30 anni da “Definitely Maybe” e nel 2025 l’anniversario toccherà a “ Morning Glory’”. E le ricorrenze sono pur sempre una ghiotta occasione, qualcuno ha definito persino i possibili contorni economici della reunion degli Oasis, si parla di 400 milioni di euro come valore dell’operazione, senza considerare l'indotto. Ma per la generazione di cui faccio parte, cioè di chi è stato adolescente/giovane negli anni ’90, già solo la possibilità di rivedere i re del BritPop su un palco ha fatto riaccendere quella spia, in realtà mai spenta, del sentimento che più ha percorso i nostri animi di ragazzini, poi ragazzi, nati tra la fine dei '70 e gli inizi degli '80 e catapultati nel nuovo mondo: la nostalgia. Il muro caduto nel 1989 e noi troppo piccoli per capirne la portata di cambiamento storico ma comunque sufficientemente grandi per avvertire la differenza e per conoscere le cose fondamentali del vecchio mondo. Il suono metallico dei primi modem 56k che sapevamo già che sarebbero stati presto soppiantati. I CD che sostituivano le musicassette e minacciavano i vinili . La fine del retropassaggio al portiere, una rivoluzione epocale del calcio, così come l’introduzione dei nomi e dei numeri di maglia all’americana, la nascita della Champions e quell’inno che “boom” aprì davvero un nuovo scenario di immaginazione. La rivoluzione della Premier League e il ritorno delle inglesi in Europa. Un decennio che si aprì con Italia 90, un evento che era già nostalgico mentre si disputava: di lì a due anni la Prima Repubblica sarebbe stata travolta, a vincere fu una Germania che di fatto si stava riunificando ma era ancora, calcisticamente parlando, solo dell’Ovest, “Notti magiche” che sarebbe stata la sublimazione di quella finale mancata degli azzurri, canzone come poche capaci di riaccendere emozioni malinconiche verso il passato. Poi sarebbero venuti i Mondiali americani del ’94 e Baresi-Baggio, due simboli di grandezza, che in quelle lacrime di Pasadena rappresentavano già visivamente quanto ci sarebbero mancati. La tragica fine di Ayrton Senna e non sarebbe stata più domenica. Quel ’94 che era stato l’anno della tragica morte di Kurt Cobain, non avevamo fatto nemmeno in tempo a divorare “Nevermind” e a imparare il testo di “Smells like teen spirit”. Stava iniziando la globalizzazione che tutto avrebbe cambiato, ce ne accorgevamo con le casse integrazioni, i prepensionamenti, fabbriche che pensavamo immortali che invece correvano verso un declino inesorabile. Avvertivamo l’angoscia dei nostri genitori, e abbiamo introiettato la consapevolezza che per noi, il nuovo che arrivava, non avrebbe portato il miglioramento come nel passato. I nostri amici più grandi già sperimentavano quella che poi sarebbe stata definita la “precarietà”. Fine del posto fisso, fine delle ideologie, fine della placida stabilità che aveva contraddistinto 50 anni di dopoguerra in Europa. Stava arrivando la Cool Britannia, sancita dal successo di Tony Blair e dalle visioni di tigri del futuro da cavalcare, salvo poi accorgerci di esserne spesso disarcionati. Le Spice Girls, i Blur e poi ovviamente gli Oasis. Che più di altri entrarono nel nostro immaginario, al punto che credo sia impossibile trovare un 45enne oggi che non sappia a memoria il testo di Wonderwall o di Don’t look back in anger. E il motivo, oltre al fatto di essere canzoni ben confezionate in puro stile BritPop all’epoca invincibile, forse, sta proprio nel fatto che tra tutti i gruppi e fenomeni musicali globali gli Oasis furono quelli che meglio interpretavano quel sentimento di nostalgia preventiva del presente di un’intera generazione. Inspiegabile, con gli occhi di oggi, ma guardando indietro uno dei possibili tratti distintivi di quella che fu definita "Generazione X". Avevamo strumenti mai pensati prima ma senza ancore ideali, senza binari definiti ma anzi in un mare aperto di cambiamenti dai risvolti non prevedibili. Spaesati, curiosi ma anche spaventati. Una consapevolezza quasi rassegnata di non poter vincere, come generazione. Per cui “Rotta per casa di Dio” per noi era già una canzone che parlava di tempi presenti, sì, ma che erano destinati a diventare passati, era già nostalgica quando uscì anche se forse non lo sapevamo coscientemente. Giravamo per strade di hinterland improbabili con i “Tuttocittà” sul sedile o nel vano portacasco dello scooter ma in fondo era come se sapessimo che saremmo stati gli ultimi a farlo. Negli anni del liceo avevamo riscoperto Rino Gaetano, anche grazie a una riuscitissima e fortunatissima cover degli Afterhours della canzone più melanconica del cantautore calabro romano. Anche per questo, forse , squarciagolavamo: “And Sooo Sally can wait…”. Perché era come aspirare una gigantesca sigaretta di nostalgia preventiva, per riempirci i polmoni di un sentimento che mischiava il non aver vissuto pienamente un passato già finito e archiviato e l’ansia di proiettarci in un futuro in cui si sarebbe sentito più a suo agio chi sarebbe venuto dopo di noi. A guardare indietro “Che compassione che ho per me e per te”, prendendo in prestito le parole di un poeta, perché in fondo quel sentimento è stata una sorta di freno motore di una generazione. Senza neanche la possibilità di dire “basta, io scendo alla prossima fermata” come fece quel signore del calcio che è Osvaldo Bagnoli, che nel 1994, dopo l’esonero dall’Inter, si ritirò. Con il suo cappello da operaio in panchina che segnava la distanza tra vecchio e nuovo mondo. Per fortuna poi quella sbornia collettiva di sentimenti malinconici e di smarrimento è finita, alla fine il futuro vince sempre e non è detto che sia sempre un male, anzi. Gli anni d’oro del Grande Real sono tornati o non sono mai finiti, certo pagheremmo per rivedere la rovesciata di Djorkaeff ma nel frattempo abbiamo goduto di Messi, CR7 e ora Mbappé. Il Manchester City da vicino rumoroso è diventato una big del calcio mondiale e simbolo di quell’efficacia dell’estetica rilanciata e perfezionata da Guardiola, per la gioia di quei due fratelli che da bambini si mettevano in posa davanti al caminetto magari sognando di battere lo United nel derby e che ora festeggiano Champions e titoli. Ma bastano piccoli segnali per farci avvertire ancora il senso dell’hangover. E si riaccende la domanda: perché abbiamo così tanto bisogno della nostalgia?