Tommy e Fritz, la storia del miracolo di Natale

La tregua di Natale del 1914 a Ypres, nelle Fiandre, durante la Prima Guerra Mondiale, è un fatto storico. Non fu concordata dai Comandi alleato e tedesco, ma fu una manifestazione spontanea di centinaia di soldati inglesi, francesi e tedeschi stanchi del massacro di cui erano vittime da mesi su quel fronte. Uscirono dalle trincee e smisero di combattere, almeno quel giorno, scambiandosi doni e auguri. Molti di loro scrissero ai familiari dal fronte, testimoniando in vari modi quell’incredibile miracolo. E parlando esplicitamente anche di una partita di calcio, giocata insieme ai ‘nemici’, per celebrare quella festività. Non ci sono prove inconfutabili, né dettagli precisi circa quella partita. Ma l’ultimo sopravvissuto inglese, Bertie Felstead, morto il 22 luglio del 2001 all’età di 106 anni, confermò in un’intervista che quella partita si svolse. E che lui stesso la giocò. Molte lettere dal fronte, scritte in quell’occasione, furono distrutte, nascoste o oscurate. Perché i comandi militari non volevano pubblicizzare un evento dirompente e impastato di quella che, ai loro occhi, era semplice insubordinazione. Soprattutto in Francia e Germania. L’Alto Comando inglese, nei giorni immediatamente successivi alla Tregua di Natale, inviò un dispaccio alle truppe decisamente esplicito: “Mai più tregue, partite di calcio incluse […]. In guerra non bisogna mai interrompere l'uccisione del nemico”. Ma i giornali inglesi ne pubblicarono molte, di quelle lettere, consentendo che arrivassero sino a noi. Uno di loro, per esempio, scrisse: “Davvero avresti stentato a credere che eravamo in guerra. Eravamo lì, parlando insieme ai nemici. Sono proprio come noi: hanno madri, fidanzate, mogli che aspettano il nostro ritorno a casa. E pensare che fra qualche ora ricominceremo a spararci addosso di nuovo”. E un altro: “Prova soltanto a pensare che mentre tu stavi mangiando il tacchino, io stavo parlando e stringendo le mani agli stessi uomini che solo qualche ora prima stavo tentando di uccidere”. Valentine Flaming, ufficiale inglese e deputato conservatore, prima di quella tregua scrisse al suo amico personale Winston Churchill per descrivergli la guerra di trincea: “Immagina un’ampia fascia larga una quindicina di chilometri letteralmente cosparsa di cadaveri, in cui fattorie, villaggi e cascinali sono mucchi informi di macerie annerite. Sarà una lunga guerra, nonostante dall’una e dall’altra parte ogni singolo uomo desideri che cessi all’istante”. Scenario che suggerì allo stesso Churchill una riflessione quasi profetica: “Che cosa succederebbe – confidò in una lettera alla moglie – se gli eserciti improvvisamente e simultaneamente incrociassero le braccia e dicessero che occorre trovare qualche altro modo per dirimere la questione?”. La ‘nostra’ storia Era l’inferno. Nessuna immagine lo incarna meglio di una trincea: un buco di due metri che si allunga e si snoda per chilometri disegnando un corridoio di fango sostenuto solo da sacchi di sabbia e travi di legno a perdita d’occhio. Un labirinto di paura e morte dentro il quale perdere libertà e sorriso, un monotono viale che imprigiona parole e pensieri. Tommy quella notte era di vedetta, immerso in un freddo intenso e pungente. Non c’era abbigliamento che potesse fornire un vero conforto contro quel gelo che cancellava le percezioni fisiche di mani e piedi e che paralizzava i muscoli del volto. Se per errore si fosse toccata una baionetta a mani nude si sarebbe corso il serio rischio di incollare le dita al metallo, se una lacrima fosse scesa dagli occhi si sarebbe trasformata in ghiaccio in un istante. Eppure per Tommy quel freddo era una buona notizia. Qualche giorno prima aveva sperimentato l’insidia del fango. Che risucchiava gli scarponi con maggior forza a ogni passo, fino a inghiottire i piedi alle caviglie. E quando cercò di liberarsi, anche le mani rimasero imprigionate in quella