La storia di When We Were Kings, il documentario che racconta 'The Rumble in the Jungle'

“When I started on it, my kids were in grade school. I’m a grandfather now. I’m 60, and I’ve spent more than a third of my life working on this. I can’t even remember when I wasn’t thinking about it, when I wasn’t thinking about Ali”. – Leon Gast, Newsday, 1997 Cinquant’anni di ‘The Rumble in the Jungle’. È cacofonico prima ancora che evocativo: pare quasi di sentirlo incombere, arrivare da lontano, via via sempre più forte, quel brontolio montante del cielo. Con tutta la sua naturale, fragorosa, incontrollabile prorompenza. Come il ‘Rombo di tuono0 breriano per Giggirriva; ma trasposto in mezzo alla giungla. Quella autentica, equatoriale, nel cuore della grande madre Africa. E quella metaforica: d’asfalto, urbana. Rumble: slang metropolitano per rissa di strada fra gang in lotta per il controllo del territorio, il predominio, la sopravvivenza; ma trasposta su un ring. E fra due uomini – prima ancora che pugili e campioni – disposti a tutto, persino uccidere o farsi uccidere, per il mondiale dei pesi massimi in palio allo Stade du 20 Mai di Kinshasa, la capitale dell’allora Zaire, il 30 ottobre 1974. All’inizio Don King, al suo primo incarico da promoter, aveva proposto un calembour che si rifaceva allo schiavismo coloniale, ‘From the Slave Ship to the Championship’ , per far leva sul pubblico, afroamericano e non solo. E magari spaccarlo ancora di più: sul razzismo, come sul conflitto in Vietnam, al cui fronte venivano spediti in grande maggioranza giovani neri delle classi più disagiate. Erano trascorsi appena sei anni dal duplice assassinio di Martin Luther King e Bob Kennedy e nove da quello di Malcolm X. In più, travolto dallo scandalo Watergate in corso ormai da due anni, la sera dell’8 agosto il Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, aveva annunciato per l’indomani le proprie dimissioni per evitare l’Impeachment. Onta nazionale in cui – in due secoli di Unione – era incappato solo Andrew Johnson , e che poi toccherà a Bill Clinton e a Donald Trump due volte . Le ultime truppe USA avevano lasciato il Vietnam il 29 marzo 1973, dunque quasi un anno e mezzo prima che a Nixon subentrasse il suo ex vice, Gerald Ford, ma quel conflitto resterà una ferita mai rimarginata nel tessuto sociale statunitense. Il vento dell’opinione pubblica, sulla spinta delle giovani generazioni, era cambiato da tempo: e ora girava contrario ai militari e, più in generale, agli interventisti. “I was determined to be one nigger that the white man didn’t get”. – Muhammad Ali, 1970 Ali, diventato un martire e un simbolo dell’antimilitarismo, la sua renitenza alla leva l’aveva pagata cara: ritiro del passaporto, revoca del titolo mondiale e sospensione della licenza per combattere nel Paese e in più diecimila dollari di multa. Tre anni di stop, e nel suo periodo potenzialmente migliore. Un po’ come accadde a Gino Bartali e in parte al più giovane Fausto Coppi con lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Come l’allora Cassius Clay ai Giochi di Roma ’60 , anche Foreman era stato oro olimpico, ma a Messico ’68. Solo che George, a differenza di Tommie Smith e John Carlos e pochi altri atleti neri USA, si era ben guardato da qualsivoglia protesta per i diritti civili e sociali: si era limitato a sventolare due mini-bandierine a stelle e strisce. E anche per questo, suo malgrado, veniva percepito come l’opposto di Ali, che invece era “determinato a essere il negro che i bianchi non avevano avuto ”. O la borsa o le vite Sgradito al presidente-dittatore Mobutu il primo slogan, King gli aveva controproposto ‘Rumble in the Jungle’, che di certo l’organizzatore sentiva più familiare se non altro per i suoi controversi trascorsi nelle scommesse clandestine nella natia Cleveland: il 2 dicembre 1954, dopo aver riscosso la posta di puntate illegali e subìto una rapina, nella