Come We Are The Champions è diventato l'inno dello sport mondiale

ASCOLTA LA CANZONE MENTRE LEGGI L'ARTICOLO La più famosa, la più cantata, la più utilizzata. ‘We Are The Champions’ si abbina, inevitabilmente, allo sport. Mille volte sentita, eppure irresistibile. La sentiremo altre mille volte e poi mille ancora, un numero così alto da non riuscire più a contare. Come i baci del poeta Catullo per la sua Lesbia, non riusciremo a farne a meno. Non è mancata nella cerimonia di chiusura di Parigi 2024. Un momento karaoke meraviglioso, tutti gli atleti e il pubblico nello Stade de France a squarciagola, tutti conoscevano a memoria il testo. Pura gioia. Ecco, We Are The Champions è nata con questa intenzione. Freddie Mercury l’ha composta proprio per essere cantata da uno stadio intero. 29 maggio del 1977, concerto alla New Bingley Hall di Stafford. I Queen erano appena scesi dal palco, in attesa di risalirci per il bis. Il pubblico cominciò a cantare ‘You’ll Never Walk Alone’, coro da stadio se ce n’è uno. Un omaggio dei fan alla band, il desiderio di esprimere un ringraziamento in musica, l’urgenza di cantare insieme qualcosa, condividere quel momento e renderlo indimenticabile. E cosa può cantare un pubblico inglese se non ‘You’ll Never Walk Alone’, il celebre inno dei tifosi del Liverpool ad Anfield, conosciuto da tutti. Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon: emozionati, esterrefatti. Fu una presa di coscienza: un concerto è come una partita dove c’è una sola squadra, tutti sono una sola squadra. Brian e Freddie hanno avuto la stessa illuminazione. Doveva diventare parte del loro show, ma una cosa dei Queen, con la musica dei Queen. La gente voleva essere parte attiva di un sogno e loro avrebbero esaudito il desiderio. Brian May compose ‘We Will Rock You’, semplicemente piedi e mani che battono un ritmo che era lì da sempre. Stomp-stomp-clap. Una parte del patrimonio popolare, più che una canzone. Freddie Mercury pensò a ‘We Are The Champions’. Che lo rappresentava totalmente, rivelava il suo ego smisurato e il suo senso perenne di rivincita, espresso con arroganza teatrale. Ma questa volta non era un gioco uno contro tutti. Voleva la partecipazione della gente, voleva unione. Voleva tutto lo stadio, un pubblico come quello del calcio. Una struttura semplice: strofa, ritornello, strofa e due volte il ritornello. La strofa, con quell’inizio così intimo, contrasta e prepara l’esplosione del ritornello, dove il trionfalismo di musica e testo si fonde in modo impareggiabile. Arriva subito all’orecchio e rimane. Semplice sì, banale proprio no. I fraseggi degli strumenti all’interno del pezzo danno varietà, assenza e poi presenza della batteria costruiscono un crescendo, il tempo di 6/8 è diverso dal 4/4 di tanti pezzi rock che conoscete . Il singolo ‘We Are The Champions’ uscì il 7 ottobre 1977 con ‘We Will Rock You’ come lato B. Due inni che diventeranno immancabili nei concerti dal vivo della band, spesso eseguiti uno dopo l’altro, spesso il gran finale dello show. I singoli anticipavano e aprivano il sesto album della band, ‘News of the World’, uscito il 28 ottobre 1977. Arrivava in piena rivoluzione punk, una ribellione che contestava certa musica mainstream, il rock classico e il progressive in particolare. La leggenda narra che i Sex Pistols stavano registrando negli stessi Wessex Studios usati dai Queen ad Highbury New Park e Sid Vicious entrò in sala insultando Freddie Mercury, colpevole di voler trasformare il balletto in un genere pop. Il clima era quello e la critica aveva scelto per chi tifare: i Sex Pistols, il punk. Con ‘News of the World’ il rock sinfonico dei Queen era diventato più duro, senza tradire la firma sonora dei Queen, la coralità, l’estensione vocale di Freddie Mercury e la chitarra di Brian May, la diversità di stili. L’impatto dei primi due pezzi dell’album era imponente: ‘We Will Rock You’ e poi subito ‘We