melma densa e malsana. Ci volle l’aiuto di due commilitoni per liberarlo da lì. Ora invece quel gelo aveva ricoperto tutto di un velo di ghiaccio: le pareti e il pavimento di quel buco, i corpi dei cadaveri insepolti in quel fazzoletto maledetto chiamato ‘no man’s land’, , che divideva dalla trincea nemica, persino il cielo, che sembrava di cristallo. Ma era meglio così. Almeno si poteva camminare senza affondare, almeno si poteva sperare che tutto rimanesse congelato nell’attesa del nuovo terribile ordine di attaccare. Per Tommy, soldato semplice del 2° Durham Light Infantry, quello era un comando assurdo e crudele, perché uscire dalla trincea per correre verso il nemico col fucile in pugno era un gioco che offriva solo due opzioni: morire subito falciati dai colpi provenienti da quell’altro buco o raggiungerlo per saltar dentro a un vespaio di tedeschi armati. Col risultato di differire la morte solo di qualche secondo. E quei pochi metri conquistati al costo di decine di vite sarebbero probabilmente andati perduti al contrattacco successivo. La chiamavano guerra di logoramento, era semplicemente un terrificante tritacarne: da una parte entravano migliaia di giovani, dall’altra colavano le loro vite. Era di vedetta, Tommy, quella notte del 24 dicembre 1914. Compito che si traduceva nello sporgere la testa dai sacchi di sabbia, di tanto in tanto, per controllare che dall’altra parte Fritz se ne stesse buono. Fritz aveva 19 anni, come la maggior parte dei ragazzi tedeschi che componevano il suo battaglione. L’anno precedente, prima dello scoppio della guerra, aveva lavorato per qualche mese a Victoria Station, a Londra, dove aveva conosciuto Brenda, la sua ragazza. Da quel buco pensava a lei costantemente, in quel buco sperava di non dover seppellire il sogno di rivederla abbattendo quel filo spinato di odio che ora lacerava non solo un amore, ma il mondo intero. Quella notte non riusciva a dormire, Fritz. Era la vigilia di Natale e il Kaiser in persona aveva fatto spedire al fronte più di 100.000 alberelli, insieme a pacchi con dentro salsicce, sigari e altri generi alimentari. Una specie di sostegno psicologico alla generazione di ragazzi mandati a morire in quella che in Germania sarebbe poi stata chiamata ‘la strage degli innocenti’. Il gelido buio era un mantello di orrore che gli ricopriva l’anima e Fritz si sentiva perso e terrorizzato. Fu forse per questo che prese in mano quel piccolo albero di Natale, frugò febbrilmente nel suo zaino, ne trasse una candela e si voltò verso il compagno alla sua destra: “Hai un fiammifero?”, chiese, rompendo il silenzio della sua trincea. Occhi negli occhi, tutti i soldati tedeschi diedero vita a un silenzioso passaparola. Per un istante la guerra sembrava meno tetra. Tommy era di vedetta, ma non pensava ci fosse nulla da vedere quella notte. I suoi occhi avevano già visto troppo: corpi straziati e mutilati, sguardi fissi nel vuoto, crateri nella terra impastata di sangue. Il gelo buio e silenzioso sembrava l’unico pallido dono che il Natale potesse regalare, pietoso diaframma opposto alla tremenda quotidianità. Così, quando vide quella luce fioca accendersi là davanti, rimase pietrificato per qualche secondo. Era la trincea tedesca, non c’era dubbio. Ma cos’era quella luce? Anzi, quelle luci. Perché subito ne comparvero un’altra e un’altra ancora. Tommy strabuzzò gli occhi e poi li strinse per mettere a fuoco meglio, mentre quella collana di fiammelle si allungava, una perla dopo l’altra. “I tedeschi hanno in mente qualcosa”, pensò. E un brivido di terrore gli attraversò la mente. “Tenente, guardi! Ragazzi, guardate!”. In un attimo il silenzio fu sommerso da un confuso rumore di scarponi, gavette, baionette, cartuccere, elmetti scossi da un panico tellurico. Fino a che il soldato Weasley non azzardò un’ipotesi: “Ma sono alberi di Natale!….ognuno illuminato da una candela!”