susseguente colluttazione King aveva ucciso tale Hillary Brown. In tribunale riuscì però a ‘dimostrare’ che, pur portando un revolver di fabbricazione russa mai denunciato, aveva agito per legittima difesa. Il delitto fu derubricato a “justifiable homicide”, nel Codice penale USA una via di mezzo tra il volontario e il colposo, e King fu rilasciato. Il 20 aprile 1966 King partecipò al pestaggio in cui fu ucciso Sam Garrett, un impiegato della sua sala scommesse, per un ammanco di 600 dollari che pare Garrett avesse sottratto dalle casse. L’omicidio fu trasformato in secondo grado e King, scontata la pena da detenuto matricola 6178 al Marion Correctional Institution, nell’Ohio, fu rilasciato sulla parola nel 1972 e graziato nel 1983 dal governatore dell’Ohio, Jim Rhodes, sulla scia di lettere di sostegno del reverendo Jesse Jackson, Coretta Scott , George Voinovich, Art Modell e Gabe Paul. Quanto al suo nuovo slogan, stavolta attecchì. Come accadrà con ‘The Thrilla in Manila’, il forse ancor più brutale Ali-Frazier III del 1° ottobre 1975: secondo Ali, che pure lo aveva vinto, “la cosa più vicina alla morte”. Un altro retaggio, quel claim promozionale per il match filippino, delle famose rime baciate uscite dal ‘Labbro di Louisville’: “…killa and a thrilla and a chilla, when I get that gorilla in Manila”. E un altro dittatore: da Mobutu Sese Seko a Ferdinand Marcos. God Save Don King Flashback. King però aveva un paio di problemini piuttosto stringenti. Il primo era racimolare i soldi, il secondo trovare un posto. Visto che – anche in virtù della sua fedina penale non proprio di bucato – non era gradito che un evento di tale portata venisse organizzato negli Stati Uniti. Era sì riuscito a far firmare ad Ali e a Foreman contratti separati con i quali i due pugili si impegnavano ad affrontarsi per lui nel mondiale dei massimi se fosse riuscito a garantire loro una borsa di cinque milioni di dollari a testa. Una somma enorme per l’epoca, e fuori portata per ogni altro promoter. Il punto è che ancora, quei soldoni, nessuno era disposto a metterceli. King allora cercò all’estero qualcuno disposto a farsi carico della sponsorizzazione e dell’organizzazione dell’intero affare. King, che drittissimi aveva non solo i capelli elettrici ma pure antenne e orecchi, aveva però captato la soffiata giusta. Il gancio lo trovò in Fred Weymar, un consigliere americano di Mobutu, dal 1965 autocrate assoluto dell’allora Zaire, l’ex Congo belga e dal 1997 Repubblica Democratica del Congo. Weymar convinse il presidente-dittatore che il ritorno pubblicitario di un evento di così globale avrebbe aiutato il regime, e così Mobutu – smanioso di ripulire l’immagine del proprio Paese, e di spacciarlo come super potenza moderna e prospera – accettò. In uno speciale di METV dell’8 aprile 2015, alla presenza del giudice Charles E. Williams, King ha dichiarato che anche il dittatore libico Muammar Gheddafi aveva partecipato nel pagamento delle borse per gli atleti e di altre spese principali. Un coinvolgimento, il suo, che ha tuttora – in pieno King-style – molti aspetti oscuri. E destinati a rimanere tali. Il promoter aveva messo insieme un consorzio comprendente la Risnelia Investment di Panamá; la Hemdale Film Corporation, società britannica fondata dal produttore cinematografico John Daly e dall’attore David Hemmings ; la Video Techniques Incorporated di New York e, ça va sans dire, la Don King Productions. La Hemdale e la Video Techniques Inc, di cui King era direttore, erano i co-promoter ufficiali del match, che sarebbe stato trasmesso dalla tv a circuito chiuso nei cinema degli Stati Uniti e via etere in tutto il mondo. La telecronaca venne affidata al ‘colonnello’ Bob Sheridan, come color e analyst commentator vennero chiamati Jim Brown, David Frost e Joe Frazier. Un panel di super esperti e tutti direttamente coinvolti. Brown, ex leggenda tre volte campione NFL e altrettante MVP, aveva