Are The Champions’, quasi inseparabili. Per ‘We Are The Champions’ serviva un video che doveva dare immediatamente la dimensione del brano, una dimensione da concerto dal vivo. E quindi fecero un concerto vero, al New London Theatre, senza playback come usava nei video dell’epoca, coinvolgendo il fan club per reclutare qualche centinaio di persone. I primi a sentire la canzone furono dei tifosi, dunque. I tifosi dei Queen. La sentirono un paio di volte e già la cantarono tutti in coro. Era un destino, non per intervento del fato, ma per la capacità umana di volere e potere. Gli unici a capirlo furono i critici del New Musical Express, che scrissero “avrà successo sugli spalti, sembra destinata ad essere adottata dai tifosi di calcio di tutto il paese”. Giusto. Quasi giusto. Non solo i tifosi di calcio, non solo l’Inghilterra. Molto di più. Tutto lo sport e tutto il mondo. È così che è andata. In generale, la critica musicale britannica si accanì, stroncando in modo decisamente antisportivo. Era un’abitudine consolidata, i Queen sono stati il gruppo più amato al mondo tra quelli più odiati dai critici musicali dell’epoca. Per fortuna c’era l’America, dove il singolo vendette due milioni di copie e dove la rivista Record World lo mise al primo posto della sua classifica. Proprio in America iniziò nell’autunno del 1977 un tour trionfale. Ci furono due favolosi show da tutto esaurito al Madison Squadre Garden di New York, non a caso il luogo simbolo di sport e musica. Freddie Mercury entrò in scena per il bis con berrettino e giubbotto dei New York Yankees. In ottobre gli Yankees avevano vinto le World Series battendo i Dodgers 4 a 2, con Reggie Jackson che fu eletto MVP e soprattutto eletto per sempre Mr. October, l’uomo decisivo delle postseason. Quella sera il pubblico del Madison Square Garden fu portato al delirio da Freddie. Mick Jagger con la maglia dell’Italia, quella di Paolo Rossi, durante il concerto dei Rolling Stones a Torino nel giorno della finale dei Mondiali del 1982, arriverà dopo. Erano cose da Freddie Mercury. Gli Yankees rivinsero le World Series nel 1978, ancora contro i Dodgers e ancora 4-2. Festeggiarono cantando con i loro tifosi ‘We Are The Champions’. Mille volte cantata e mille volte ancora, è diventata accompagnamento abituale dello sport. Furono i tifosi Yankees i primi? Non l’hanno vinta loro questa partita con la storia. 27 marzo 1978. Finale del campionato NCAA di basket tra Kentucky e Duke. Alla St. Louis Arena, meglio conosciuta come il Checkerdome, Kentucky vinse 94-88, con 41 punti di Jack Givens, ovviamente MVP della finale. E partirono le note di ‘We Are the Champions’…L’avete pensato, lo so. La testa ha inserito il pilota automatico e voilà, cosa vuoi che sia successo, era scontato. Invece no. Uno psicologo la chiamerebbe euristica, cioè una scorciatoia della mente per semplificare e arrivare ad una conclusione veloce. A volte sbagliata. La prima volta non fu per i vincitori. Al campus di Duke quella notte ci fu un party di consolazione. E fu davvero una grande festa, una incredibile manifestazione di passione spontanea. Quindici barili di birra gratis aiutarono parecchio. Fuochi d’artificio si aggiunsero alla birra. Probabilmente era pronta la festa per la vittoria, riciclata nella festa dell’orgoglio di un’appartenenza. Una scritta luminosa diceva “ABBASSO KENTUCKY. DUKE N.1!” Studenti esaltati gridavano “Duke Next Year!”