. Non riuscì nemmeno a finire la frase che un canto si levò dalla trincea di Fritz. “E questo?” disse spontaneamente Tommy. “Questo è ‘Silent night’ – rispose Weasley – o meglio, per noi è Silent night, ma per loro in tedesco credo si chiami ‘Stille Nacht’ o qualcosa del genere”. “E da quando conosci il tedesco, Weasley!”, chiese quasi divertito Robertson. “Lo mastico un pochino, quasi niente. Ma questo canto di Natale l’ho sentito qualche anno fa per la strada. E mi è rimasto impresso”. Intanto il coro era arrivato alla fine della canzone, ma dopo pochi secondi di silenzio sospeso una voce con forte accento tedesco urlò: “Soldato inglese….soldato inglese, Buon Natale!”. Tommy istintivamente appoggiò il fucile, sfilò i guanti, e cominciò a battere le mani, palmo contro palmo, lentamente, meccanicamente. Disorientati, Weasley e Robertson lo imitarono. E così tutti gli altri, aumentando la frequenza in un applauso surreale, mentre Fritz cominciava ad intonare ‘Ar Hyd y nos’ , un canto gallese molto conosciuto in terra teutonica da quando Haydn, il grande compositore, scrisse una canzone popolare ispirandosi a quelle note . L’omaggio ai ‘nemici’ fu immediatamente colto e apprezzato, tanto che dalle due trincee i canti si fusero in un unico inno. Stavolta gli applausi furono più convinti e accompagnati da urla di gioia, fischi di approvazione, espressioni di condivisione. E così avvenne per il successivo ‘Good King Wenceslas’ proposto dai Royal Welch Fusiliers come ‘dono’ per i tedeschi. L’incredibile concerto durò tutta la notte, tra risate e battimani, come un rintocco che annuncia una magia. I primi timidi raggi di luce cancellarono la notte lasciando tutto sospeso nel silenzio e nell’attesa: “E adesso? Che succederà? Ricominceremo subito a sparare?” si chiese Tommy scrutando la cresta della trincea nemica. Fritz aveva le idee chiare, in merito. E approfittò dell’alba per prendere un pezzo di legno annerito e scrivere su un cartello una frase semplice e meravigliosa: “Don’t shoot, we don’t shoot” . Quando Fritz lo espose, Tommy lo vide e lo recitò ad alta voce per i compagni. Ma nessuno ebbe il coraggio di fare nulla: era una tregua o una trappola? Tommy azzardò senza pensare e gridò: “Ehi, tedesco, vieni a prendere le mie sigarette!”. La risposta di Fritz fu immediata: “No, se esco mi sparate!”. “Non aver paura – urlò Tommy – esco anch’io e ci incontriamo a metà strada!”. Il dialogo fu seguito da un silenzio di suspance da entrambe le parti, fino a che Tommy non si issò sopra i sacchi di sabbia mettendosi in piedi di fronte alla trincea nemica. Dalla quale emerse, sfumata nella foschia gelida del mattino, una sagoma grigiastra e imponente. Tommy avanzò, scavalcò il filo spinato nella terra di nessuno e ad ogni passo metteva a fuoco con maggior precisione quella figura indistinta, fino a trovarsela davanti. Aveva occhi azzurri e tristi, la fronte alta sporca di fango, la mascella scolpita e tesa in un’espressione che tradiva ansia. E una divisa diversa ma apparentemente più nuova e più ricca rispetto alla sua. Tommy aprì il tascone sul petto, estrasse un pacchetto di sigarette e gliele porse, senza dire una sola parola. Fritz le prese e ricambiò, sfilando dal cappotto un pezzo di formaggio. Sorrisero guardandosi dritti nelle pupille. “Mi spiace, non conosco la tua lingua ma credo tu conosca un po’ la mia. Mi chiamo Tommy”, “Piacere, sì l’inglese un po’ lo parlo. Sono Fritz”, “Auguri Fritz, buon Natale”, “Auguri a te, Tommy”. Si strinsero la mano e con la coda dell’occhio entrambi notarono di non essere più i soli protagonisti su quel palco improvvisato: tutti i soldati erano usciti dalle trincee e stavano lì, gli uni davanti agli altri, a scambiarsi doni. Chi riusciva a comunicare nella lingua altrui provava a intessere conversazioni, chi non poteva mimava cortesia e accoglienza. Il silenzio si fece brusio e poi confusione, con tanto di risate e pacche sulle spalle. Alcuni inglesi, dopo aver esplorato le case sventrate e