partecipato al Cleveland Summit dopo che Ali aveva rifiutato la leva. David Frost, volto popolare televisivo nel Watergate e ben prima del celebre Duello tv del 1977 con Nixon davanti a 45 milioni di americani, aveva intervistato Ali durante il training camp di Deer Lake, in Pennsylvania. E Ali gli aveva detto: “David, ascolta, quando affronterò quell’uomo, se pensi che il mondo si sia sorpreso quando Nixon si è dimesso, aspetta di vedere come ci rimarrà quando farò il mazzo a Foreman”. Quanto a Frazier, chi meglio di lui? L’8 marzo 1971 aveva battuto in 15 riprese Ali per il titolo, e il 28 gennaio 1974 da Ali aveva perso in 12 il match d’esibizione ‘Superfight II’, entrambi a New York e con verdetti per decisione unanime. La ‘bella’ valevole per il mondiale, il terribile ‘The Thrilla in Manila’, si sarebbe disputata il 1° ottobre 1975 a Quezon City e l’avrebbe vinta Ali per KO tecnico alla 14ª ripresa. Ah, postilla: se pensate che il cameo di Frazier che, prima del match, sale sul ring salutare Rocky Balboa e Apollo Creed , vuol proprio dire che davvero credete alle coincidenze. Coraggio da Leon Sistemata la borsa, King però non è che sul resto avesse di che scialare. Una società londinese aveva accettato di pagare le decine di artisti da invitare allo Zaire Music Festival, tra cui star internazionali quali James Brown, Miriam Makeba e B.B. King. Restava da sistemare la questione immagini. Gast, intanto, portandosi dietro il proiettore , si era presentato all’ufficio di King al Rockfeller Center per perorare la propria autocandidatura a girare, su quel festival musicale, un film che poi lui stesso avrebbe montato intervallandolo con spezzoni del combattimento fra Ali e Foreman. Il link con il mondo della musica era essenziale perché King aveva organizzato il match con un imprenditore del settore, Jerry Masucci, che poi avrebbe portato gli artisti della sua principale etichetta discografica, la Fania All-Star, a esibirsi all’evento. King in realtà per il documentario avrebbe voluto un regista nero, ma i lavori di quel giovane regista gli piacquero così tanto che alla fine lo ingaggiò. Ma a una condizione: che Gast si avvalesse di una troupe nera. Deal done, affare fatto. Il giovane filmmaker però non poteva certo immaginare cosa lo stesse aspettando, né come, quanto e fin quando quel progetto lo avrebbe coinvolto. E persino travolto. “Quando ho iniziato, i miei figli andavano alle elementari”, dichiarerà a Newsday nel 1997. Caso vuole, l’anno in cui finì l’èra-Mobutu, e dello Zaire. “Ora sono nonno. Ho sessant’anni e ho passato più di un terzo della mia vita a lavorare su quel progetto. Nemmeno riesco a ricordare quando ancora non ci pensavo, quando ancora non pensavo ad Ali”. Certe storie però non si dipanano mai del tutto per caso. Gast aveva tirato di boxe ai tempi del liceo artistico, alla Henry Snyder High School della sua Jersey City, nel New Jersey. Ed era un ventottenne regista che aveva già diretto un importante documentario, sulla scena musicale latina di New York, quando nel 1974 venne a sapere che Don King, al primo grande evento da promoter, stava organizzando un festival musicale a contorno del match di Kinshasa. Per Gast l’occasione – e poi ossessione – della vita. Una vita a full Gast Leon Jacques Gast era nato a Jersey City, nel New Jersey, il 30 marzo 1936. Il padre Samuel lavorava nel ramo immobiliare, la madre Madeleine Baumann era casalinga. Dopo aver giocato a basket nei Pirates della Seton Hall University, aveva lasciato il New Jersey e si era trasferito alla Columbia, a New York, dove aveva studiato – senza però laurearsi – cinema e fotografia. Le sue grandi vocazioni, e futuri ambiti lavorativi. Trovato lavoro presso un’agenzia pubblicitaria come fotografo di scena, aveva pubblicato su riviste importanti come ‘Vogue’ ed ‘Esquire’. Quando poi l’agenzia aprì una divisione cinematografica, Gast si dedicò alla realizzazione di spot