. Vinceremo il prossimo anno. Da una band improvvisata arrivava una robusta base di decibel di sottofondo. Fino a quando da una finestra non iniziarono le note di un pianoforte, trasmesse da un impianto stereo a tutto volume. E poi: I’ve paid my dues Time after time… Silenzio nel campus di Duke. Poi entusiasmo, che cresce, che esplode quando arrivò il ritornello: We are the champions, my friend! And we’ll keep on fighting to the end! We are the champions, WE ARE THE CHAMPIONS! No time for losers, ’cause we are the champions … Of the world … Nessuno ha forse mai colto il senso del brano pensato e voluto da Freddie Mercury e i Queen come gli studenti di Duke quella notte. Noi siamo i campioni. Quel noi, voleva includere tutti quelli che cantano. I Queen non hanno mai voluto dare un significato esclusivo e autodefinirsi i migliori di tutti. Noi voleva dire la band e il suo pubblico, noi che cantiamo insieme, noi che viviamo insieme. Noi siamo i campioni del nostro mondo. Se lo pensiamo, lo vogliamo, lo cantiamo…lo siamo. Noi siamo i campioni del mondo è un mantra, un percorso di autostima. Abbiamo bisogno di crederci e magari vogliamo spaventare ancora un po’ l’avversario. Siamo arrivati fino a qui passando attraverso tante cose, ma ce l’abbiamo fatta e possiamo andare avanti. È la vita. È lo sport, perché la gara rappresenta la vita, i suoi percorsi, i suoi traguardi, raggiunti oppure no, mannaggia, ma andiamo avanti. Duke non vinse il titolo l’anno dopo, non arrivo nemmeno in finale, sconfitta da St.John’s molto presto nel torneo NCAA. Ma nelle arene dove si faceva sport alla fine degli anni ‘70 è avvenuto un cambiamento epocale. Con brani come ‘We Will Rock You’ e ‘We Are the Champions’ si abbandonava il tradizionale commento musicale con l’organista del palazzetto per abbracciare la potenza della musica rock. Musica trionfalistica, da cantare in coro. Furono i New York Islanders della NHL ad iniziare una tradizione. 8 maggio 1978, gli Islanders sconfissero i Rangers 7-2, vincendo per la prima volta la Patrick Division. Celebrazione folle, le casse del Coliseum investirono tutti con le note del brano dei Queen, ancora in classifica e trasmesso abitualmente dalle radio. Un mese dopo, la canzone venne diffusa per gasare i tifosi nel pre partita di gara 7 dei quarti di finale contro Toronto. Gara persa all’overtime. Il futuro capitano Denis Potvin sentenziò: “Non la voglio sentire mai più. A meno che non voglia dire qualcosa”. Quel qualcosa arrivò due anni dopo, il 24 maggio 1980, quando gli Islanders vinsero la loro prima Stanley Cup contro Philadelphia. 15 mila persone si sfogarono in coro mentre Potvin, diventato capitano, faceva il suo trionfale giro sul ghiaccio con la coppa sopra la testa. In America ‘We Are the Champions’ era già diventata patrimonio degli Yankees, come sappiamo, e faceva parte del riscaldamento pre partita dei Philadelphia 76ers, evidentemente meno sensibili alla possibile iettatura rispetto agli Islanders. Nel mondo della musica ‘We Are The Champions’ è diventato subito uno standard. È stato il pezzo finale dello storico concerto di Mina a Bussoladomani di Lido di Camaiore del 23 agosto 1978. Eppure non ha mai raggiunto il numero 1 della classifica inglese. È stata numero 2 nel regno Unito e numero 4 della Billboard Hot 100 negli USA. Oggi sembra incredibile, un affronto di lesa maestà ai Queen. Ma è stata votata come canzone preferita in un sondaggio mondiale nel 2005, battendo tra le altre ‘Billie Jean’ di Michael Jackson, ‘Hotel California’ degli Eagles e i Nirvana di ‘Smells Like Teen Spirit’. Nel 2011 un team di ricercatori l’ha eletta come la canzone perfetta, la più orecchiabile, secondo parametri che coinvolgevano matematica, ingegneria e tecnologia, ma anche le neuroscienze e la psicologia. Non puoi fare a meno di cantarla. Lo dice la scienza, ma è un’evidenza che avevamo già. È esperienza di tutti. Mille volte eseguita nei concerti dal vivo, ma due sono speciali. Live Aid, 13 luglio 1985. Evento-concerto per beneficenza, organizzato da Bob Geldof, in contemporanea a Londra e Philadelphia . Una delle migliori esibizioni in assoluto dei Queen, una delle migliori performance di Freddie Mercury. Non c’era solo il suo pubblico, stava cantando davanti ai fan di tanti altri. Non stava giocando una sola squadra. Freddie diede il massimo. Fu appassionante, si impossessò della scena e poi del pubblico intero. I