La vita degli altri: quando 'giustizia' nello sport diventa un concetto labile

Cos’hanno in comune il neo ‘Head of Global Soccer’ di Red Bull Jurgen Klopp, il tennista australiano Nick Kyrgios, quello cileno Nicolas Jarry, l’allenatore del Fenerbahce José Mourinho, il presidente dell’Atletico Madrid Enrique Cerezo e il proprietario del Milan Jerry Cardinale? Poco, forse nulla, se non la circostanza di essere stati gli ultimi in ordine cronologico a occuparsi di vicende che non li coinvolgono direttamente, alimentando un acritico senso di appartenenza sia in quella parte dell’opinione pubblica vicina ai bersagli delle loro dichiarazioni, sia in quella avversa. Klopp, durante la conferenza stampa nella quale si presentava come nuovo responsabile di tutto il settore calcistico targato Red Bull, non ha resistito alla tentazione di pungere il Manchester City, da mesi coinvolto in una complessa investigazione scaturita dal cosiddetto ‘Football leaks’ e che nella prossima primavera potrebbe sfociare in una sentenza epocale: “Se il City sarà condannato inviterò tutti a casa mia a Monaco. Compro la birra e la sfilata la farò nel mio giardino”. Kyrgios alla vigilia degli Australian Open ha attaccato pesantemente Jannik Sinner in relazione alla vicenda ‘Clostebol’ per la quale il tennista italiano è in attesa di sentenza da parte del Tas: “Se davvero, come dice, non ha fatto nulla di male, perché l’udienza di aprile sarà a porte chiuse? “. E poi, per rendere ancora più esplicita la sua opinione, ecco i post al vetriolo, tra cui quello in cui ha commentato una foto pubblicata da Sinner in compagnia di Cruz Hewitt con un tranciante “foto contaminata!”. Jarry è intervenuto sulla stessa questione per marcare “la differenza di trattamento” tra il suo caso, che comportò la sospensione di un anno prima di poter provare definitivamente la contaminazione non dolosa di due sostanze dopanti, e quello dell’italiano che, invece, continua a giocare in attesa della sentenza: “Mi sarebbe piaciuto lo stesso supporto che ha ricevuto lui, quando è successo a me. È una cosa che non riesco a superare”. Mourinho ha usato i social e il sarcasmo per attaccare ellitticamente il Galatasaray riguardo un episodio legato alla partita che la squadra rivale ha giocato contro il Basaksehir: di fronte alle immagini di un intervento violento in area per il quale l’arbitro non ha concesso un calcio di rigore, né tantomeno preso provvedimenti disciplinari nei confronti del difensore del Gala, si è rivolto all’attaccante Crespo, peraltro uscito dal campo dopo quel contrasto, scrivendo: “Spero che la tua tibia sia di carbonio”. Cerezo ha emesso un duro comunicato all’indomani della decisione del Consiglio Superiore dello Sport, organo governativo spagnolo, di sospendere l’esclusione di Dani Olmo e Paul Victor dalla lista dei tesserati del Barcellona come invece aveva disposto l’organismo sportivo deputato al controllo del rispetto delle regole del fair play finanziario: “Lo riteniamo un precedente pericoloso che mette a repentaglio tutto il sistema. Perché legittima l’aggiramento delle regole senza le quali non esiste una competizione leale”. Infine Cardinale che, nel corso di un evento negli Stati Uniti, ha usato l’Inter come paradigma di scorretta gestione finanziaria: “Hanno vinto lo scudetto per poi fare bancarotta. Noi non vogliamo seguire quella strada”. Cominciamo col dire che qualsiasi sistema sociale, sia esso uno Stato Nazionale o il circolo del bridge di Cinisello Balsamo, si regge su norme comportamentali condivise, concepite allo scopo di generare equilibrio tra i soggetti che lo compongono in tema di diritti, doveri, libertà individuali. In altre parole ogni organismo sociale si regge sul principio di giustizia. E dunque è perfettamente comprensibile e legittimo che i singoli esprimano opinioni o rivendicazioni riguardo a quelle violazioni che, commesse da altri, abbiano ricadute indirette sul corpo sociale. Tanto più laddove i singoli componenti del sistema siano messi per definizione in competizione tra loro, come nello sport. Se dunque è corretto lamentarsi dell’evasione fiscale in quanto fenomeno che rompe l’equilibrio sociale producendo diseguaglianze e costringendo chi paga a sobbarcarsi l’onere di chi sfugge al fisco, allo stesso modo nello sport è legittimo lamentarsi di un comportamento altrui che violi i principi di giustizia conferendo a un competitore un vantaggio illegittimo. E allora perché ogni intervento pubblico di questo tipo lascia in molti osservatori la sensazione di un’indebita intromissione in fatti altrui, quasi che chiunque si occupi di vicende che non li riguarda direttamente diventi una sorta di impiccione che dovrebbe restare al suo posto? Perché emerge il sospetto che chiunque si occupi delle ‘vite degli altri’ evochi il capitano della Stasi Gerd Wiesler, protagonista dell’omonimo film del 2006 impegnato a spiare