pubblicitari, il primo dei quali fu quello per la pomata Preparation H. Da qualche parte si deve pur cominciare. Già alla fine degli anni ’60 però si allontana dalla pubblicità e si avvicina a quello dell’industria musicale. Disegna copertine di album, realizza cortometraggi. E nel 1972 dirige ‘Our Latin Thing’, un profilo girato in ‘cinéma vérité’ di artisti quali Willie Colón, José Feliciano e Johnny Pacheco. Risale invece al 1977 ‘The Grateful Dead Movie’, un film concerto da lui co-diretto con Jerry Garcia, il chitarrista principale della band per la quale da sempre stravede ‘Coach Zen’, al secolo Phil Jackson. Dopo ‘When We Were Kings’ – oggi un cult ma per due decenni sempre rifiutato – Gast aveva realizzato altri documentari importanti, anche se certo di non comparabile successo: ‘Smash His Camera’ , sul grande fotografo Ron Galella e, per tornare all’antico amore, ‘Manny' sul pugile Manny Pacquiao e diretto a quattro mani con Ryan Moore. Sposato in seconde nozze dal 1991 con Geri Spolan, nel 2005 Gast si era trasferito con lei a Woodstock, dove aveva collaborato al Woodstock Film Festival. Nel 2018 aveva presentato una parte del suo ultimo progetto, un film sulla storia della città. Ma poi età e malattia avevano preso il sopravvento, e di lui si erano presi cura i due figli Daniel e Clifford avuti dal precedente matrimonio, la figlia acquisita Sara Marricco e i sei nipoti. Nonostante i suoi quasi 60 anni di carriera cinematografica, è innegabile però che verrà sempre ricordato per quegli 89 minuti che di solo box office fruttarono 2.789.985 dollari. E comunque una quota irrisoria se rapportata alla audience televisiva-record stimata per il match trasmesso live: un miliardo di telespettatori in tutto il mondo, per un incasso globale di 100 milioni di dollari . “I wanted to establish a relationship between American blacks and Africans. All the time I was there, I’d travel to the jungles, places where there was no radio or television, and people would come up to me, and I could touch them. The fight was about racial problems, Vietnam. All of that”. – Muhammad Ali a 'Newsweek', 1974 La loro Africa Mentre Ali si apriva a pubblico e media, Foreman si isolava sempre più, non rilasciava interviste e non usciva quasi mai dall’hotel. E in quelle rare volte aveva ripetuto lo ‘sbaglio’ commesso in conferenza stampa l’11 settembre all’aeroporto di Parigi-Orly: presentarsi con Dago, il suo adorato pastore tedesco. Gaffe, col senno del durante e del poi, esiziale: quella era la razza dei cani usati dalle truppe coloniali del re Leopoldo II contro la popolazione locale nell’allora Congo belga. Una ferita ancora aperta, tanto più che erano trascorsi solo dodici anni da quando lo Zaire aveva ottenuto l’indipendenza. E certo nell’immaginario collettivo afroamericano nessuno aveva scordato i notiziari tv con le immagini dei disordini con i cani aizzati dalle forze di polizia per disperdere i manifestanti per i diritti civili negli anni Cinquanta-Sessanta. Di lì, e per molto altro, il terribile coro di “Ali! Ali! Bomayé!” che avrebbe inseguito e perseguito Foreman per tutte quelle interminabili sei settimane. Tra l’altro, scegliendo per il cane il nome Dago – uno degli epiteti più spregiativi usati in Nord America per indicare una persona di origine latina, soprattutto italiana, spagnola e portoghese – Foreman in un sol colpo s’era inimicato intere generazioni di immigrati . Anche se, stando allo stesso Foreman, all’epoca nessuno se l’era presa particolarmente vedendolo arrivare con quel cane. “Certo, avevo dei pastori tedeschi – dichiarò poi Foreman al Washington Post – Il bello è che quando nel 1974 sono andato in Africa e avevo con me quel grosso pastore tedesco, tutti dicevano: ‘Oh, no, non dovrebbe portare quel cane in quel Paese’. Ma ero tipo: non vado da nessuna parte senza il mio cane. Mi faceva compagnia per passeggiare o per andare a correre. Perso il match, ho