Maurice Tillet era un vero orco gentile: chi era il wrestler che ha ispirato Shrek

Intorno alla metà degli anni ’80 dello scorso millennio, nella vivace e multicolore New York, l’artista William Steig, fra le tante cose anche illustratore specializzato nella letteratura per ragazzi, era alla ricerca di un’idea nuova per rinverdire gli antichi fasti che nel 1970 gli avevano consentito di aggiudicarsi con pieno merito la prestigiosa Medaglia Caldecott, consegnatagli dall’Association for Library Service to Children, il premio Usa più importante - insieme alla Medaglia Newbery - per i professionisti del settore. All’epoca Steig era riuscito a imporsi grazie all’opera ‘Sylvester and the Magic Pebble’, scritto, illustrato e pubblicato nel 1969, nel quale raccontava la storia di Silvestro, un giovane asinello collezionista di sassi, che un giorno ne trova uno dai poteri magici e, imbattutosi in un leone, esprime un desiderio dal quale derivano avventure incredibili. Un po' a corto di idee, Steig saltabellava fra giornali, libri e televisione. Frequentava mostre e ristretti gruppi di amici, in gran parte figli di immigrati polacco-ebrei come lui e altrettanto appassionati di polo e di cavalli. In mente l’ultima cosa che potesse balenargli era il catch, la lotta libera americana, già evolutasi nel catodico e più spettacolare wrestling. Ma si sa, quando ci si annoia, si incontra gente a volte nuova e se si è curiosi per natura, si finisce con il non sottrarsi a nulla. Neppure a combattimenti combinati e coreografici che per lo show propongono personaggi pittoreschi e dai nomi fantasiosi, come Mr.T, Junkyard Dog, Brutus Beefcake, André the Giant, o autentici oggetti di culto, come Hulk Hogan. In particolare, la struttura di André the Giant lo ispirava molto, un francese, al secolo Roussimoff, alto due metri e ventiquattro per 236 chili di peso. Iniziò così a tratteggiare un personaggio dalle linee esasperate, un po' sgraziate, gigantesche, ma ancora non convinto delle potenzialità del suo nuovo ‘prodotto’, Steig incominciò a documentarsi sui ‘catchers’ di ogni epoca, sentendo di essere sulla strada giusta, di poter incontrare l’illuminazione giusta fra le pagine e le fotografie di atleti muscolarmente ipersviluppati, magari potenziatisi in maniera assai artigianale e perciò forse poco ortodossa, poco naturale, scarsamente armonica e dalla quale trarre ispirazione. E nel periodo precedente alla Seconda Guerra Mondiale si imbattè nelle fotografie di un wrestler russo-francese nato nel Governatorato di Orenburg, un oblast dell’area dei Monti Urali, in pieno Impero Russo, poi trasferitosi in Europa e dalla fisionomia decisamente particolare e infelicemente goffa. Il lottatore era alto solo un metro e settanta, pesava ben centoventidue chili. A guardarlo bene veniva quasi da pensare che gran parte di quel peso gli derivasse dalle dimensioni del cranio: enormi. Ma nonostante il suo aspetto imponente e il volto che poteva incutere timore, quell’uomo -a giudicare dai resoconti - era una persona sorprendentemente colta e gentile. Era un eccellente giocatore di scacchi e si distingueva per la sua modestia e il suo atteggiamento amichevole. E pare parlasse addirittura ben quattordici lingue. Nato nel 1903, aveva solo quattro anni in più di Steig, ma era morto precocemente una trentina di anni prima. Con i genitori aveva lasciato la Russia nel 1917, dopo gli sconvolgimenti della rivoluzione che rovesciarono l’Impero zarista di Nicola II portando al governo provvisorio del principe Georgij Evgen'evič L'vov. L’uomo si chiamava Maurice Tillet e non faticò affatto a diventare al botteghino dei ring di lotta una vera e propria attrazione, all’inizio più per le sue sembianze che per la qualità tecnica espressa nei combattimenti. E per due volte riuscì a laurearsi campione del mondo dei pesi massimi dell’American Wrestling Association che il promoter Paul Forbes Bowser aveva messo in piedi nel 1930. La prima volta sconfiggendo la ‘stella’ del circuito Steve ‘Crusher’ Casey, il 13 maggio 1940. Eppure Maurice non era stato sempre così. Da piccolo non aveva zigomi e mascella così grandi, naso così largo e cranio stretto, né orecchie a sventola. Tanto che lo avevano soprannominato ‘l’angelo’. Il papà era un ingegnere francese appassionato di rugby, impegnato con i lavori di