Quando anche la Nasa si inchinò all'ennesima prodezza di Alex Zanardi

Lausitzring, il circuito maledetto. Un anello triangolare, sulla falsariga di quello di Pocono in Pennsylvania, chiamato Eurospeedway. Maledetto perché ha visto la morte di Michele Alboreto e maledetto perché gli incidenti su quell’ovale, non si dimenticano. Nel 2001 perse la vita l’italiano della Audi durante le prove e sempre in quell’anno, quasi morì Alex Zanardi. O meglio, sopravvisse contro tutto e tutti. La storia di Alex è costellata da up and down, fortune e sfortune micidiali, nella sua prima vita da pilota come nella seconda da atleta paralimpico. Insomma, un susseguirsi di emozioni e delusioni, di trionfi e brucianti sconfitte, di incidenti e miracolose riprese. Come quella di quel fatidico 15 settembre 2001 in Champ Car . Dopo aver soggiornato senza troppa fortuna in F1, segue il suo amico fraterno Max Papis in America. Lì vince, stravince e diventa un simbolo di quella categoria, dimenticando il passato e volendo rimanere in Usa a vita . E invece le sirene della F1 riprendono ad ammaliarlo. Poi ad un team come quello di Frank Williams non si può dire di no. Così trasloca nuovamente in Europa, ma inevitabilmente senza troppo successo, con un compagno di scuderia come Ralf Schumacher che non fu proprio semplice da digerire. Parentesi chiusa e il ritorno in Champ Car diventa inevitabile. Ma come gli successe anche in F1 il ritorno non fu particolarmente felice. Alex decise di abbandonare le corse, almeno per il momento, così in una conferenza stampa annunciò il suo ritiro a fine stagione. Ma c’era ancora la gara europea della Champ da disputare e davanti ai suoi fans si poteva ancora fare bene. Pronti via e si getta nella mischia: questa volta la monoposto del team Reynard Honda funziona bene. Tant’è che dopo aver passato Ed Carpentier e rincorso e superato Tony Kanaan, Alex si trovò davanti a tutti, trascinandosi in scia il suo amico di sempre Max Papis. Un tripudio, un trionfo, un qualcosa di inaspettato, ma a 12 giri dalla fine la lancetta del carburante iniziò a segnalare e Alex dovette necessariamente lasciare il primo posto a Max, per rientrare in pit lane per uno splash and go, ovvero un rifornimento veloce per terminare la gara. Tutto perfetto se non l’uscita, staccando un po’ troppo presto il limitatore e uscendo dai box in testacoda. Un disastro… a folle velocità sopraggiunse Alex Tagliani che con quel cognome sinistro, centrò in pieno la parte più debole della monoposto di Alex, combinando quel guaio enorme che tutti conosciamo. Gli fu amputata una gamba dopo che un’altra rimase dentro la monoposto e il suo meccanico riuscì a salvargli la vita inserendo la mano con il guanto nella Safena per evitare un’emorragia ancor peggiore di quella apparente. Una volta caricato in elicottero, mentre lo attendevano i medici dell’ospedale di Berlino, ebbe ben sette arresti cardiaci e gli rimase in corpo solo un litro di sangue. Se la cavò il mitico Alex, e si reinventò un’altra vita, con tutte le conseguenze del caso, purtroppo. Dopo diversi mesi dall’incidente automobilistico, ci vedemmo a Montecarlo ed era in partenza per gli Stati Uniti. Passarono alcune settimane e mi telefonò dicendo che sarebbe andato alla Nasa. Gli chiesi se avesse intenzione di farsi spedire sulla Luna, ma con una risata né confermò né smentì. Credo non sapesse realmente bene cosa dovesse fare a Huston. Di fatto una notte, suonò il telefono e preoccupato per l’orario e il nome sul display, risposi e con un fiume di parole, Alex da Castel Maggiore mi confermò di averne fatta un’altra delle sue. "Ho fatto riscrivere il prontuario degli incidenti della Nasa… che soddisfazione!". Basito cercai di capirne di più e mi relazionò sul fatto che la Nasa ha un libro sul quale annota tutti gli incidenti 'famosi' e li cataloga. Quello di Alex, per arresti cardiaci, perdita di sangue, tempo trascorso tra l’incidente e il ricovero era stato catalogato come un non-survivable accident, un incidente in teoria fatale. Per Alex fu una conquista, un’altra delle tante, accompagnata da quella sua verve ironica che per le via di Montecarlo dove allora viveva, sulle scalinate di Fontvieille o sui marciapiedi del Principato, continuò a percorrere le strade per normodotati, facendo inevitabilmente il gesto dell’ombrello a me e a chiunque lo accompagnasse.