perso anche tutti i miei amici, tranne il cane. Ma gli africani lo adoravano quel cane. La gente diceva che non avrei dovuto portarlo a causa di chi il Paese lo occupava. E io rispondevo: ‘Senti, amico, questa gente ha le iene e i leoni. Non credo avrà paura di un cane’”. E dire che lo stesso Ali neanche un anno prima, il 1° dicembre 1973, durante il training camp di Deer Lake, in Pennsylvania, si era fatto fotografare in posa scherzosa mentre a torso nudo, indossando pantaloni lunghi e scarpe da passeggio, usava come sparring un pastore tedesco di nome… Joe Frazier. “The time may have come to say goodbye to Muhammad Ali, because very honestly I do not think he can beat George Foreman”. – Howard Cosell, ABC Sports “You ain’t got no punch, you phoney. Show me something, sucker. Sucker, is that all you got? Is that the hardest you can hit?” – Muhammad Ali a George Foreman Apologia del Rope-a-dope Il match inizialmente era stato fissato per il 25 settembre, e doveva essere preceduto da quella tre giorni di festival. Ma otto giorni prima dell’incontro, il 17, durante un allenamento con uno sparring, Foreman si era ferito a un’arcata sopraccigliare: undici punti di sutura, e match rinviato di sei settimane. Al 30 ottobre. Alle 4 del mattino locali per favorire il prime time televisivo negli Stati Uniti. Mobutu, per timore che il ‘Rumble’ se lo accaparrasse qualche altra giungla, magari di cemento, impedì ai due pugili e ai relativi entourage di lasciare il Paese. E i mezzi per essere persuasivo certo non gli mancavano. Con un’attesa così lunga, tanti appassionati venuti per l’incontro e giornalisti al seguito se ne andarono, ma Gast rimase. Forse perché aveva subodorato la portata dell’evento storico, o – più giornalisticamente – sentito l’odore del sangue un mese e mezzo prima che sul ring venisse versato. Foreman, l’imbattuto campione in carica, a 25 anni era nel prime della carriera. Alì, lo sfidante, a 32, era considerato già in declino e comunque troppo vecchio, appesantito e imbolsito per resistere a ‘Big’ George: sin lì con un quasi marcianesco 40-0 in carriera, e ben 37 ko. “Forse è arrivato il momento di dire addio a Muhammad Ali perché in tutta onestà non credo possa battere George Foreman”, disse in tv Howard Cosell, telecronista della ABC e pure suo grande ammiratore, in una delle ‘ultime parole famose’ più clamorosamente sconfessate nella storia dello sport. Cosell però era in nutrita e qualificata compagnia. Foreman era dato favorito 4 a 1, ma Gast aveva fiducia in Ali, quotato 3 a 1 e scommise 100 dollari con il giornalista e scrittore Hunter Stockton Thompson. Ancora una volta il regista ci aveva visto lungo, ma la sapeva anche più lunga. Alì si era vantato per settimane di come avrebbe ‘danzato’ sul ring per sottrarsi alla potenza di Foreman. E alla distanza la sua in apparenza suicida tattica del ‘rope-a-dope’ , invece funzionò: una volta sfiancato il pur più giovane avversario, Ali sferrò il colpo del ko. E fra lo stupore di un miliardo di telespettatori, il re del mondo si riprese la corona dei massimi. E quell’espressione, resa popolare da John Condon, un pubblicitario che l’aveva ripresa da una risposta di Ali al fotografo George Kalinsky durante un allenamento, era diventata il claim del trionfo. “Wow, it’s a miracle for us. This is a film about an incredible man, And it was directed by a man with a great heart – Leon Gast”. – David Sonenberg, discorso agli Oscar 1997 La notte dell’Oscar Nell’introdurre le nomination, Tommy Lee Jones che co-conduce con Will Smith, riesce a rimanere serio nello spiegare la “delicate difference between Documentary Short Subject and Documentary Feature. That difference is… length”. ‘When We Were Kings’ di Leon Gast e David Sonenberg, citato per ultimo, vinse su: ‘The Line King: The Al Hirschfeld Story’ di Susan Warms Dryfoos; ‘Mandela’ di Jo Menell e Angus Gibson; ‘Suzanne Farrell: Elusive Muse’ di Anne