annerite di Ypres, proprio alle spalle della loro trincea, ne uscirono con cappelli a cilindro, biciclette e travestimenti buffi, improvvisando spettacoli funambolici che divertivano i tedeschi. Mc Laugh, che da civile faceva il barbiere, si offrì di tagliare i capelli a un sassone di quel battaglione che fino a poche ore prima gli sparava addosso senza soluzione di continuità. E, dopo averlo fatto accomodare su una sedia improvvisata, cominciò a raderlo con la sua macchinetta chiedendogli, affettatamente, che tipo di sfumatura desiderasse. Molti si strappavano bottoni e lembi di divisa per scambiarli con analoghi frammenti offerti dai ‘nemici’. Non per impossessarsi di un trofeo, ma per avere un prezioso ricordo di quel miracolo. Torte, budini, salsicce, biscotti, birra, vino: tutto venne messo in comune per una sorta di pranzo natalizio tra il tetro ghiaccio della guerra. E fu a quel punto che spuntò fuori un pallone. Lo teneva in mano un tedesco di circa 20 anni che appoggiandolo sul palmo e porgendolo verso gli inglesi sembrava volesse allettarli proponendo una sfida. Dio, un pallone…era in realtà un cumulo di stracci legati insieme da stringhe rotte e cordicelle recuperate chissà dove. Ma in quella magia a tutti sembrò un pallone professionale. “Ehi ragazzi, chi sa giocare a calcio?” chiese a voce alta Robertson. E in men che non si dica quel gruppo di soldati confuso e vociante si divise spontaneamente in due squadre, di qui gli inglesi, di là i tedeschi. Tommy guardò Fritz e sorridendo lo avvertì: “Guarda che sono un ottimo attaccante”. “Non preoccuparti – rispose Fritz, cominciando a correre all’indietro – con me in difesa non passa nessuno!”. Un cenno della mano e ognuno corse nella sua metà campo. Elmetti e cappotti a disegnare i pali, cordoni di soldati come fisica linea… laterale, non di sbarramento. Il terreno di morte diventò terreno di gioco. Sconnesso, certo, evidentemente ghiacciato, ma di sicuro gioioso. Le squadre mica erano di 11 contro 11: di qui si contavano circa 50 giocatori, di là quasi altrettanti. “Siamo troppi! E quando mai la vedo, la palla?”, disse Weasley brandendo per il collo una bottiglia ancora mezza piena. “Ma che ti importa – rispose Tommy – tu corri. E se la palla finisce dalle tue parti calciala avanti e non pensarci. Mica devi inventare schemi di gioco!”. E in effetti quelle mischie che si producevano nelle zone dove presumibilmente stazionava il pallone non offrivano uno spettacolo di alta levatura. Così, quando quell’ammasso di stracci veniva colpito con forza schizzando fuori dal mucchio, molti altri correvano sul posto per comporre un’altra mischia senza capo né coda. Solo le urla di incitamento dei ‘tifosi’ a bordo campo davano il ritmo di una partita approssimativa e a tratti incomprensibile. Eppure la palla viaggiava da una parte all’altra. E quando Bertie Felstead la calciò forte verso la porta tedesca ci fu un improvviso urlo di esultanza dai lati del campo. “Ehi, avrà mica fatto gol?!” chiese Weasley brandendo quella bottiglia, sempre meno piena. “Credo di sì – disse Tommy, correndo indietro verso la sua metà campo – “passare gliel’ho passata. E non chiedermi come! Poi in quella mischia non ci ho capito più nulla, ma credo che Bertie l’abbia buttata dentro!”. “E andiamo! – esultò Weasley – 1-0 per noi!”. “Stai calmo, amico – recitò calma una voce con forte accento teutonico – tra un sorso e l’altro mi sa che non ti sei accorto che prima noi abbiamo fatto due gol. Avete solo accorciato, ma siete sotto!”. “Ma quando mai? – protestò Weasley con voce sempre più biascicante – tedeschi e pure bari?”