l’intellettuale Georg Dreyman per carpirne pensieri e comportamenti eventualmente in contrasto con il regime della Germania Est? In primo luogo occorre depurare ogni presa di posizione da quelle variabili che potrebbero rendere meno nobili le finalità censorie: è noto infatti che nelle esternazioni di Mourinho ci sia spesso una componente strategica, studiata per creare pressione agli avversari e/o distogliere il mirino dell’opinione pubblica da situazioni differenti. Così come, secondo alcuni commentatori, l’idiosincrasia di Kyrgios per Sinner sarebbe ispirata più da questioni di cuore che dall’invocazione del principio di giustizia, visto che il tennista italiano frequenta la sua ex fidanzata. O ancora l’intemerata madrilena sul Barcellona apparterrebbe più alla dimensione dell’ancestrale rivalità tra Castiglia e Catalogna che alle dispute di diritto. E così via. Il sospetto, cioè, che le ragioni più profonde di certi attacchi appartengano alla sfera personale e culturale contamina l’analisi rendendola preda del ‘tifo’ e della faziosità. Bene. Occorre dunque scollare questa patina maliziosa che, almeno in parte, può spiegare la divisione dell’opinione pubblica in colpevolista e innocentista. E rivolgere lo sguardo semplicemente alla parte concettuale e ideale del principio di giustizia. La giustizia ha molti abiti e declinazioni: da Aristotele a Locke si è teorizzata la giustizia distributiva , quella commutativa o correttiva , la giustizia retributiva , quella punitiva o repressiva, quella procedurale eccetera. I filosofi e giganti del pensiero che si sono succeduti nelle varie epoche hanno insomma cercato una definizione, una teorizzazione e una armonizzazione del suo concetto con la realtà del mondo, spesso imbattendosi in principi contrastanti e inconciliabili. Soprattutto laddove si scontrano i mondi della giustizia secondo la legge e quella al di là della legge , quello del giuspositivismo e quello del giusnaturalismo fino alle dimensioni del collettivismo e dell’individualismo. Non è questa la sede per una disamina storico/filosofico/politologica del concetto di giustizia. E tuttavia forse giova ricordare che è dal ‘contratto sociale’ di Hobbes e dalla separazione dei poteri di Locke e Montesqiueu, alla base degli Stati di diritto, che la nostra cultura è permeata dalla convinzione che debba esistere un’autorità deputata all’elaborazione di norme il più possibile condivise, un’altra deputata a eseguirle e un’altra ancora deputata a intervenire qualora vengano violate. Autorità autonome e bilanciate, formate da competenze specifiche e generate da meccanismi trasparenti. In forza dei quali è possibile demandare democraticamente le decisioni che impattano sulla vita di tutti. Certo, ogni legge e ogni sentenza è opinabile e criticabile laddove esista la libera espressione del pensiero. Tanto più che, come ha ben dimostrato Montaigne, la giustizia evolve e cambia a seconda delle convinzioni culturali e delle epoche storiche, configurandosi come un corpo vivo ben lontano dalla figura del monolite immutabile. E l’esistenza del diritto naturale o della Grundorm di Kelsen non sposta di molto la questione, ponendo come immodificabili solo pochi princìpi da cui tutto origina. Dunque occorre affidarsi alla forza delle leggi e alla competenza di chi è chiamato ad applicarle per regolare i rapporti sociali secondo giustizia. Ed è probabilmente questo virtuoso substrato culturale a generare la sgradevole sensazione che chi, senza conoscere i fatti nei loro minimi dettagli, intervenga a invocare un principio di giustizia prima ancora che questa si sia incarnata in una sentenza stia commettendo un’invasione di campo poco rispettosa. Con la sua battuta Klopp ha già esposto la ‘sua’ sentenza. E così Kyrgios o Cerezo. Jarry al contrario si esprime su ciò che è già opinabile perché fissato nella storia e sottolinea una frattura nel principio di giustizia distributiva che invece comporterebbe procedure analoghe per casi analoghi. Ma non può avere piena contezza delle eventuali differenze sostanziali e/o procedurali che eventualmente rendano differente il caso di Sinner, limitandosi a farne una questione di amarezza personale. Umanamente comprensibile, ma non necessariamente aderente ai principi di giustizia. Mourinho evidenzia un’ingiustizia evocando favoritismi, in un gioco delle parti che tuttavia non è nuovo, comune a tanti suoi colleghi e sostanzialmente innocuo dal punto di vista dell’erosione della credibilità di un intero sistema, perché basato sulla partigianeria. Cardinale, infine, non invoca nemmeno principi di giustizia formale o sostanziale, limitandosi a un’ineccepibile analisi gestionale e scivolando semplicemente nell’inopportunità di utilizzare, come modello negativo, una società rivale delle cui vicissitudini non conosce abbastanza . Quella che insomma sembra una marmellata di ingerenze nelle vite degli altri costituisce