Belle e Deborah Dickinson ‘Tell the Truth and Run: George Seldes and the American Press’ di Rick Goldsmith. Presentato in anteprima nel gennaio 1996 al Sundance Film festival ideato da Robert Redford, ‘When We Were Kings’ ottenne una nomination, un premio speciale per Gast, coautore del montaggio con Taylor Hackford, Jeffrey Levy-Hinte e Keith Robinson. Uscito ufficialmente il 25 ottobre 1996, è stato prodotto dalla PolyGram Filmed Entertainment e alla fine distribuito dalla Gramercy Pictures. Oltre all’Oscar, nel 1997 ha vinto il premio di Miglior documentario della Broadcast Film Critics Association, dell’Independent Spirit per la sezione ‘Truer Than Fiction’ e della National Society of Film Critics. Nel 1996 erano arrivati quelli della Los Angeles Film Critics Association e della New York Film Critics Circle. Un trionfo continentale, da una Coast all’altra. Ma pochi sanno, o ricordano, come arrivò. Tornato a New York per montare il film, Gast si trovò in difficoltà. Le vendite dei biglietti del festival musicale avrebbero dovuto coprire i costi di produzione, ma dopo che il match era slittato di sei settimane, Mobutu aveva permesso l’ingresso gratuito allo Zaire Music Festival per accrescerne l’affluenza. Gast così non riuscì nemmeno a recuperare i 300 mila metri di pellicola che aveva girato. La società con sede a Londra che, secondo King, avrebbe finanziato il progetto, si rivelò una copertura per una società di comodo con sede nelle Isole Cayman e di proprietà di Stephen Tolbert, il ministro delle Finanze liberiano. Gast allora volò in Liberia nel tentativo di recuperare almeno una parte di quei soldi, ma prima che potessero concludere l’accordo, Tolbert morì in un incidente aereo. Quando si dice tragiche coincidenze. L’avvocato di Gast, David Sonenberg, fece causa a un tribunale britannico e dopo un anno Gast ebbe finalmente il suo girato, oltre a ore e ore di audio, ammucchiati nelle stanze e lungo i corridoi del suo appartamento nell’Upper West Side di Manhattan. Quello che ancora non aveva erano i soldi per produrre il film, e così si dedicò a una serie di altri progetti. Fra questi, un film commissionatogli dagli Hells Angels che ne ripulisse per immagini la reputazione di criminali violenti. Immagine peraltro subito compromessa quando alcuni di loro le suonarono perché si era rifiutato di concedergli il controllo editoriale. Il film, ‘Hells Angels Forever’, diretto con Richard Case e Kevin Keating e uscito nel 1983, fu poi assai criticato. Lo stesso Gast, però, non è che fosse proprio candido come un giglio. Una notte del giugno 1979, con almeno altri quattro complici , stavano aspettando in un aeroporto vicino a Charleston, nel West Virginia, un aereo-cargo che contrabbandava dieci tonnellate di marijuana dalla Colombia. L’aereo però si schiantò all’atterraggio, e riversò il suo contenuto su una collina. Arrestato, Gast si dichiarò colpevole e fu condannato a cinque anni di libertà vigilata e multato di 10.000 dollari. Nel 1989, dopo anni di rapporti complicati, Gast riallacciò i contatti con Sonenberg, che nel frattempo era diventato un manager musicale di successo. Gast lo convinse a lasciargli carta bianca sul resto del processo di produzione e persino a permettergli di usare come studio una stanza della sua casa di Manhattan. Leon era ancora convinto di incentrare il film sul festival, ma un giorno la star dell’hip-hop Wyclef Jean, uno dei cantanti dell’etichetta di Sonenberg, era in studio mentre Gast stava montando una clip di Ali. Jean ne rimase estasiato e chiese di poter vedere molte altre parti del girato. Alla fine, Sonenberg e Gast si decisero a rimontare il documentario stavolta focalizzandosi sui pugili, e lasciando lo Zaire Music Festival a fare – alla lettera – da sottofondo. Coinvolsero il regista Taylor Hackford, che non solo contribuì al montaggio ma condusse le interviste al collega Spike Lee e ai celebri giornalisti e scrittori