medici gli avevano detto che non ce l’avrebbe fatta, aveva un forte mal di gola. I Queen venivano da anni complicati, pochi successi, fama e creatività in declino. Ecco che la storia raccontata nel testo di ‘We Are The Champions’ ha trovato lì un momento di intensa verità, di vita vissuta. Freddie Mercury chiuse l’esibizione dei Queen cantandola meravigliosamente bene, per dire ancora una volta “ho fatto brutti errori, ho avuto la mia parte di sabbia gettata in faccia, ma ce l’ho fatta, ho bisogno di andare avanti, siamo i campioni e continueremo a combattere fino alla fine”. La tradizione di chiudere le scalette dal vivo con ‘We Will Rock You’ e ‘We Are The Champions’ è stata osservata anche nel Freddie Mercury Tribute Concert del 1992. Freddie era morto il 24 novembre 1991 a soli 45 anni, nella sua casa di Kensington, per una polmonite e varie complicazioni dovute all’AIDS. Il 20 aprile 1992 ci fu il Tribute Concert. Ovviamente Londra, ovviamente Wembley e oltre 70 mila persone. I Queen privi per sempre di Freddie ma con Annie Lennox e David Bowie, Roger Daltrey e Robert Plant, George Michael, Elton John e Axel Rose. C’era anche Zucchero. Il momento più toccante quando Liza Minelli entrò per chiudere la serata cantando ‘We Are The Champions’. Liza era l’artista più amata da Freddie. Nel famoso tour americano del 1977, Freddie era andato a vedere il musical The Act a New York. Innamorandosi perdutamente della voce e della presenza scenica di Liza Minelli. Ricambiato. Liza diceva le stesse cose di lui. Quella sera a Wembley, durante il brano salirono sul palco tutti gli artisti che parteciparono allo show. ‘We Are The Champions’ è stato il più grande e commovente omaggio mai fatto alla memoria di Freddie Mercury. L’elenco degli eventi sportivi dove durante una premiazione o celebrazione esplodono le note di ‘We Are The Champions’ è tendente ad infinito. C’era ad Antalya alla premiazione in contemporanea dei campioni d’Europa del volley maschile e femminile 2024, Trento e Conegliano. C’era alla premiazione del Real Madrid quando ha sollevato la sua 15esima Champions dopo aver battuto il Borussia nella finale 2024 di Londra . C’era a Berlino per la premiazione del Panathinaikos, vincitore dell’Eurolega 2024. C’era perché c’è sempre. Dagli eventi più grandi a quelli più intimi, il torneo parrocchiale o giovanile, anche quello tra quattro amici al bar. Le emozioni restano intense, la musica è la stessa. Certo, è stata una delle canzoni ufficiali della FIFA World Cup del 1994, il Mondiale americano. E anche la Francia non ne ha potuto fare a meno nel Mondiale di calcio del 1998, al punto che il pezzo era tornato nella top ten della classifica di vendita francese. E nel mondiale tedesco del 2006 ci fu una cover di Crazy Frog, una versione remix elettro-dance dimenticabile, che conservava una parte dell’arrangiamento corale dell’originale dei Queen e che è andata alla grande lo stesso. In Francia è stata per 5 settimane al numero 1 della classifica. Abbiam capito, ai francesi piace tanto ‘We Are The Champions’. Nel 2004 entrò in classifica in Germania una cover eseguita dagli Scorpions, rock band tedesca, con il cantante Michael Kleitman. Era un omaggio a Michael Schumacher, campione del mondo di F1 con la Ferrari per il quinto anno consecutivo, settimo e ultimo mondiale della carriera di Schumy. Nell’occasione il pezzo diventò ‘You are the Champion’. Nel 2006 fu incluso nell’album Stan Up for the Champion, dedicato a Schumacher dopo l’annuncio del suo ritiro dalla F1. Mille volte sentita e mille volte la sentiremo ancora. Freddie Mercury diceva di non riuscire a credere che nessuno avesse mai scritto una canzone in grado di diventare un inno come ‘We Are The Champions’. Qualcosa in grado di celebrare i vincitori e di far cantare uno stadio, di creare un forte senso di partecipazione. Non lo ha ancora fatto nessuno, Freddie. Forse nessuno lo farà mai.