costruzione della Transiberiana. E fino ai diciassette anni la vita di Maurice era stata serena. Poi però gli venne diagnosticata una acromegalìa, una rara malattia endocrina causata da una eccessiva produzione dell’ormone della crescita durante l’età adulta, spesso causata dalla presenza di un tumore benigno nell’ipofisi. E da quel momento la sua esistenza era mutata radicalmente. Il fisico aveva iniziato a svilupparsi in maniera abnorme e i caratteri del volto ad alterarsi in maniera irreparabile e inarrestabile. Maurice in Francia continuò a studiare, frequentando l’Università di Tolosa e laureandosi in giurisprudenza e lavorando poi per la Marine Nationale Française. Quindi si dedicò alla palla ovale con la società del Tolone, nel quale militò per due stagioni dal 1930 al 1932. Finché non si imbatté in Carl Pojello, nato in Russia come Karolis Požėla, nella contea di Šiauliai, oggi Lituania, ed emigrato negli Stati Uniti. Požėla, americanizzato in Pojello, era un ex wrestler diventato promoter. Le fattezze ormai ‘freak’ di Maurice Tillet lo avevano conquistato. Era convinto che avrebbe potuto trasformarlo in un perfetto richiamo per le folle, all’epoca affascinate dai fenomeni da baraccone, attrazioni da fiera offerte da deformazioni fisiche e capricci di natura . Un acromegalitico ci stava bene, specie se poi combatteva su un ring. Era la società del tempo, per nulla sensibile alle reali sofferenze dei più deboli o di chi – sfortunato - veniva esibito come un ‘prodotto bizzarro e straordinario’ e non come un essere umano bisognoso di aiuto e di assistenza sanitaria e soprattutto psicologica. Maurice Tillet accettò ugualmente, attirato dalla possibilità di poter guadagnare dei soldi più facilmente e in modo più continuo e iniziò così a combattere in Francia, fino ad approdare a Boston e incrociare poi la sua strada - come detto - con quella di Bowser. Dopo la vittoria del titolo Awa, rimase campione in carica per 19 mesi prima di perdere la corona e poi riconquistarla. Segno che Tillet era prima di tutto un ottimo atleta. A partire dal 1945, però, la malattia cominciò a progredire più velocemente e incidere sul suo stato di salute e così Maurice fu costretto a limitare i suoi incontri. Oramai del viso di bambino innocente che aveva da piccolo non era rimasto più nulla. Dai venti anni in avanti i gonfiori a piedi, mani e soprattutto testa erano diventati incontrollabili e i farmaci non avevano più nessun effetto contrastante. La sua voce profonda non lo aveva aiutato neppure sotto il profilo professionale, la carriera di ingegnere a bordo di sommergibili militari si era arenata presto e solo i combattimenti erano rimasti per dare sfogo a impotenza e rabbia sempre crescenti. Quell’incontro a Singapore con Pojello, il successivo cammino con Bowser di certo gli regalarono momenti amari ma anche di popolarità e in parte servirono a lenire la frustrazione per una vita difficile datagli in sorte dal caso. Soprannominato ‘The French Angel’, Tillet venne a lungo considerato un wrestler imbattibile, ma col decadimento fisico iniziarono anche i primi cedimenti sul ring, fino a quell’incontro tenutosi a Singapore, proprio là dove tutto era in fondo nato. Accadde il 14 febbraio del 1953 nella ‘National Wrestling Alliance Mid South Area’, allora nota come ‘Tri-State’. La location era di proprietà di Leroy Michael McGuirk, un altro ex wrestler inventatosi promoter nato in Oklahoma. Non tutte le attività di McGuirk pare fossero pulitissime, fatto sta che impiegò poco tempo per diventare ricco e potente e rimase per lungo tempo nel giro. In quell’occasione offrì a Maurice una ‘borsa’ sostanziosa - Tillet era al tramonto e già faticava a combattere - a patto che però perdesse il suo match. E così fu. L’incontro ‘combinato’ ebbe luogo e lo vinse Bartolomeo ‘Bert’ Assirati, un lottatore inglese di lontane origini italiane, erede di una famiglia trasferitasi -pare - dalla Liguria nella Grande Londra, a Clerkenwell. Fu l’ultima volta in cui Maurice Tillet salì fra le corde di un quadrato. Pochi mesi dopo, il 4 settembre 1954, un infarto se lo portò via. Qualcuno disse a causa della malattia, altri del dolore per la morte di Pojello. Rapito dalla sua storia William Steig cercò dettagli, studiò il busto di gesso dedicato a Maurice custodito all’International Museum of