George Plimpton e Norman Mailer, due dei pochi inviati rimasti a Kinshasa anche nelle sei settimane di rinvio del match. Nel 1975, da quei suoi reportage Mailer aveva tratto ‘The Fight’, romanzo non-fiction sui fatti di quel match epocale. Scritta col passo del grande romanziere, il ritmo del cronista sul campo e, da ex pugile amatoriale, la conoscenza diretta della materia, è forse la sua opera più nota. Di sicuro più diffusa anche delle due premiate col Pulitzer: nel 1969 per ‘Le armate della notte’, resoconto della marcia sul Pentagono del 1967 e che lo aveva visto in prima fila; nel 1980 per ‘Il canto del boia’, la storia del primo statunitense giustiziato nel 1977 dopo la decennale sospensione della pena capitale. Il titolo ‘When We Were Kings’ è merito di Sonenberg, che voleva un nostalgico riferimento alle star della musica e dello sport presenti per l’evento. E fu di Sonenberg anche l’idea per la colonna sonora, chiesta a Wyclef Jean e al suo gruppo, i Fugees. Jean, in fondo, con quell’inversione a U sul focus del film , se l’era più che guadagnata. Neanche lo stesso Ali lesinava suggerimenti. “Un giorno Muhammad ci disse: ‘Al mattino, quando corro, giro quell’angolo con il sole e il fiume dietro di me’ – raccontava Gast al New York Times nel 1997 – ‘Metti la cinepresa laggiù. Verrà un’ottima inquadratura’. Aveva ragione. Era un’ottima inquadratura”. Quando erano re Ventidue anni di lavoro – e finanziamenti più o meno torbidi inseguiti, promessi e rigettati – per portarlo alla luce. Il progetto – e sogno realizzato – della vita dell’uomo che più di tutti non ha mai smesso di crederci. Attraversate ogni genere di peripezie, una società di comodo liberiana e persino un affare di droga finito in tragedia, alla fine Gast ce l’aveva fatta. Portando a termine ‘When We Were Kings’ non solo aveva realizzato il sogno di una grossa fetta della sua vita, ma pure vinto l’Oscar. E alla cerimonia di consegna degli 69th Academy Awards, il 24 marzo 1997 allo Shrine Auditorium di Los Angeles, con la mitica statuetta in mano aveva posato in smoking accanto al suo produttore esecutivo David Sonenberg e i protagonisti Foreman e Muhammad Ali. Con ‘The Greatest’ già tremolante per il Parkinson, come già era apparso live otto mesi addietro, il 19 luglio 1996, accendendo in mondovisione il braciere olimpico ai Giochi di Atlanta. Più ancora che l’ovvia emozione successiva al momento del classico “And the Oscar goes to…” , a infiammare la platea era stato un momento particolare: Ali che si alza per unirsi al Gast e Sonenberg nel ritirare il premio. Foreman, un tempo la sua nemesi sul ring, gli va dietro e lo accompagna. E vedendolo in difficoltà, gli prende il braccio e lo aiuta a salire sul palco. Il pubblico è tutto in piedi che applaude, e la camera va pescare gli sguardi di Nicholas Cage, Tim Robbins, Jodie Foster, Kevin Spacey, Wynona Rider, Quentin Tarantino, James Woods che scuote la testa incredulo, persino un sobrio Dennis Rodman. Tutti se non commossi, quasi. Soltanto per il codice d’onore intrinseco della boxe poteva accadere: quei due uomini che ventitré anni prima erano saliti su un’altra ribalta – un ring montato al centro di uno stadio all’aperto, sotto una gigantografia del dittatore Mobutu e davanti a 60 mila spettatori e con oltre 100 Paesi collegati –pronti a uccidere o uccidersi per il titolo, erano diventati fratelli per la vita. Che cos’altro avrebbe potuto desiderare, e ottenere, di più Leon Gast nella sua straordinaria esistenza? Forse un 'happy ending' più hollywoodiano e meno newyorkese. Leon si è spento a 84 anni, l’8 marzo 2021 nella sua casa di Woodstock, per complicazioni legate al morbo di Alzheimer. Crudele legge del contrappasso, offuscarne i ricordi, per uno che aveva dedicato così tanta vita alla memoria di un’epoca e di un’epopea irripetibili. Di quando erano – sì, anche lui – re.

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