un ventaglio di situazioni peculiari, a volte del tutto dissimili tra loro. Ma tutte riconducibili a un’unica matrice: il dubbio che la giustizia sia manipolabile, poco credibile e malleabile dal potere. Circostanza che legittima una protesta preventiva, a volte feroce, che prescinde dall’esito giuridico e che sposta la questione sul piano etico. Il tutto in un quadro storico in cui la comunicazione social elimina i filtri appiattendo le competenze, e in cui le distorsioni sociali aumentano la sfiducia in chi dovrebbe garantire l’applicazione dei principi di eguaglianza e giustizia. In definitiva questa sorta di ingerenza sembra essere un segno dei tempi. La prudenza, il rispetto della forma e dei meccanismi istituzionali, lascia il campo al libero giudizio. Non importa quanto argomentato o approfondito, perché in fondo l’approssimazione è già insita in una giustizia interpretata ad usum delphini, a seconda delle circostanze e dei personaggi coinvolti. Dunque occuparsi della vita degli altri diventa l’unico modo per affermare le proprie convinzioni sul loro comportamento e sul relativo impatto sociale, visto che il meccanismo deputato a determinarne la correttezza è logoro e inaffidabile. Ma per completare il quadro è probabilmente necessario affrontare un altro tema. Quello del tasso di individualismo e di collettivismo di una società in una determinata epoca. Entrambe le tendenze, se portate all’estremo, portano a esasperazioni sociali inaccettabili: una visione del mondo del tutto informata a principi egoistici da una parte, l’innaturale cancellazione delle differenze, venata di autoritarismo, dall’altra. E tuttavia la loro miscela può produrre una desiderabile armonia. Nell’individualismo è connaturato il concetto che il rapporto con la giustizia prescinda in larga parte dal comportamento altrui. Tra l’individuo e la giustizia esiste un rapporto forte e diretto, che attiene all’aderenza del suo specifico comportamento alle norme del ‘contratto sociale’. Ma il rischio è il completo disinteresse della salute del corpo sociale nel suo complesso. In altre parole, ci si comporta bene ma non ci si confronta e non ci si cura della collettività: non si vìola la legge, ma si perde la capacità di indignarsi e impegnarsi socialmente quando la legge viene violata nei confronti di altri. Oppure la si vìola, egoisticamente, pretendendo che gli altri si facciano i fatti loro . D’altra parte nel collettivismo è connaturato il senso civico, perciò la giustizia attiene alla felicità del corpo sociale più che a quella dell’individuo. Si mantengono i valori solidaristici e si pone attenzione alla comunità, ma il rischio è quello di disinteressarsi delle singole aspirazioni e delle peculiari caratteristiche dei singoli, lasciandoli alla deriva quando non si armonizzano o non si conformano. Senza contare che il continuo confronto con le altre tessere del tessuto sociale può produrre un’ulteriore distorsione perché il comportamento dannoso di una fetta significativa della collettività può indurre la legittimazione all’emulazione in chi tendenzialmente si comporta correttamente . E che c’entra tutto questo con la supposta ingerenza nella vita degli altri da parte di chi invoca principi di giustizia puntando il dito su una determinata fattispecie? C’entra. Perché individualismo e collettivismo incidono sull’ampiezza dei confini destinati a misurare la liceità di intervento su questioni di giustizia che riguardano gli altri. Un po’ come succede agli studenti che a fine anno si ritrovano davanti ai tabelloni su cui sono esposti i voti. La loro parte individualistica li porterà a valutare esclusivamente il metro di giustizia usato nei loro confronti nel rapporto tra la valutazione e l’impegno/rendimento mostrato durante l’anno. La loro parte collettivista li indurrà a raffrontare questo metro con quello utilizzato nei confronti dei colleghi. In entrambi i casi, di solito, l’operazione si conclude con la certezza che la giustizia umana sia solo il luogo dove si manifesta l’ingiustizia più insopportabile. Ma questo tutto sommato non rileva. Ciò che conta è il metodo. Perché probabilmente in una società che voglia definirsi civile occorre coltivare quel tanto di individualismo che consenta di rapportarsi rettamente con la giustizia e quel tanto di collettivismo che porti al desiderio di un equilibrio sociale il più possibile armonico. Ecco perché non è uno scandalo occuparsi della vita degli altri. A condizione di farlo onestamente, nell’interesse non esclusivamente proprio ma della collettività. Pretendendo giustizia, certo. Ma rispettando storie e meccanismi. Perché come nel film di Von Donnesmarck, conoscere le vite degli altri può portare, pirandellianamente, a ribaltare le nostre verità.

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La vita degli altri: quando 'giustizia' nello sport diventa un concetto labile

Alessandro Biolchi