Surgical Science di Chicago e si procurò le foto del busto parte della collezione personale di Bruce Prichard, uno dei boss del wrestling mondiale. E su quelle linee così caratteristiche del volto di Maurice Tillet iniziò a tratteggiare con la sua matita e fantasticare con la mente, fino a partorire un’idea geniale, di un ‘gigante dal cuore buono’, dai tratti sì invero un po’ sgraziati ma dall’animo gentile e dalle espressioni a momenti persino ingenue. Tali da poter ricordare un ragazzo sereno e tranquillo che sa di dover convivere con un’immagine che non gli rende giustizia, ma capace di farsi ben volere, apprezzare e cosciente che alla fine tutti riconosceranno in lui l’angelo che sente ancora di essere. Lontano il dolore corrosivo della malattia, lontano il ricordo della battaglia combattuta con torace che si allunga, le estremità che crescono, il volto trasfigurato e irriconoscibile. Lontano il dispiacere di non riuscire più ad amarsi di fronte a uno specchio, di non riuscire a esprimersi più fluidamente come prima. La matita di Steig cavò pian piano fuori dall’immaginazione dell’illustratore i tratti di un ‘orco garbato e premuroso’, sempre consapevole della propria forza ma cortese. Verde. Le cui espressioni del volto somigliavano così tanto a quelle di Tillet rubate sul ring. La bocca digrignata, le orecchie sporgenti, gli occhi spalancati. Nacque così, in omaggio a Maurice Tillet, la favola di ‘Shrek’, il cui nome deriva dal tedesco ‘Schreck’ e dal termine in yiddish ‘שרעק’ , che significano ‘paura’ e ‘terrore’, ma che di spaventoso aveva nulla. Eh sì, perché la storia incredibile di Maurice Tillet casualmente continuò nel suo ‘avatar animato’ inventato da William Steig, che lo rese nuovamente vincente e amatissimo. Dapprima protagonista del libro omonimo ‘Shrek!’ del 1990, poi di una felicissima saga cinematografica a cura della DreamWorks Animation che lo renderà famosissimo, al punto da fargli ottenere una stella nella Hollywood Walk of Fame di Los Angeles, o in ciò che ne resta dopo il devastante incendio dello scorso gennaio, uno fra i cento personaggi migliori degli ultimi venti anni, nel 2010, su insindacabile giudizio dell’‘Entertainment Weekly’. Anche Tillet del resto era stato soprannominato ‘orco gentile’ dai suoi fans, un orco dal cuore enorme che dava all’amicizia un valore enorme. Come quella nata con Pojello dopo gli inizi un po’ facili ai peggiori malintesi. Non è da tutti infatti accettare di combattere sapendo di ‘essere un freak’ e di essere utile solo per quello. In realtà Pojello fu solo onesto con Maurice e gli prospettò i fatti e la realtà delle cose. Il timbro della voce e la perduta scorrevolezza del linguaggio avrebbero impedito a Tillet di fare l’avvocato. Di lavori sottopagati ne avrebbe ottenuti tanti, ma per misericordia e non per stima. Il rugby non lo avrebbe arricchito. La lotta gli piaceva ma per entrare a far parte di quel mondo doveva farsi conoscere. E per farsi conoscere – purtroppo - c’erano due soli modi: iniziare dal basso e senza certezze o fare rumore. In questo caso le caratteristiche fisiche diventavano persino un ‘atout’ da sfruttare. Di lui se ne sarebbe parlato eccome. Il patto era che lui sarebbe stato uno dei fenomeni da baraccone, ma Pojello non lo avrebbe mai trattato come tale, aiutandolo a diventare un wrestler vero. E su questo Tillet dovette convenire che aveva ragione il lituano. Fu così che diventarono amici per la pelle. E Pojello non lo abbandonò mai, neppure quando Maurice passò a combattere sul serio e diventò campione del mondo. I due rimasero sempre in contatto, sempre insieme, sempre pronti a sostenersi l’un l’altro in una storia di riscatto e di amore in un mondo difficile nel quale tutti e due erano sempre sul punto di venire schiacciati da qualcosa o qualcuno di più forte. Alla fine Maurice si era preso il proprio futuro e Pojello era stato un mezzo e viceversa. Tanto che il sospetto che Maurice non abbia retto alla notizia della morte di Carl non fu mai così campato in aria. I due erano legatissimi e Tillet fu – infatti - sepolto accanto alla tomba di Pojello, morto lo stesso giorno. In mezzo ai due c’è un bassorilievo di due mani che si stringono e la scritta “amici che neanche la morte ha potuto separare”.

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Lucio Rizzica