. E giù risate. E abbracci. E risate. E chissenefrega se intanto la palla passava a un centimetro dai suoi piedi. Fu allora che il capitano Steed si alzò dal masso su cui si era appollaiato a guardare la partita. Da ore era compreso da sentimenti contrapposti: da una parte era felice, come tutti, per quella tregua spontanea che aveva celebrato il Natale più significativo della sua vita. Dall’altra era preoccupato, perché l’Alto Comando avrebbe certamente avuto da ridire, per usare un eufemismo, su quell’atto di evidente insubordinazione collettiva. Sapeva che la sua testa sarebbe caduta, che nella migliore delle ipotesi sarebbe stato degradato per aver consentito quella parentesi di amicizia in una guerra da combattere e vincere. E pensò che tutto, anche i miracoli, hanno un inizio e una fine. Fece qualche passo verso il campo e urlò: “Basta così, ragazzi! Gli Unni si combattono, non li si abbraccia! Tornate ai vostri posti, in trincea!”. In un istante la magia sparì. E quel campo, quegli spalti, quelle bandiere, quelle porte tornarono a essere ciò che erano: una terra di nessuno cosparsa di nulla. Come un incantesimo che di colpo cessa i suoi effetti, spogliando la realtà dal sogno. Calò il silenzio. Alcuni si abbracciarono, altri si limitarono ad alzare la mano in un cenno di saluto timido e grato, altri si incamminarono verso il loro buco voltandosi di tanto in tanto ad osservare quel campo nel quale avevano ritrovato per qualche ora una serena gioia ormai dimenticata. Solo Robertson sembrò volersi affrancare da quel clima tornato cupo, esercitando il registro leggero ancora per qualche secondo: “Ma alla fine abbiamo vinto o perso?” Felstead aprì leggermente un sorriso melanconico: “Abbiamo perso 3-2, amico mio. Ma che importa, mi sono divertito”. Tommy corse verso Fritz: “Gran salvataggio in scivolata, prima, su quella nostra occasione!”. Ma Fritz non sorrideva più. Guardò Tommy con uno sguardo inespressivo e gli disse: “Dalla tua tasca ho visto spuntare quella che sembra una cartolina. La è?”. “Sì – ripose Tommy disorientato – è una cartolina del Tower Bridge, la porto sempre con me per ricordare la mia Londra”. “Se la scrivo e ci metto l’indirizzo, la spediresti per me? Brenda, la mia ragazza, è inglese. E vive a Londra, accanto a Oxford street”. Tommy non rispose, ma estrasse la cartolina e gliela porse con gesto deciso. Con un filo di ferro immerso nel fango il ragazzo tedesco riuscì a scrivere solo ‘I love You, Brenda. Your Fritz’. Tommy la prese, la mise in tasca e disse solo una frase: “Te lo prometto, amico”. Poi guardò quel ragazzo voltarsi e camminare verso la sua trincea. “Ah, Fritz, ancora una cosa!”. Lui si voltò senza dire nulla. “Io domani non sparerò. E nemmeno dopodomani. Volevo che lo sapessi”. Fritz alzò gli occhi fino a incrociare il suo sguardo: “Oggi abbiamo avuto la pace. È stato un privilegio condividerla con te. Buona fortuna”. Non si rividero più. Tommy non sparò né all’indomani né il giorno successivo, ma fu spostato con tutto il suo battaglione qualche chilometro più a sud, per evitare che i volti amichevoli dei ragazzi dell’altra trincea potessero imporgli di chiudere per sempre la sua guerra. Morì qualche mese dopo, avvelenato dalle armi chimiche che il Kaiser decise di utilizzare per la prima volta nella storia proprio sul fronte occidentale. Fritz non sparò né all’indomani né il giorno successivo. Anche lui fu spostato con tutto il suo battaglione. Sul fronte russo. E non avrebbe mai più fatto ritorno a casa. Nessuno sa se Brenda abbia ricevuto quella cartolina. Con un messaggio semplice ed esplosivo, più di qualsiasi bomba. Quello dell’amore che cancella l’odio e ferma le guerre. Quello di un miracolo, caduto sulla terra il giorno di Natale del 1914. Solo un soldato tedesco rimase in disparte per tutto il tempo quel giorno. Era una giovane staffetta che vide e condannò. Scrisse sul suo diario che quel giorno l’anima tedesca perse la sua dignità. Anni più tardi lo pubblicò. S’intitolava Mein Kampf. Il suo nome? Adolf Hitler. Dedicato ai milioni di morti di tutte le guerre. A tutti i Sasha e i Victor che combattono sul fronte del Donbass. E a tutti gli Amine e i David che sperano nella pace tra Palestina e Israele.

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